2011/04/25

Anni difficili di Luigi Zampa - Modica & Vitaliano Brancati


La storia del Fascismo 
rivisitata a distanza di sessant’anni

    Restaurato dopo sessant’anni il film “Anni difficili”, prodotto dal siciliano Ferdinando Briguglio e diretto da Luigi Zampa. Le riprese furono fatte totalmente a Modica, prima città della Sicilia scelta come “location” per un film. Il soggetto era tratto da lungo racconto di Vitaliano Brancati, “Il vecchio con gli stivali”.  

      Modica. Era l’autunno del 1947, quando la bucolica quiete di una città di provincia fu sconvolta dall’arrivo di alieni. Agli occhi dei Modicani, l’evento richiamava alla memoria l’arrivo di un circo esotico con persone mai viste, che da pesanti camion con rimorchi scaricavano strani marchingegni. Si disse allora che a Modica si doveva girare un film intitolato “Il vecchio con gli stivali”.  
     La popolazione, sospettosa all’inizio, fu subito conquistata facendola parte dell’evento cinematografico. Giovani studenti, vestiti da avanguardisti, parteciparono alle riprese del film marciando fra labari e bandiere dell’Impero; uomini della strada, contadini, donne con scialle d’epoca furono coinvolti in un evento di cui nessuno conosceva contenuto e finalità, ma che era considerato interessante. Alla fine, l’entusiasmo della popolazione fu totale. La partecipazione gioiosa.
     Ma, erano tempi diversi. Tempi in cui ogni paese degli Iblei era una grande famiglia, quando i trasporti avvenivano a schiena d’asino e per mezzo di carri, e si cucinava ancora con frasche e carbone nella “tannura”. Tempi in cui la gente salutava “baciamulimanu” e il latte si vendeva per strada, munto alla bisogna, dalle mammelle di capre o mucche. Periodo sereno, insomma, quando tutti accettavano la realtà: mancanza di lavoro e fame, incertezza del futuro e arroganza del potere, convinti che il mondo era stato sempre così.
    Ferdinando Briguglio, giovane e intraprendente produttore siciliano, trovò a Modica la “location” ideale per un film che fu il primo girato negli Iblei del dopoguerra, una scenografia naturale offerta dall’ambiente, in linea con quanto richiesto dal neorealismo italiano. Tutti felici, insomma, ad eccezione della baronessa Cascino, risentita dal fatto che Massimo Girotti le aveva soffiato la cameriera offrendo a quest’ultima 10.000 lire al mese!
      Le riprese del film durarono quattro mesi, e per tutto quel tempo, città ed abitanti furono parte di un progetto di cui sfuggiva la portata. Per l’occasione, i Modicani, ebbero cose nuove da guardare e da raccontare. E si parlò di inviti a cena, del bellissimo Biagino Manenti che corteggiava le attrici del set, di corna che ornarono la testa di qualche persona, e soprattutto dell’avvenente Massimo Girotti, che restò indelebile nella memoria di molte signore.  
     Ma, gli anni dell’immediato dopoguerra rappresentavano per tutti l’alba di un nuovo giorno. Si aprivano le finestre al sole di una vita nuova. La macchina sociale messa a forzato riposo dalla guerra, ripartiva lentamente, e il film “Anni difficili”, rappresentò il segno tangibile di una economia che si rimetteva in moto.
      Poi, le riprese finirono, la troupe tirò i remi in barca, ringraziò e salutò tutti.  Dopo qualche tempo il film fu proiettato a Modica alta, al cinema Aurora. E però, durante la proiezione si registrò una atmosfera strana. Gli spettatori intuirono che il film era una cosa seria. Chi aveva vivo il ricordo della guerra sentì che la storia raccontata apriva ferite che stentavano a rimarginarsi. In alcuni passaggi il film, più che neorealista, era iperrealista. Scene di bombardamenti, per chi li aveva vissuti, evocavano indicibile angoscia. Rivedere federali e podestà fascisti in tutta la loro tracotanza richiamava alla memoria un passato storico che aveva seminato parole e raccolto guerra, promesso gloria e prodotto sofferenze e lutti.
     Il film che pure era stato girato con l’aiuto dei modicani, non rispondeva alle aspettative della gente comune. Soggettista, sceneggiatori, attori e regista erano riusciti a trasmettere i messaggi del film: caricatura di un sistema e sofferenza dei deboli, potenti che dopo la guerra cambiarono pelle, la fame di chi era costretto ad arruolarsi volontario per poter garantire a se stesso un piatto di minestra. Tutto questo faceva male. La coscienza di ognuno che tende a rimuovere i brutti ricordi era costretta a ricordare, a valutare, a tirare conclusioni da quella che era stata la storia degli italiani. Per questo, il film deluse alquanto le aspettative dei modicani, che forse credevano di andare al cinema per assistere a una romantica storia d’amore fra Massimo Girotti e la conturbante Delia Scala. Tanto avrebbe potuto dare un film americano. Invece, qui si raccontava la storia di un uomo, che per non essere licenziato dal lavoro era stato costretto a iscriversi al partito fascista, a indossare camicia nera e stivali, a partecipare alle parate militari. Ma, quando l’Italia perde la guerra, il protagonista perde il lavoro e anche il figlio ucciso dai tedeschi. Ma, dolore non meno grande per il nostro protagonista (e per gli spettatori) veniva dalla amara considerazione che, chi era stato al potere negli anni del fascismo, era rimasto al potere anche in seguito. Il film, che era una ferma denunzia al fascismo, ebbe “vita difficile”. Al suo apparire, il film fu ostacolato dalla Commissione Censura, composta tutta da funzionari fascisti di prima della guerra che Togliatti aveva confermato nella carica; fu ancora accusato di qualunquismo da alcuni giornali, ma alla Camera dei Deputati fu difeso da Andreotti, che riuscì a fare sbloccare il film consentendone l’approdo al Festival di Venezia.  
     Dopo sessant’anni, restaurato e alla sua “seconda” visione, e rivisto a distanza di tempo, il film risulta documento terribile e reale, spaccato di storia reale sotto ogni profilo: opera d’arte cinematografica, documento storico e antropologico assoluto.

                            Gino Carbonaro

2011/04/24

Diritto secondo Natura dei Siciliani

Comandamenti del Siciliano
Diritto secondo Natura


                                    di Gino Carbonaro


                                                                 
     Sulla Terra, esistono due forme di diritto: quello della natura e quello degli umani. Il primo è comune a tutti gli animali. Si trova scritto nel DNA delle specie e si compone di un solo principio: il diritto a vivere spetta a “chi-è-più”: più forte, più veloce, più viscido, più capace di mimetizzarsi, e così via. Nel diritto di natura, la morale non esiste. Ed è il diritto che troviamo applicato nella celebre favola di Fedro, Il lupo e l’agnello. Qui, la logica non c’entra, la ragione non vale. Il lupo ha fame e mangia. Il Diritto di Natura è quello che si applica nei conflitti: "Mors tua, vita mea", e si ritrova nella giungla e negli oceani, dove pesce mangia pesce.

     La prova di Dio, che si applicava nel Medioevo per stabilire chi fra due contendenti aveva ragione e chi torto, era fondata sul diritto naturale: alla prova del duello, chi vinceva aveva ragione. La ragione era del più forte: "Dio lo vult!"  

     Filosofi e fondatori di religioni, evidenziarono che il principio naturale portava danno alla collettività umana, e capovolsero la logica della sopraffazione, con un principio opposto: quello del rispetto dell’altro, e dell’uguale diritto a vivere per tutti. Nasce così la democrazia, che discende da questo nuovo principio. Fu sostenuto da allora che, se c’è una torta, questa deve essere paritariamente divisa a tutti.

    La schizofrenia sociale comincia, quando ci si accorge che ognuno di noi, non riesce a rispettare i nuovi (e innaturali) principi del diritto umano. In realtà, ciascuno di noi, senza confessarlo, continua a dare ascolto (ma, perché non dovrebbe!) all’altra voce, quella del diritto di natura che è inscritta nel nostro inconscio, e condiziona le nostre scelte. Così, ad ogni competizione o confronto, la nostra mente pensa come poter appagare il crudo e naturale desiderio di pensare a se stessi, di fare il proprio utile a spese degli altri. La forza è nella maschera, nel mimetismo; cioè, nel non farsi riconoscere dagli altri per quello che si pensa e si è..

      Il più schietto diritto del mondo è quello dei Siciliani. Coincide con il dettato della Natura.

  I Comandamenti del Siciliano:

  1. Ama a Diu, e futt’ô prossimu
  2. Nun fari beni, ca malu ti ni veni
  3. Cu ha duluri d’ê carni d’autri, i sŏ si manciunu i cani
  4. Cu’ cauria u scursuni nt’ô  pêttu, u primu muzzŭcuni è u sô
  5. Nun fari beni ê pôrci, ca  ti lu rênnĭnu a funciati
  6. Cu duna u culu all’autri, nun si pò assittari
  7. Joca cu to pa’, ma prima arrĭmìnicci i carti
  8. Sparti tu, ca cu sparti havi a mêgghiu parti
  9. Difênni u tô, o tôrtu o rittu
  10. Ôcchiu vivu e a manu ô cutêddu
  11. Cu futti futti, Diu pirduna a tutti
  12. Cu havi dinari e amicizia, si teni ntra lu culu la giustizia!
  13. U cumannari è mêgghiu d’ô fúttiri
  14. A cu ti leva u pani, lévicci a vita!

            Gino Carbonaro

Dhjeri di Cava Grande del Cassibile e Laghetti di Avola

Una escursione con il CAI: pagina di diario

      Oggi, domenica 21 aprile 2002 andiamo a Cava Grande (Laghetti di Avola) con un gruppo di soci del Club Alpino Italiano di Ragusa
     La partenza, come al solito, è fissata per le 8,30. La strada per raggiungere Cava Grande è quella interna: Giarratana per Palazzolo Acreide e la superstrada “Mare-Monti”. poi, sempre diritto, sino a quando, quest'ultima si restringe e diventa strada provinciale. Ancora dodici chilometri e la strada, molto bella per il suo percorso articolato e sereno, si bisforca: diritto verso Noto (e Noto Antica); a sinistra verso Avola Antica e Cava Grande. Altri dieci chilometri di strada stretta, asfaltata e serpeggiante, e si arriva nello slargo dove parcheggiamo le macchine.
     La giornata è primaverile, bella con un delicato tepore; solo un po' di nebbiolina vela la luce del Sole e attenua il calore. Scesi dalle macchine e sistemati gli zaini alle spalle, viene spontaneo avvicinarsi alla ringhiera di legno per dare uno sguardo allo strapiombo che si apre maestoso sotto i nostri occhi. Visti dall’alto, i laghetti sono sempre bellissimi, anche se il velo di foschia appanna il colore verde-smeraldo che nelle belle giornate colora le acque dei laghetti. Il sentiero che va giù al fondo della valle è stato aggiustato e arricchito da ringhiere di legno. Dall'altra parte della valle, misteriosa, la Grotta dei Briganti sembra sfidare il tempo.     
     Ora, attorno a una macchina,  si è creato un capannello di escursionisti, ci avviciniamo e scorgiamo due persone che spiegano delle mappe sul cofano di un’auto; sono le guide venute da Avola e contattate da Claudio Occhipinti, il coordinatore della gita. Le guide delucidano il percorso e danno cenni di storia del luogo. Sono entrambi vestiti per acquisire le phisique du rôle: cappello alpino e tuta mimetica, scarpe da montagna e corde e moschettoni da scalata alpina.  
     Sapremo che entrambi si chiamano Saro, ma uno è diminutivo di Rosario, l'altro da Baldassarre ed entrambi fanno parte della associazione ambientalista di Avola. Rosario è botanico-erborista, e accerteremo in seguito che si tratta di un superconoscitore di flora della macchia mediterranea, una sorta di enciclopedia viaggiante da consultare quando vuoi conoscere il nome di una pianta o di un’erba, e la risposta è sempre puntuale, chiara, scientifica.
     Baldassarre l’ambientalista, non è molto alto.  Ha barba grigia,  un sorriso dolce e benevolo, e lo diresti un naturalista uscito da un libro di favole per bambini.   Sembra solo mancargli la rete in mano per acchiappare farfalle. Di lui, accerteremo la sicura conoscenza del territorio, e sarà per merito suo se faremo una delle più belle escursioni dell'anno, un viaggio nella natura e nella storia del nostro passato: sarà lui a parlarci di Paolo Orsi, dell’archeologo Messina e di altri che si sono interessati ai Dhjeri di Cava Grande; ancora lui, ci indica percorsi invisibili e ci fa inerpicare per scoscese, anfratti e tunnel scavati nella roccia e sentieri a strapiombo sul letto del fiume Cassibile,
     Sulle mappe spiegate, Baldassarre racconta che a Cava Grande si è sviluppata una delle più antiche civiltà rupestri degli Iblei, e mentre fa scorrere il dito sulle carte topografiche, ci spiega che Dhjeri è termine dall’etimo sconosciuto che potrebbe derivare dall'arabo "dhjara", casa, abitazione.
     Quello che visiteremo non è un insieme di grotte isolate le une dalle altre, così come si vede a Cava d’Ispica, ma un vero e proprio villaggio strutturato, interamente  ricavato all'interno della montagna cavata, con grotte quasi sempre intercomunicanti fra di loro, collegate con corridoi, scale e canali sempre ricavati nella roccia, che mettono in comunicazione le varie parti della scarpata.
     I Dhjeri sono un reperto archeologico che noi impariamo a conoscere dal vivo, non mediato da libri, riviste, fotografie o riprese televisive: il viaggio è un bagno nel passato, una immersione in un mondo che non c’è più. 
     Dopo queste anticipazioni e alcuni avvertimenti sulle difficoltà del tragitto, ci muoviamo in fila indiana seguendo il percorso scosceso che porta giù al fondo valle, là dove il Cassibile forma incantevoli laghetti. 
     Il sentiero che percorriamo per raggiungere i Dhjeri è per la prima parte lo stesso che porta ai laghetti, ma a metà percorso seguiamo a sinistra un viottolo di mezza costa che procede verso nord  seguendo l'anatomia della costa.
     Tutto intorno è una esplosione di verde; gli occhi introiettano le immagini di una natura incontaminata; l'ossigeno riempie i polmoni e ricrea l'animo; in quella immersione nella natura viviamo una esperienza unica. Il rapporto con l'ambiente è sacrale, l’atmosfera magica; in alto, lontane, volteggiano due poiane, su un ramo d’albero si posa d’improvviso una cinciarella che subito guizza via impaurita,  in basso  nella valle  si aprono allo sguardo  laghetti e marmitte dall’intenso colore verde-smeraldo e cascatelle di acqua che si lasciano inghiottire dal verde lussureggiante della vallata. Nella costa di fronte altre grotte poste in posizioni irraggiungibili a strapiombo sulla valle perforano la roccia calcarea.
     Ora la mente è occupata da domande alle quali non si riesce a dare risposta. Ci chiediamo perché  questi uomini arcaici e primitivi, nostri lontani progenitori, hanno scelto di vivere in luoghi tanto impervi? Ci chiediamo a quanto risale questa civiltà delle rupi? Dieci o dodicimila anni come si dice o centomila anni, come tutto sembra far pensare. E perché nessuno si attiva per salvaguardare e valorizzare questo tesoro di cultura preistorica proteggendolo dall’incuria del tempo e facendolo conoscere al mondo?
     Queste sono le considerazioni che attraversano la mente, mentre si procede nel sentiero di mezza costa fra querce e pistacchi, impreziositi da cisti in fiore, e smílace, asparagi e rovi, acanti, salvioni ed euforbie, trifoglio bituminoso, ampelodesmi e stupende eriche in fiore che vengono fuori da umide spaccature della roccia, mentre in basso, giù nel fondovalle, vedi oleandri, che qui sono autoctoni e mostrano i primi boccioli in fiore ingentilendo il paesaggio.
     Improvvisamente la sorpresa: l’avanguardia composta dalle due guide di Avola, da Sergio Trovato, Giovanni Scribano e Claudio Occhipinti hanno fissato a un albero in alto ad una scoscesa delle corde e ci invitano a salire aggrappandoci ad esse; qui non esiste un sentiero, e per questo seguiremo le indicazioni delle nostre guide che indicano di fermarci all’ingresso di una grotta all’interno della quale si apre il primo tunnel, dove è possibile vedere gradini logorati dall’uso e dal tempo.
     Saliamo entro un tunnel con l’ausilio di lampade e sbuchiamo su uno strapiombo. Ancora una disposizione di corde e una risalita che disciplinatamente viene fatta fare a tutti gli escursionisti; alcuni, più agili salgono attaccati ad una sola corda, altri vengono imbracati, cioè attaccati alla vita con una terza corda che li trattiene in caso dovessero scivolare.
     L’escursione è bellissima, l’esperienza indimenticabile, l’arric-chimento culturale è indicibile.
     Si arriva, infine, là dove l’incredibile deve essere credibile. Per qualche motivo abbiamo la certa impressione di essere tornati indietro con la macchina del tempo: lì, in quelle grotte cavate con chissà quanti sforzi e in chissà quali tempi, pullulava la vita di una delle più antiche civiltà delle rupi d’Europa, forse più antica della civiltà castellucciana. Tanto si evince dal fatto che il villaggio castellucciano, come un castello medievale, è costruito sul cocuzzolo di una montagna, in posizione strategica e difendibile e difeso da mura di cinta. I Dhjeri di Cava Grande sono realizzati come un formicaio ricavato nella roccia.
     Ora ci fermiamo per consumare la nostra colazione a sacco, cerchiamo un angolo dove potersi distendere, conversazione distesa fra amici e colleghi, complimenti agli organizzatori, commenti su quanto si è visto, quindi la visita accurata alle grotte, alcune delle quali lasciano tracce di culture che andrebbero conosciute meglio.
     Si torna a casa nel pomeriggio inoltrato facendo una fermata “culturale” al bar per consumare un dolcino, un gelato, un caffè.
                                      Gino Carbonaro



Castello di Donnafugata - Ragusa


Gioielli di Sicilia

Un’opera d’arte firmata: barone Corrado Arezzo de Spuches

1.  il nome e la fondazione del Castello

            Il nome Donnafugata (in sicil. Ronnafuata) viene fatto derivare dall’arabo ’ayn-as-jafât’, [1] che dovrebbe significare “Fonte della salute”;  resta, comunque, poco chiaro come nel corso dei secoli la parola araba, fatta propria dai siciliani, abbia potuto nel corso dei secoli essere modificata in questo modo.
            I più, fanno risalire le origini del Castello di Donnafugata all’anno Mille, al tempo della dominazione araba in Sicilia, [2]  e qualcuno ritiene siano stati proprio gli Arabi a costruire le torri di avvistamento con annessa guarnigione militare fortificata per controllare il mare.
             E’ più probabile, invece, che siano stati i Normanni a costruire la vedetta turrita, che prese il nome dalla sorgente che  era stata battezzata dagli Arabi. [3]
 Ed è forse più attendibile, che siano stati i nuovi dominatori a costruire una guarnigione per il controllo della parte sud-orientale della Sicilia, dalla quale, per secoli ancora i Normanni [4]  temettero possibili sbarchi ad opera dei temibili Saraceni. [5]   In questo caso la fondazione del fortino dovrebbe essere spostata al XIII sec.


 2. Primo ampliamento del Castello

            Verso i primi del XIV sec. il Conte Manfredi Chiaramonte fa costruire accanto al primitivo Castrum una più ampia struttura abitativa, sempre difesa da alte mura, come era nella logica del tempo. [6]
 Lentamente, la costruzione cambiò la connotazione: da struttura militare divenne residenza padronale per la gestione del patrimonio agricolo (frumento, carrube, olive, e così via). Di fatto siamo all’idea della villa gentilizia, che è posta al centro del feudo, dalla quale i proprietari sovrintendono e controllano il feudo e l’annessa masseria.

3.   Il Castello di Donnafugata viene acquisito dalla famiglia Arezzo

        Verso la metà del XVII sec., il feudo di Donnafugata, [7] con l’annesso casato passa dal barone[8] Gugliemo Bellìo Caprera a Vincenzo Arezzo la Rocca barone di Serri, che nel 1648 ottiene l’ulteriore investitura di Barone [9] di Donnafugata.     
         Ma è solo nella seconda metà dell’Ottocento che il Castello acquisisce la forma e le dimensioni attuali.
 Fu dopo la realizzazione dell’Unità d’Italia che il barone  Corrado Arezzo de Spuches, erede di una delle più nobili e ricche famiglie iblee, marito di donna Concetta Arezzo di Trifiletti, dà inizio all’ampliamento del Castello di Donnafugata, che realizza attorno all’antico nucleo abitativo e a due torri saracene rimaste.
 L’impegno economico è notevole, lo scopo è autocelebratico o se vogliamo di status; il modello nella mente dell’ideatore dovrà ricordare lo sfarzo della reggia di Versailles. Di fatto il Castello di Donnafugata, che si sviluppa su una superficie di 3348 mq, e conta ben 122 vani utili, ha tutte le caratteristiche di una piccola reggia: 80.000 mq di parco ricco di piante esotiche, vasche, giochi d’acqua, scherzi, giardini alla francese e persino un labirinto; copie di statue del Canova (Fauno e Psiche) nella superba e luminosa scalinata di ingresso; salone immenso dove sono affrescati gli stemmi dei casati e delle città più importanti della Sicilia, a ricordo di quanto è possibile trovare al castello di Windsor; salone degli specchi, copia ridotta di quanto era stato ideato nel XVII sec. dai famosi architetti di Versailles; sala della musica, salone per i fumatori con annessa sala da biliardo, salone delle donne, camera da letto del vescovo (per quando veniva ospitato); e ancora, una fornitissima biblioteca ricca di libri rari, preziosi e tutti rilegati; una pinacoteca ricca di opera bellissime, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello per un nobile uomo di cultura; e persino un museo di reperti archeologici con vasi e ceramiche greche provenienti dalla vicina Camarina.
 Tutte le pareti sono ricoperte con carte da parati damascate e tessuti di seta, con affreschi e trompe-l’oeil, ancora arricchite da quadri di pittori famosi, soprattutto ritratti di ottima fattura; e ancora tendaggi alle porte e alle finestre, lampadari con vetri di Murano, specchi, stucchi e decorazioni, e sui mobili e ovunque sono messi in bella mostra decine di orologi d’arte, opera di famosi orologiai svizzeri.
Nel Castello, che va considerato un’opera d’arte, senti ovunque la mano del barone Corrado Arezzo (à vedi scheda), ideatore e coordinatore del tutto; un uomo dalla personalità   eclettica ed eccezionale, se si pensa al livello culturale della nobiltà di quell’epoca.
 Sicuramente intelligentissimo ed eccezionale questo uomo ricchissimo, dotato di ampia cultura, [10] nella accezione propria del termine; finissimo intenditore di arte, amante della musica, della pittura, della poesia, del teatro, dotato di un gusto sicuro e interessato a problemi economici e politica.
         Di fatto, il Castello di Donnafugata è il ritratto della sua filosofia della vita e della sua personalità. La collettività iblea non avrebbe ereditato questo gioiello senza l’intervento del   barone Corrado Arezzo de Spuches.
 Sul Castello di Donnafugata, forse giustamente criticato per il suo disarmonico eclettismo, pesa non poco l’intervento voluto dall’erede francese Gaetano Combes, barone di Léstrade, che verso i primi del ’900 fece aggiungere alla facciata preesistente un loggione-galleria di stile neo-gotico, veneziano, si è detto, ma sostanzialmente liberty[11] veneziano e neo-gotico, che, anche se bello, si salda malamente con la precedente austera struttura del Castello e stride non poco con il landscape e le costruzioni circostanti.

                                                        Gino Carbonaro
                                                           9 gennaio 2003         
                                                            
[1]  L’attribuzione è di Raffaele Solarino che la riporta ne La Contea di Modica;  la Fonte della salute esiste tuttora a Donnafugata e pare alimenti un pozzo.
[2]  L’invasione araba va dall’anno 827 (inizio della conquista) all’anno 1098. L’ultima battaglia fu quella combattuta nella piana di Donnalucata. In quella occasione in aiuto dei Cristiani scese dal cielo la Madonna, bianca su un cavallo bianco, che combattè a fianco dei Normanni per sconfiggere gli infedeli.
[3]  Tanto si ritiene di poter affermare in quanto, prima della invasione della Sicilia, gli Arabi detenevano il controllo del Mediterraneo, e non lo perdettero neppure dopo la cacciata avvenuta alla fine dell’XI sec. ad opera dei Normanni.
[4]  La regione degli Iblei fu l’ultima ad essere espugnata dai Normanni dopo una guerra durata trent’anni. Per questo fu eletta a Contea. IL privilegio era dettato dalla sua importanza militare.
[5]  I Turchi perdettero il controllo del Mediterraneo dopo la battaglia navale di Lepanto (1571).
[6]  Fonte non confermata.
[7]   Il feudo è eletto a baronìa al tempo della dominazione spagnola.
[8]  Barone: è uno dei titoli più diffusi e certamente il più basso dell’ordinamento feudale. Il nome, di origine spagnola, vuol dire “Uomo (libero)”, “Signore” e indicò il Feudatario che veniva investito direttamente dal sovrano. In Sicilia era il titolo nobiliare più comune dopo quello di cavaliere. Nei tempi passati si acquisiva dietro pagamento di una somma fissata dal re e pagata dal futuro titolato. Il re bandiva periodicamente la concessione di titoli nobiliari allorquando aveva bisogno di soldi (sistema indiretto di tassazione una tantum):  per rinnovare la flotta, per rinsanguare la dote di una figlia da sposare, o quando le casse erano vuote. Barone, dunque, è l’uomo potente, che spesso si fa arrogante e pre-potente; per questo il termine barone acquisì nel corso dei secoli una accezione negativa: nel senso di individuo che conosce solo la sua legge, quella del più forte. Baro, detto di chi truffa al gioco, deriva da barone.
[10]   Cultura è la capacità produttiva della mente.
[11]  Lo stile Liberty prese il nome da Arthur Liberty, un architetto-disegnatore inglese, che verso la fine dell’Ottocento inventò un nuovo stile artistico che si ispirava ad un totale eclettismo, mescolando lentamente, arte egizia, greca classica, romanica, gotica, veneziana e floreale con rigidi principi geometrici e libertà di inventiva.

Sesso, odori, igiene, bidè


   
Il profumo di baccalà


Considerazione sociologica di arte culi-naria


                                                           di Gino Carbonaro



   Una tempo, quando tutti andavano alla fontana con le brocche per prendere l’acqua, e non era stato ancora inventato il bidé, l’igiene personale era un optional conosciuto da pochi, ma messo in pratica da nessuno. 

     Il risultato era che uomini e donne avevano un forte odore personale che esalava da tutto il corpo, e che serviva per la identificazione personale. Per dirla con Patrick Süskind, una volta puzzavano tutti. Puzzavano gli animali e puzzavano gli uomini, puzzavano strade e piazze, monache e preti, nobili e plebei, maestri di scuola e alunni. E puzzavano gli interni della piccole abitazioni. Insomma, puzzavano tutti. Il motivo è semplice. Non c’era acqua in casa e, come dice il proverbio “Ad impossibilia nemo tenetur”. 
   
      Le parti più odorose (non ci va di definirle profumate) nelle quali gli odori si concentravano erano quelle intime del basso corporeo: la fettina schiacciata fra le chiappe, le cosce e il pube; parti quotidianamente usate e raramente sciacquate; soprattutto quelle della donna, dove l’odore, ancora oggi, si intènsi-fìcava (come dice la stessa parola). Sta di fatto che, allorquando gli interessati, con delicatezza e garbo mans-turbavano (cioè, turbavano con le mani) quelle zone, chi vi avesse prestato attenzione avrebbe potuto sentire esalare un odore inconsueto, che qualcuno, bontà sua, riteneva afrodisìaco, mentre ad altri ricordava il profumo del baccalà bollito; e convinto ancora che la femminea parte in oggetto avesse una forma triangolare, vagamente simile - anche se in piccolo - a quella del baccalà essiccato, tutti i maschi per unanime consenso, si riferivano ad essa usando il termine “baccalà”: “Ieri sera ho mangiato una fettina di baccalà…! Anche stasera mi piacerebbe mangiare… baccalà! Mia moglie mi prepara sempre il baccalà! Sento odore di baccalà!  Queste erano le innocue battute che circolavano di bocca in bocca.
 

Baccalà


   E ancora riferito a una donna: “Quella deve avere un baccalà!” Erano queste le frasi con le quali ci si riferiva a quella cosa coperta di cui all’epoca godeva più l’olfatto che la vista. 

     Oggi i tempi sono cambiati; tutti abbiamo acqua in casa, i bidé non mancano e le docce non dispiacciono a nessuno. Così, in una società diventata asèttica, tutto viene quotidianamente sciacquato, disinfettato e scrupolosamente deodorato.

   Oggi, l’odore di baccalà non piace più a nessuno! Certamente è passato di moda. Il mondo gira!

 Gino Carbonaro

2011/04/23

Museo, per non perdere la memoria


    Importanza dei Musei ?
    Passato che vive in noi?

    Stiamo perdendo la memoria. La televisione riempie di nulla gli interstizi della nostra mente, rubandoci i nostri pensieri. Per strada, di sera, le luci di città impediscono di guardare la volta stellare. In compenso conosciamo stelle e galassie riportate nei libri. Ad ogni attimo della nostra vita tagliamo una radice che ci lega alla nostra terra e al nostro passato. Resteremo come alberi senza radici, destinati a perdere il rapporto con sé stessi, l’identità, e infine il sostentamento che gli deriva dalla base, dalla terra, dal passato. Ognuno di noi vive in equilibrio instabile fra passato e futuro: non possiamo dimenticare il passato, non dobbiamo dimenticare il futuro. 
     Gli archivi sono la memoria del passato. Sono le fiaccole di una ipotetica gara a staffetta che consegniamo alle generazioni future. Ognuno di noi è un tedoforo.
     Del nostro passato, un uragano ha spazzato via tutto. Ora, riusciamo a raccogliere solo frantumi di quanto è rimasto.
     Se la vita è una corsa sfrenata verso un meta non segnata da alcuna mappa, è doveroso prendere atto della drammatica situazione e correre a immediati e responsabili ripari. Nessuno di noi può dirsi fuori.  Nessuno può farsi ingannare da false giustificazioni. Il futuro è dei nostri figli. In quel futuro ci saremo solo nella memoria di quello che abbiamo fatto: noi siamo le radici del futuro.
   Tempo fa, nell’Umbria, sommersa dalla neve e funestata da una scossa di terremoto, in un paesino di montagna, una squadra di uomini lavorava sotto le sferzate del vento per riparare un tetto crollato. Per quegli uomini era importante riparare quel tetto: quella casa custodiva la memoria del loro villaggio, e non volevano perderla. In quella casa c'erano i tesori del loro passato, quelli giunti sino a loro dalla notte dei tempi; in quella casetta di montagna era il loro piccolo, grande "Musèion". Si trattava di un letto, di alcune sedie, di poveri utènsili: ma quella era la loro memoria del passato.
     In una libera discussione fra amici, il direttore di un Museo Etnografico degli Iblei lamentava il suo disappunto per il fatto che tutti in Provincia organizzavano musei etnografici ad imitazione di quanto esisteva già nella sua città.
     Quel signore non poneva in conto che ogni città, ogni scuola, ogni famiglia: tutti dovremmo avere un cassetto, un armadio, un angolo, dove conservare e custodire la memoria al nostro passato. Un carro siciliano? Potrebbe essere esposto ovunque: anche in una pubblica piazza, in una vetrina, o anche per strada come arredo pubblico. E chiunque potrebbe osservare i frutti del passato. Oggi, tutto del patrimonio umano appartiene a tutti. Questa è la civiltà.
                               
                                                        Gino Carbonaro