2012/05/29

Carusanza di Giuseppe Cavarra


Carusanza
un'opera di Giuseppe Cavarra

di Gino Carbonaro 

Questo libro, Carusanza, di Giuseppe Cavarra sembra venire da lontano. Da una dimensione spazio-temporale non definibile. Da un mondo che non c’è più. Là dove le montagne parlano al cielo e il gheppio domina il vento e il silenzio avvolge ogni cosa. Qui, ai limiti della realtà, sorge Límina, un paese antico, cullato dal tempo. Qui, in questo angolo dei Peloritani, fra burroni e dirupi di capre, sono i natali e la fanciullezza di Cavarra. Così, leggendo Carusanza, rivedo montagne di fiaba. Respiro aria pura. Assaggio quel vento. Faccio mio il silenzio, mistico, di quei luoghi.

Carusanza è un diario dell’anima. Dialogo, forse monologo, che il poeta instaura con se stesso o con i suoi fantasmi, ai quali cerca di ridare una parvenza, un corpo, una definizione. Carusanza è un parlare dolce, sottovoce, che un figlio fa con la Madre, oggi cenere muto, di un passato che continua a vivere ancora nel presente della sua anima, della sua mente. Modo per testimoniare un affetto, per confermare una identità, una corrispondenza elettiva di sensi amorosi.

In questa operazione, l’evento è reso possibile dal linguaggio. Bellissimo, inusitato, strano, diverso,  vichiano. Linguaggio che pare levigato dal tempo e vibra di una luce antica. È il parlare dei Liminesi, di coloro che hanno abitato quei luoghi di mito, che sono vissuti per millenni in questa isola di strapiombi e granito. Isola nell’isola. Essenza delle essenze.

In queste poesie, le parole sono pietre, macigni, austeri, pesanti, forti. Pietre posate, una accanto all’altra, incastonate, come muri a secco, logici nella loro positura, monumentali, maestosi, funzionali, messi lì per ignorare venti ed e-venti e sfidare il tempo. Pietre per costruire un ricordo, un riparo, un argine capace di vincere contro le tempeste del nulla, della indifferenza, della superficialità, del vuoto. Parole, per non cadere in quegli sbàusi ca l’òcchju nun tocca mai u funnu, intendi, anche, lo strapiombo della morte.

Questo piccolo libro è come un nuraghe. Un monumento (solitario) che non grida la sua presenta. Ma è proprio lì, nel suo interno, custode di silenzi sacrali, che cova la vita.

C’è in questa opera una forza che non è consueta nella poesia. Un linguaggio arcaico, ma elegantissimo, finissimo, come vuole la raffinatissima cultura di questo figlio della terra sicula, di queste montagne austere che grondano storia. Immagini, ricordi, evocazioni, pensieri vaganti, un filo di filosofia appena occultata, mistero del nostro esistere. Un libro bello. Un dono che Giuseppe Cavarra fa alla sua Terra, ai suoi cari di un tempo e a quelli di oggi, al suo essere stato “altro” da quello che è ora. Profumo di nepitella. Verde e giallo di una selvaggia ginestra, riservata nel suo vivere di roccia. Un libro che è documento, atto, testamento. Libro che, nella estrema sintesi di chi conosce le siccità estive della nostra terra, e sa quanto vale il poco che è tutto, custodisce un numero non definibile di messaggi, che emergeranno lentamente, come fiori che aspettano il tempo per germogliare. Perché questo non è libro di una sola lettura. È libro che va gustato, assaporato, pensato, apprezzato, capito, poi, metabolizzato. Il suo messaggio appartiene a tutti.

Antologia di Spoon River? Forse sì, un poco, per quella volontà di evocare fantasmi. Ma, in Lee Edgar Masters il punto di vista è un altro. L’atmosfera è cimiteriale, le anime-morte sono parlanti e protagoniste. Qui, è come davanti a un grande tribunale della storia. D’altro canto Masters era stato un poco anche avvocato. Spoon River è una sorta di Inferno dantesco visto da una angolazione diversa. Spoon River è altra cosa.

In Carusanza, l’io-narrante è figlio di una terra sana e santa. Se proprio necessita un accostamento, questo libro ha, semmai, un referente greco, omerico. Se di analogie bisogna parlare, potremmo accostare Lee Edgar Masters e Cavarra, insieme all’altra grande Antologia, quella Palatina, alessandrina, dolce, forte, memoriale, essenziale nella sintesi che non dà spazio all’effimero.


                                                                                                 Gino Carbonaro

Ragusa, 22 novembre ’05 

P.S.   Per chiudere, sento di dover fare gli elogi all’Editore, Dr.  Antonino Sfameni, per la veste che ha dato a questo libro prezioso: grazia del carattere e corpo, formato della pagina, impaginazione con scelta centralizzata del rigo, interlinea e carta speciale. Ma, mi si consenta di fare i miei complimenti ancora a Piero Sérboli per la bellissima incisione riportata in copertina, incisione che fra l’altro si adatta al tema trattato

Gentile prof. Cavarra,

     Due giorni fa, passando dal Centro Studi F. Rossitto, Umberto Migliorisi mi ha dato il Suo libro, Carusanza. Io avevo sentito parlare di Lei, e forse in qualche Premio Vann’Antò, l’ho anche intravista, ma nulla di più. Umberto mi ha invitato a leggere il libro e a scrivere le mie impressioni quando avrei avuto tempo. La stessa sera, però, incuriosito, cominciai la lettura di questo libro, che mi sembrò subito diverso, strano nelle sonorità, atipico nel suo linguaggio, nei suoi contenuti, ma anche di non facile lettura. Lessi più volte le prime sei o sette poesie, poi spensi la luce, pensando a chi scriveva in questo modo così nuovo.

    La mattina dopo ritornai a leggere ancora altre poesie, poi ritenni giusto scrivere le mie impressioni a penna (io non scrivo a penna da anni); ma, scrissi una lettera a Umberto, e più tardi lo chiamai e gliela lessi. Mi invitò a modificare l’apertura perché lo scritto era rivolto a lui e non era elegante. In buona sostanza, sono delle mie “sincere” impressioni. Io, solitamente, scrivo poco, e certo non avevo proprio adesso il tempo, né la concentrazione, per una recensione, dal momento che sto mettendo a punto una mia conferenza dal titolo Da Meyerbeer a Favara, Poesia e Musica Popolare Siciliana, che terrò - come Le avrà detto Umberto -  a Messina presso la Filarmonica Laudamo, in Via Laudamo, alle 19 del giorno 30 novembre.

    Comunque, la lettura delle Sue opere non è finita. Ora il dolce Umberto mi ha passato un altro Suo libro, Vamparizzi, del 1975. Un altro libro che mi sembra con la “L” maiuscola.

    En passant, devo dire che mi è piaciuta la veste tipografica di Carusanza. Veramente un gioiello di arte libraria, soprattutto mi è piaciuta l’incisione. E se ce l’ha Lei, la tenga cara.

     Un caro abbraccio, e l’augurio di poterci incontrare al più presto, magari a Messina il prossimo mercoledì 30 novembre.
                 
                                                  Gino Carbonaro

2012/05/25

Sesso & Afrodisiaci



Sessualità del maschio
Afrodisiaci nella storia dell’uomo


In tutti i tempi, in tutte le società, è considerata penosa 
la perdita di sessualità del maschio. 
Ma, già nei tempi antichi, quando non erano stati scoperti i vigorosi effetti del Viagra, si faceva ricorso agli afrodisiaci. Aristotele suggeriva agli afflitti di mangiare la carne 
degli sfrenati passeri capaci di “coīre” 
settantasette volte in una sola ora (!!). 

Ovidio, nell’Ars amatoria, suggerisce a maschi adulti di non far mancare a tavola uova di pesci, granchi di fiume e gamberi di mare, da consumare tre ore prima dell’incontro amatorio; alla bisogna erano considerati autentici toccasana testicoli di gallo, pappagallo, agnello e toro, da assumere preferibilmente a digiuno. La Scuola medica Salernitana considerava il fico “frutto che spinge a Venere”. L’analogia è chiara. Se fica era il sesso femminile, mangiare il frutto del fico avrebbe agevolato il raggiungimento dell’obiettivo. 

Nel medioevo, gli alchimisti fecero la fortuna del “Satyrium hircinium”, fungo falloide che diceva nel nome quanto prometteva. Chi lo assumeva diventava un irco-satiro affetto da satiriasi insoddisfatta. Nel Settecento libertino, alla corte di Versailles, si fece largo uso di polvere di cantaride, prezioso ingrediente in una “cuisine d’amour” nella quale non doveva mancare il vino, perché “sine Bacco frigescit Venus”. Di quel tempo sopravvivono ancora ricette usate da favorite di sovrani e príncipi di casa reale: famosi i “Filetti di sogliole alla Pompadour”, “La suprème di sogliola alla d’Estrée”,  le “Uova affogate alla Du Barry”, ma quest’ultima ricetta risaliva a “Cleopatràs lussurïosa”, colei che incatenò a sé uomini del taglio di Giulio Cesare e Antonio. 

Da che mondo è mondo, però, l’afrodisiaco per eccellenza è costituito dalla mandragora (pampina di aona) la cui fama deriva dalla singolare forma delle sue radici che (incredibile, ma vero) assumono sembianze di corpo umano, a volte di donna, a volte di uomo. Dell’uso della mandragora e dei suoi effetti si parla in una gustosa commedia del Machiavelli, ma altresì nella Bibbia, nella storia di Giacobbe e della sue mogli. Rachele la prima moglie, che non ha figli, e Lia che è una giovane schiava. Ecco cosa recita il libro sacro: “Ruben trova delle mandragore e le porta alla madre Lia. Rachele si rivolge a Lia e le dice: “Dammi un po’ delle mandragore di tuo figlio”. Ma Lia rispose: “È forse poco che tu mi abbia portato via mio marito? Perché vuoi portare via anche le mandragore di mio figlio?” La sera, quando Giacobbe arrivò dalla campagna, Lia gli andò incontro e disse all’uomo: “Da me devi venire, perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio”. Così Giacobbe si coricò con lei quella notte” (Genesi, 30, 14). È questo un documento (biblico!) nel quale si prova che l’uso degli afrodisiaci è antico quanto il mondo e che il potere della mandragora era conosciuto migliaia di anni prima di Cristo. Adesso non resta che provare per credere. Le mandragore si possono acquistare in erboristeria!

                                                           Gino Carbonaro

Joseph Carbonaro, Ragusan doctor


Knight of the Legion of Honor

Joseph Carbonaro, Ragusan doctor

 
Gino Carbonaro 
  Translation in English  
by Douglas Ponton


The Order of the Legion of Honour was instituted in 1802 by Napoleon Bonaparte to recognize the merits of "warriors having rendered service fighting for the Republic". As well as soldiers, however, it also recognized the merits of civilians, including foreigners, who were distinguished in cases of exceptional merit. The ten-pointed star of the Legion of Honor, considered one of the most coveted awards in the world, was awarded in 1851 to Dr. Joseph Carbonaro, a Sicilian doctor, for distinguishing himself in the study of cholera.



Cholera - not to be confused with the plague – made its first appearance in Europe, from India via Amsterdam, in 1826, and reached first northern Italy in '32, and Sicily in '37. Cholera victims suffered from acute pain, writhing, vomiting, convulsions and cramps accompanied by high fever and uncontrollable diarrhea. The causes and therapies of the deadly virus were unknown.The only effective defence against the evil was to abandon towns, to prevent contact and contamination. The nobles shut themselves in their country houses, but also priests, doctors and authorities responsible for managing public affairs abandoned their offices and fled. All this took place while the enraged populace looted barns and went looking for scapegoats. Posioners were widely blamed for the epidemic.


On this pandemic are founded the merits and fame of Joseph Carbonaro, a physician born in Ragusa Ibla, 4 May 1800. The son of a notary, he graduated in medicine at the University of Palermo, Naples, and studied surgery in the very years in which the "cholera epidemic" was spreading throughout northern Italy. While everyone fled, Dr. Carbonaro asked the King of Naples, Ferdinand II of Bourbon, for a safe conduct to go to Tuscany where the cholera was raging. The purpose of the young doctor was to study the Asian disease in the field. In Tuscany, Dr. Carbonaro took notes and recorded the symptoms of the disease and made a diagnosis. On his return to Naples he published the "Epitome on the Asiatic cholera disease observed in Livorno in 1835" (Naples, Bari, 1836).

When cholera arrived in the Kingdom of the Two Sicilies, King Ferdinand appointed him director of the Neapolitan hospitals, and entrusted him with the task of organizing the defence of the city of Naples. From this moment the name of Dr. Carbonaro became known througout Europe and he was invited everywhere to report on his first-hand experiences.

In 1848 the Iblan doctor was asked by the British government to travel to Malta - then an Anglo-Saxon dominion - to diagnose some cases of suspected cholera which had been detected on an arriving ship. The diagnosis was crucial, because if it were cholera, all ships would have to be detained in quarantine, with severe damage to the economy of the island. The diagnosis was therefore crucial.

In 1851, Dr. Joseph Carbonaro was invited to Paris to attend the "International Sanitary Conference." Here, sustained by his wide experience, he described his research on cholera to an audience of doctors. For these reasons, and on that occasion, Dr. Joseph Carbonaro became the first Italian to receive the coveted award of the Knightly Order of the Legion of Honour from the French government. It is recognition that should not be forgotten.

                                              Gino Carbonaro
                          Translation in English 
by Douglas Ponton 




2012/05/24

S.A. Guastella, Saggio n. 1 sul "Vestru"


Serafino Amabile Guastella

Saggio introduttivo al Vestru

di Gino Carbonaro


Qui negli Iblei, la figura di Serafino Amabile Guastella, non ha bisogno di presentazione. Sino a qualche tempo fa, non era difficile trovare persone pronte a ripetere a memoria  le cinquantanove sestine del “Vestru”.

Quello di cui tuttora manca sul nostro Autore è un dimensionamento critico che, in verità, si è andato delineando, ad opera di quanti, come Sciascia, Cocchiara, Calvino ed altri vi hanno  dedicato qualche  saggio.


Si  può dire perciò che S. A. Guastella sia ancora da scoprire, e come poeta, e come studioso di tradizioni popolari, anche se ci si rende  conto delle  remore che può suscitare un’opera in dialetto presso il comune lettore, come pure nel critico di professione.


Non sono poche le difficoltà di lettura della trascrizione fonetica adottata dal Guastella per il suo dialetto. Si considera perciò che un non-siciliano difficilmente potrà avvicinarsi alla lettura di tali opere, ed avremo un segnale di quelle che potrebbero essere le difficoltà contro le quali  verrebbe ad urtare la critica interessata.



Biografia

Della vita del nostro autore non c’è molto da dire. Nacque il 6 febbraio 1819 a Chiaramonte da Gaetano Guastella  y Schiuoller, barone del Grillo, e da Maria Ricca. Morì il 6 febbraio del 1899 sempre a Chiaramonte. Non ci risulta sia mai uscito dalla sua provincia, certamente non  superò  mai lo stretto di Messina. La sua vita si svolse dunque senza troppe  avventure in un raggio molto limitato di chilometri. In fondo visse la vita che i tempi gli offrivano, vita, amorfa, che conducevano i nobili  di allora, fatta di giornate tranquille, monotone, nelle quali un posto di rilievo aveva la siesta pomeridiana, estiva e invernale, la visita vespertina al circolo, la partitina a carte, e le solite quattro maldicenze sull’assente  di turno. Il tutto accompagnato da qualche rara escursione nei possedimenti di campagna. C’erano naturalmente  anche le donne, le amanti, si intende, ed ogni nobile che si rispettasse ne poteva avere una o due, tutte per sé, quali altre mogli in secondo ordine che lo arricchivano di figli illegittimi: metodo allora comune per tenere in vita il sistema poligamico. E per molti aspetti S. A. Guastella  non tradì lo standard di questa piccola nobiltà di provincia. Lo tradì forse in un punto soltanto: nutrì sin da piccolo una forte passione per la letteratura; lesse a fondo gli autori dell’epoca, da Manzoni a Dumas, dalla Percoto a Victor Hugo, e fece i suoi primi esperimenti poetici  scrivendo di tutto: romanze, melodie, lamenti, satire, canzoni, inni, encomi, suppliche e necrologi.


Compose una romanza, “La diletta”,  dedicata al principe di Scordia, Pietro Lanza Branciforti 

Oh prega!!! negli inni che innalzi al Signor 
Rivela gli arcani del mesto tuo cuor… 
Più bella del sole che veste il tuo crin 
Splendente negli occhi di un raggio divin

Sulla scia del Manzoni  e del Dumas dedicò un inno a Napoleone 

Ravvolto nel raggio supremo del cielo 
Cos’eri? raggiante di luce immortale 
Drizzasti su tutti la pompe dell’al. 

Compose pure una specie di dramma in due parti, “Aod”, dal nome del protagonista principale, marito di Eloa, nemico di Eylon e di Maac, e un "Lamento" scrisse ancora  
“Il barbiere Paolo Molè” dedicato ai soci del casino di Chiaramonte che si conclude  con questi altri versi bruttissimi: 

Pensate che tuttora faccio il barbiere  
e a scorticarvi un po’ gli è il mio mestiere.


I versi che abbiamo sopra citato appartengono alla raccolta La religione del cuore”, che il Guastella  pubblicò ventiduenne appena nel 1841.
Dopo di allora bisognerà aspettare trentacinque  anni prima che il nostro autore si decida a ritornare in tipografia. E’ solo nel 1876 che il Guastella  pubblica i Canti popolari del Circondario di Modica. I suoi interessi sono ormai decisamente orientati verso il folklore.
A questo periodo felice risalgono difatti: 

L’Antico Carnevale della Contea di Modica,  un commento ad una poesia popolare sulla Madonna della Catena di Modica, dedicato all’amico Salvatore Salomone Marino (1878), il .. 
Vestru (1882), 
Le parità e le storie morali dei nostri villani (1884),  
Padre Leonardo (1885) 
Ninne nanne del Circondario di Modica (1887), 
Le domande carnascialesche e gli scioglilingua  
(1888).

Con queste raccolte, il Guastella dava così il suo contributo validissimo a quella passione per le tradizioni popolari che già dalla prima metà dell’800 era esplosa in Europa.

I primi etnologi

Le prime raccolte di fiabe e canti popolari siciliani erano state però opera di appassionati tedeschi, non sempre ferrati nei metodi di ricerca, ma certo non del tutto sprovveduti. La più notevole di queste raccolte è quella che Laura Gonzenbach, una oriunda tedesca vissuta in Sicilia, affiancata dal pastore Otto Hartwig, tradusse nella sua lingua tra il 1868 ed il 1870. Purtroppo la  Gonzenbach, commise allora l’errore, imperdonabile a detta degli specialisti, di non dare alcuna indicazione sulla età e sulla professione delle persone da cui aveva ascoltato i racconti, come pure delle località presso le quali erano stati raccolti i canti e le fiabe.

In verità, la  Gonzenbach, anche  se non poteva sospettare minimamente la severità del metodo filologico nella ricerca delle tradizioni, aveva cercato di trascrivere con una scrupolosa fedeltà i racconti ascoltati, anche se poi confessava di non aver saputo  rendere “il fascino particolare che consiste nel modo di narrare” dei siciliani. E comunque mancava pure in queste raccolte qualsiasi uniformità ortografica. Perciò la raccolta della Gonzenbach non lasciò molto soddisfatti gli studiosi di psicologia popolare e principalmente i glottologi, anche perché la traduzione in lingua straniera trasformava in una prosa approssimata quella lingua e quelle immagini che potenzialmente vivono di poesia.

Era chiaro dunque che la Sicilia abbisognava di una sua équipe di studiosi e tecnici appassionati.

E’ proprio  in questo periodo, approssimativamente dopo il 1870, che entra in scena quello che avrebbe  dovuto essere poi il maestro dei folkloristi  italiani, alludiamo al medico palermitano Giuseppe Pitrè,  il quale, al contrario dei suoi predecessori tedeschi, procederà con estrema cautela e sensibilità nei suoi lavori di ricerca, consapevole perfettamente di quelle che erano le gravi difficoltà di metodo che una simile ricerca  comportava. In questa opera il Pitrè si servì di decine di raccoglitori e appassionati che da tutta la Sicilia gli inviarono materiale che egli sottoponeva ad altri esperti collaboratori, a volte maestri riconosciuti nel campo della letteratura popolare internazionale, quali il famosissimo filologo tedesco Kőbler e il nostro D’Ancona. E il lavoro era talmente estenuante e complesso da scoraggiare chiunque non avesse avuto la passione e la tempra di un Pitrè. Si trattava, difatti, di un difficile lavoro di verifica, di confronto e di classificazione dell’immensa mole del materiale ricevuto. Verifica delle fonti, confronto con altre narrazioni che si trovavano nella innumerevole produzione letteraria popolare europea, classificazione dei racconti, dei canti, dei proverbi, controllo delle  varianti e così via.  

Giuseppe Pitrè


Le ricerche del Pitrè si svolsero principalmente nelle province di Palermo e Trapani, oltre che nel messinese e nell’agrigentino; un po’ meno furono esplorate le altre regioni: quasi affatto la zona iblea, anche se in quest’ultima avrebbe potuto contare in qualche apporto da parte del nostro Guastella, con il quale il medico palermitano fu in rapporti epistolari.

Per quanto riguarda il metodo, il Pitrè stesso avvertiva che molte fiabe “erano state colte a volo e quasi stenografate dalla bocca di illetterati novellatori e novellatrici… senza nulla togliervi, nulla aggiungervi o ritoccarvi”. E’ come dire che l’intervento  del raccoglitore era ridotto entro i limiti indispensabili, al di là dei quali avrebbe potuto esservi soltanto una arbitraria libertà.

La trascrizione fonetica

I guai, se così ci è consentito dire, cominciavano invece, per il Pitrè, al momento della trascrizione, quando bisognava prendere una decisione sulla grafia da adottare per i testi dialettali.

Più logico, oltre che più scientifico, sarebbe stato adottare una grafia fonica, così come, molto acutamente farà il Guastella. D’altro canto non bisognava dimenticare che tutto il materiale raccolto dai folkloristi, avrebbe dovuto servire anche ai glottologi e agli studiosi di dialettologia. E di ciò fu perfettamente consapevole il Pitrè, che in una lettera del 7 ottobre 1983, scrivendo all’amico Ernesto Monaci dichiarava: “Amico mio, io sono in lotta continua fra l’ortografia fonica e grammaticale delle parole: quella mi pare più conforme ai bisogni della scienza, ma tale, però, che non fa capire nulla di ciò che si scrive; questa meno vera, un po’ convenzionale, ma tale che dà ad ogni parola il suo valore” .

In ogni caso, il Pitrè doveva prendere una decisione. E la soluzione migliore al tormentato dilemma, al Pitrè parve trovarsi in un compromesso che conciliasse i due sistemi. Decisione infelice, per alcuni, ma senza dubbio giustificata, se proviamo a metterci dal punto di vista dello studioso palermitano.

Il Pitrè, difatti, si trovava a dover ricevere  materiale da tutte le parti della Sicilia, materiale raccolto e trascritto, a volte, forse, in maniera approssimata e generica da collaboratori che non sempre erano all’altezza di un Di Giovanni o di un Salomone-Marino. Di fronte ad un simile dato di fatto, era ovvio che il Pitrè, da scrupoloso folklorista non se la sentiva di adottare una grafia fonica che non avrebbe potuto avallare. E si capisce il perché abbia optato per la seconda soluzione.

In ogni caso, il Pitrè acquistò tale merito da offuscare e da continuare a tenere in secondo piano studiosi di tradizioni popolari come Salomone-Marino, Gaetano di Giovanni e lo stesso Guastella. D’altro canto il lavoro di raccolta di quest’ultimo, inesplorati neppure i più remoti angoli delle campagne, ascoltando tutti, dall’umile plebeo, all’artigiano, alla vecchia, al contadino, cionondimeno fu, a paragone di quello del Pitrè, limitato a qualche paese della attuale provincia di Ragusa, e certamente il linguaggio fu sempre quello del suo paese natio, così come egli stesso avverte nella introduzione al “Vestru”. E perciò gli indovinelli, i canti ed i proverbi raccolti dal Guastella, lasciarono fuori molto materiale della rimanente parte della “Contea di Modica”, come stanno a dimostrare le recentissime raccolte operate da Carmelo Assenza.

Guastella poeta

Il punto è invece un altro. Il Guastella, non si accostò alle tradizioni popolari soltanto con l’animo appassionato dello studioso, quanto piuttosto con la predisposizione spirituale  del poeta, che di quella gente in mezzo alla quale egli viveva, e della quale faceva parte, di quel popolo nel quale si agita e vive un solo grande spirito, egli sentì il ”bello”, così come si manifesta in quella genuina ed insieme prorompente creatività della fantasia, nella forza grezza e nello stesso tempo primitiva di un linguaggio, portatore di remoti ed indefinibili messaggi ancestrali. In quel mondo chiuso ed insieme arcaico, dove altri avrebbero potuto leggere la storia, antica quanto il mondo, della sofferenza umana, e vedere “le più incancrenite cicatrici delle offese che la storia della civiltà ha inferito alla carne dell’uomo”, come scrive Italo Calvino, il Guastella  sentì anche, e forse  principalmente, la bellezza vigorosa delle immagini che si esprimono in un linguaggio dalla potenza vichiana.

D’altro canto, egli sente quel popolo custode di un grande tesoro di verità e di bellezza non contaminata, e a quello si accosta con la simpatia che nell’uomo di cultura va sempre accompagnata ad un malcelato sorriso di stampo ariostesco.

Il Vestrue “Le parità, vivono appunto di questa particolare predisposizione dell’artista, che rimane sempre nascosto dietro il velo di questa sua sottile ironia; e sono opere di poesia e di folklore insieme, germogliate da quella che era una forte adesione dello spirito di Serafino Amabile Guastella per tutto ciò che costituiva il patrimonio storico, psicologico, linguistico, ed in una parola  epico, del suo popolo. E forse non saremmo lontani dal vero, se provassimo a sostenere che il “Vestru” e “Le parità” sono, oltre che documenti di folklore,  l’espressione genuina dell’epos di un popolo, che ha trovato in S.A. Guastella il suo interprete e il suo poeta.

Le opere sopracitate, difatti, non sono lavori stenografati, come potrebbe essere invece per un indovinello o una canzone, e come i canoni del metodo filologico imponevano, ma sono il frutto di una “interpretazione”, operata dal Guastella, nel silenzio  del suo studio, subito dopo aver ascoltato un racconto, una parità ecc.

Più che al Pitrè; dunque, ma solo per le opere suddette, la figura di S. A. Guastella dovrebbe essere accostata semmai (ma gli accostamenti sono estremamente  pericolosi), a quella di un Giuseppe Gioacchino Belli, non per cercare fra i due una affinità spirituale che non può esistere, né per trovare un parallelo fra i due generi di poesia, il che sarebbe assurdo, quanto piuttosto per lo scopo che ambedue perseguirono: quello di lasciare un documento sugli usi, i costumi, le credenze, le superstizioni, come pure sull’apparato linguistico del loro popolo.

Il Vestru

Il “Vestru”, pubblicato, come si è detto nel 1882 è, come avverte il Guastella, un lavoro giovanile, e comunque un’opera originale nella strutturazione, quasi unica nel suo genere, essendo distinta in due parti. La prima parte, costituita da 59 sestine, è in versi endecasillabi, secondo il metro popolare della canzuna, ed è quella che dà il nome all’opera. La seconda parte è quella che nel sottotitolo dell’opera suole essere definita Scene del popolo siciliano (le “copiose illustrazioni in dialetto”), costituita  da una serie di  24 testimonianze, o se vogliamo documenti, che nella mente dell’autore avrebbero dovuto servire a giustificare altrettante asserzioni fatte nella prima parte.
Nel "Vestru" sono narrate in prima persona le disavventure di un povero diavolo, Silvestro, un uomo nato e cresciuto nella miseria (nascìi malasciurtatu ni stu munnu),  vilipeso dalla sorte (mi ciercu sulluvari, e ccar’a ffunnu) che non chiederebbe altro che di vivere in pace ed invece si trova costretto ad un continuo, inesorabile ed eterno calvario nella famiglia e nella società. E’ la storia di un uomo, dunque, che forse sarebbe meglio definire storia di un ambiente, i cui maggiori protagonisti sono gli stenti, la lotta, eterna quando il mondo, contro lo spettro della fame (Vestru è lu nomu miu, vera simenza ri nanni e rritinanni affamatizzi),   la miseria, endemica, ed infine ultima dea, la rassegnazione. Perciò si può dire che l’interesse del Guastella non è rivolto tanto a scavare il personaggio del protagonista, per giungere magari alla determinazione di un dramma che superando l’individuo diventa esistenziale, ma divaga posandosi su tutto ciò che dell’ambiente, in senso lato, gli sembra degno di essere inserito nell’opera: ora è una frase pregnante, ora un motto, ora una consuetudine, ora una superstizione. Da questo punto di vista il Vestru rimane un gustoso e nello stesso tempo originale affresco di un ambiente, fissato in un momento della sua dinamica socio-temporale, come si direbbe oggi.


"Nittu" antenato di "Vestru"

Ma, per comprendere compitamente la genesi delle 59 sestine del bozzetto, sarà bene esaminare quest’ultimo alla luce di un importante inedito, che noi pubblichiamo in appendice.  Il "Vestru" nacque dapprima, e circolò anonimo, come allegra, fresca ed estemporanea parodia, dedicata ad un tale “Nittu”. Si trattava forse dell’ultimo rampollo di una di quelle tante famiglie nobili che, dilapidate  nel corso di generazioni ogni sostanza familiare, iniziano la via di un declino fisico e morale, oltre che economico, attaccati come sono dal tarlo che dall’interno, lentamente, li rode e li disgrega, mentre ancora vivi trascinano il peso della loro esistenza grama e di noia congenita, ereditata da bisavoli e trisavoli (ri dda gran tinturìa la quintessenza / mi culau ni lu sangu a stizz’ a stizzi).

Ora tutto è finto. La famiglia ha abdicato ad ogni velleità; mentre l’unico problema rimane circoscritto ai confini di una sopravvivenza fisica. Perciò il padre consiglierà a Nittu di sposarsi (lui non avrebbe pensato neppure a questo!), di sposare una donna qualsiasi; ancora meglio se quest’ultima avesse portato in dote un amante, perché, come dice il proverbio degli antichi “quando qualcuno porta da mangiare in casa, si fa spazio  a chi entra e si fa finta di niente” (Nittu, IV, 1, 2); poi corretto nel più pregnante motto “jarzu ca porta, allìcchicci la manu” (Vestru, IV, 1, 2).

Il "Nittu", dunque, è la parodia di questo povero infelice, che non aspira ad altro che a vivere in pace, e per amore della pace fa tutto quello che si comanda, da qualunque parte gli ordini provengano:

Nittu rròbbiti un gnattu…
E iu rruobbu lu jattu
Spàimi lu carrettu, ed iu lu spaiu

Ma, che comunque non ne azzecca ma una:

Vuoggiu taggiàri un caddu? e tàggiu l’ugna
Vuoggiu mìntiri paci? e scippu pugna

… e ora vive di mille piccoli espedienti per sbarcare il lunario.

Ed invero, la XXVI sestina del Nittu, sintetizza stupendamente la geremiade di questo meschino:

Chista è la vita mia, vita d’infiernu
tra la fami, lu friddu e li lignati
ppi mia l’està cciù tinta è di lu mmiernu
e lu mmiernu è cciù tintu di la stati…
nascji malasciurtatu nni stu munnu,
mi vuoggiu sullivari e caru a ffunnu!...

Così, quasi per gioco, nacque il Nittu, che il barone Serafino Amabile Guastella compose pensando di fare cosa gradita ai nobili amici modicani del suo circolo, così come qualche anno prima aveva dedicato la satira “Il barbiere Paolo Molè”  ai soci del casino di Chiaramonte.

A distanza di chissà quanti anni, molti forse, quando però gli interessi del Guastella erano ormai sicuramente assorbiti dallo studio delle tradizioni popolari, l’insigne studioso, ripreso il manoscritto che parlava di Nittu, ebbe l’idea di recuperarlo alle stampe. Senza dubbio ne valeva la pena. Ma ristampare quel lavoro giovanile presupponeva una revisione: bisognava rifare qualche verso, qualche parte buttata giù alla meno peggio, e, principalmente, bisognava sostituire i nomi dei protagonisti per evitare una querela!

Naturalmente lo stato d’animo nel quale si veniva a trovare il Guastella, a distanza di anni, non era più lo stesso. Perciò dalla revisione nacque un nuovo personaggio “Vestru”, sin dalle prime pennellate fondamentalmente diverso dal primo. Nittu era difatti “vera simenza di tutti li Nolini e li Nauna (Sigona)”  Vestru è invece “vera simenza ri nanni e rritinanni affamatizzi”. Il primo (è evidente!) è un nobile che non può fare a meno di ricordare “li maggiori sui”, il secondo è già un vile plebeo affamato.

Nella casa di Nittu, “nun c’è ciùi pani né vinu” (ma una volta c’era!); in quella di Vestru “’n ciovu nu nci ‘mpinci”. Come dire che dai muri non sporge niente, che oltre ai muri, in quella casa, non c’è niente.

Il quadro della miseria è integrale, in questa seconda parte. Purtroppo, Serafino Amabile Guastella non cancellò completamente il primo personaggio, che anzi continuò a coesistere, in maniera più o meno palese con il secondo (una specie di sovraimpressione, si direbbe oggi), al quale furono dati in prestito usi e consuetudini che, se si addicevano al nobile decaduto, resero adesso meno coerente la figura di Vestru. Così, non ci convince molto che un povero plebeo adotti una figlia, né si giustifica il perché avesse dovuto essere, “senza lia”, cioè incapace di procreare, il che, andava invece a pennello per Nittu: infine sarebbe stato auspicabile che Vestru non avesse mai studiato latino.

Artisticamente perciò, risulta più fresca e più coerente la figura di Nittu, anche se la versificazione di questo primo lavoro risente della estemporaneità da cui è nato. Più scavato, ma più sano, è invece il nuovo personaggio, Vestru,  mentre il verso e sestina, risultano più lavorati, e, se vogliamo, più potenti, a paragone di quelli del Nittu.

Nel Vestru cede invece la struttura, che si affloscia non poco sotto il peso delle nuove 22  sestine, con le quali Serafino Amabile Guastella si proponeva di arricchire, di completare, e di meglio caratterizzare l’ambiente nel quale viveva il suo nuovo protagonista, riuscendo invece a mettere in luce soltanto una mancanza di respiro poetico.

Le scene (schede) illustrative  

Altra cosa sono invece le 24 testimonianze che costituiscono la seconda parte dell’opera, le cosiddette “Scene del popolo siciliano”. Lo stile, il linguaggio, i colori, i toni sono sempre gli stessi. Tutto mira alla descrizione di qualcosa che passa davanti agli occhi dello spettatore come in uno scenario, del quale la vecchietta superstiziosa, l’astuto massaro di Modica, il povero giovane ingenuo e ignorante, sono i protagonisti. E perciò ogni scena diventa un tassello che di volta in volta completa il più vasto mosaico, che dell’ambiente restituisce così una visione sintetica e di insieme. E a questo grande affresco contribuisce anche, e principalmente la prima parte, malgrado il critico scrupoloso vi abbia potuto leggere delle non lievi incoerenze.

Ci capita così di gustare l’apertura della XIX scena, dove un giovane contadino inizia il racconto della sua disavventura matrimoniale dicendo: “Iu 'nzapìa nenti comu nenti. Era tiemp’ ‘i favi virdi, e ‘na sira sì, ‘na sira no…”, in cui il sereno e disteso riferimento alla natura (era tiemp’ ‘i favi virdi), ci riporta alla memoria quell’altro bellissimo verso della stupenda novella anonima medievale di “Narciso”, dove troviamo scritto: “Lo tempo era di primavera; donne si venivano a solazzare alla fonte…”, nel quale, si vuole mettere appunto in rilevo, come nei due esempi la finezza stilistica si sposi ad una incisiva ed insieme vigorosa essenzialità dell’immagine.

E si arriva così allo scongiuro, inserito più appresso nella scena, esempio rarissimo e nello stesso tempo stupendo di una versificazione che, scavata in toni cupi e profondi, raggiunge una forza evocativa senza limiti: vera concretizzazione di una serie di elucubrazioni  dello spirito popolare, evocate a  livello dell’inconscio.

Gino Carbonaro


E' possibile richiedere "Vestru" di Serafino Amabile 

Guastella, ed. Thomson, 1973, introduzione Gino Carbonaro 

€ 10,00 (+ spedizione)

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riferimento: Daniela La Licata,  Ragusa