2012/01/24

La Punizione di Salvatore Scalia

Dalla cronaca alla letteratura

                          La Punizione

Nel maggio del 1976, a Catania, quattro ragazzi fra i dodici e i tredici anni scippano una anziana signora, che cadendo si frattura un braccio. Senza saperlo, i ragazzi hanno derubato la madre di un potente capomafia. L'affronto subito dalla "famiglia" è enorme. I ragazzi scompariranno nel nulla. Il libro ricostruisce quella storia di ordinaria follia. Salvatore Scalia crea un'opera di grande valore letterario.      

     In questo libro è favoloso l’impianto. Le chiavi di lettura. Tantissime. Qualcuno potrebbe pensare che il racconto procede secondo uno schema cinematografico, che ricorda la sceneggiatura: mosaico di specchi che insieme e lentamente fanno emergere la struttura dell’opera. Altri, potrebbero essere colpiti dalla qualità della scrittura, che procede forte, magmatica, ipnotica, tale da ricordare l’eruzione di un vulcano, che sino alla fine non perde mai la sua energia, il suo fascino, il suo mistero. Altri, ancora, un sociologo per esempio, potrebbe considerare il libro sotto il profilo sociologico, documento di una sottocultura di confine in una città della Sicilia, evento sociologico importantissimo. Uno psicologo, potrebbe rilevare nel racconto la bellezze delle analisi introspettive dei suoi protagonisti: vedi la dinamica dei bambini prigionieri nella stalla, vittime inconsapevole di una logica brutale. Uno storico potrebbe cercare di segnare l’impossibile confine fra cronaca e microstoria. Un giudice di tribunale, potrebbe rilevare come è di fatto impossibile applicare la giustizia senza le prove. Chi ama le cose belle potrebbe affermare, giustamente, di trovarsi davanti a un’opera d’arte nel senso più profondo della parola. Arte classica per l’equilibrio, la distanza, l’armonia con cui procede il racconto, dove la scena successiva e conseguenza logica della precedente, dove non registri mai uno stridore, uno iato fra il prima e il dopo, una caduta di tensione, un narcisismo.
    Ma se in questa sede sono consentite le analogie e le classificazioni letterarie, a partire dal titolo, La Punizione, va riportata al novero delle tragedie, alla stregua di tutte le grandi opere che, dal passato ad oggi, sono state scritte e portate in scena per diventare esempio di riflessione all’umanità.
    La Tragedia attiene sempre alla religione e alla filosofia. Le domande, i grandi interrogativi che sottendono all’impalcatura de La Punizione sono ancora la ricerca del senso della vita, del senso delle nostre azioni, per cercare di capire chi siamo, dove andiamo, e il lettore non può che leggere una sottile denunzia sociale. Ma, denunzia contro chi? Contro la isterica aggressività di madri abbandonate dai mariti e abbrutite dalla miseria? Contro il deragliamento di giovani scippatori spinti al furto per scommessa e per  necessità? Contro la belluinità di uomini senza anima, che non possono avere scrupoli proprio perché non hanno una coscienza. O denunzia contro un Dio che si nasconde lontano al di là delle galassie? Perché, Dio è chiamato in causa ne La Punizione, ed è un Dio che sembra affiorare di tanto in tanto, come un pallido raggio di luce fra nuvole che appannano i cieli invernali. Così, le considerazioni di Nitto, il mostro che in una notte senza Luna, osservando le stelle cerca di chiarire a se stesso il senso delle cose: il perché la sua "mammuzza" aveva dovuto tanto soffrire per colpa di quattro ragazzacci. Ed è, quello di Nitto, una sorta di ritiro purificatore nell’orto di Getsemani, prima del grande sacrificio. La ricerca di un consenso da parte del grande, forse unico responsabile delle cose.
     Contenuto e forma de La punizione attengono alla tragedia. Lo rivela il Prologo, che introduce, come nelle tragedie greche, il tema assurdo, allucinante, tragico: la follia degli umani. Lo rivela ancora il fatto che gli eventi, denunziati nella cavea di un ipotetico teatro scavato nella pietra, non trovano una risposta. Lo dimostra la presenza periodica del coro, vedi la gente che al mercato commenta l’aggressione fatta ad una povera donna. Lo confermano tasselli di frasi raccolte per costruire il vaniloquio di luoghi comuni (p.33). E poi la rabbia, la temuta vendetta, la necessaria punizione. Per riportare l’ordine nelle cose. Temi classici della tragedia greca di stampo euripideo, ma senza la denunzia, che il tragico greco rivolge agli Dei. Così, ne La punizione, in questa opera che ha la configurazione di una perizia psichiatrica di una società folle, senti la tragedia della vita. L’imminenza di una sciagura. Vedi il bellissimo “Rientro a casa” (p.36), dove tutti sembrano essere soggetti a una legge sconosciuta, dove le terribili sanzioni vengono non dalla "gente", ma da un demone sconosciuto, da una forza oscura, dove la colpa chiama colpa e il sangue chiama sangue per placare una giustizia cosmica, punitrice. 
     Ma quando la Úbris fiorisce, c’è l’accecamento (Áte) da cui si raccoglie larga messe di lacrime. Anche qui, gli uomini prendono parte al loro destino, ma non lo determinano. L’atmosfera del racconto è tragica, ad ogni passo che scorre, fluido lucido chiaro, come se di ogni cosa fosse possibile sapere tutto, mentre in realtà nessuno sa niente. 
    E anche qui, ne La punizione, è visibile il rapporto tra colpa e pena, e la necessità di conformarsi a una sorta di ordine cosmico. 
     L’azione degli uomini, determinata da una pulsione dettata dalle parti più oscure dell’Es, è sempre razionalizzata dai protagonisti. Ma, noi sappiamo che non è razionale. Così, tutto prosegue secondo una logica fatalistica che ripropone senza volerlo la Týche dei Greci, l’accaduto che accade perché deve accadere. 
     Ed è così che La punizione di Salvatore Scalia diventa opera grande: di filosofia, di sociologia, di politica, ma soprattutto opera d’arte e di pensiero, di cronaca e di storia. Protagonisti dell’opera? Tutti e nessuno. L’Autore? Non si vede. Non c’è. Lui non partecipa, non giudica. Lui riporta semplicemente i fatti, realizzando così il suo grande amore per la cronaca, per la scrittura, per la verità, per l’arte.

                                                                       Gino Carbonaro
Ragusa, 26 aprile ’06 

                                          


 

In memoria di Francesco Veneziano

Francesco Veneziano  
Elogio funebre

La vita è un miracolo.
La morte è un mistero.
La morte di un giovane è una tragedia
Per la quale chiediamo le ragioni.

Vogliamo capire perché un fulmine deve colpire una casa
dove ci sono persone che si prodigano per il bene degli altri.
Vogliamo capire perché coloro che fanno bene  devono ricevere in cambio il più crudele dei mali.

Non può essere un conforto per Maria Teresa, la madre di Francesco, sapere che lei porta il nome di un’altra madre che ha perduto un figlio della stessa età: non è conforto per il padre Giuseppe, sapere che porta il nome del padre di Gesù Cristo.

Quel Lunedì, alle tre e mezzo di notte, Francesco si recava al lavoro senza sapere che stava camminando sulla strada del suo Calvario.

Ma la strada del Calvario è quella che porta in Paradiso,
proprio vicino al cuore di Dio, dove vengono accolte le anime dei più buoni, dei più sensibili, dei più affettuosi, dei più amati da tutti gli amici.

Ora Francesco è pianto da tutti.
Lo piange la madre inconsolabile, il padre, il fratello Emanuele, la zia Silvana e le sue cugine. Lo piangono gli amici. Lo piange tutta la città di Scicli, perché Scicli è una grande famiglia e oggi è morto un nobile figlio di questa città.
Noi tutti, non lo dimenticheremo mai.

Ora vi farò ascoltare un canto di dolore, quasi una preghiera, che un giorno Francesco mi aveva sentito suonare, e per questo mi aveva detto con la sua voce particolare: “Ginu, u sai, sta canzuna mi piaçi, a sunasti bona, occu bbota m’ha ffari sentiri attorna”. 
Non pensavo che gliel’avrei fatta riascoltare in questa occasione.    


 
                                                                  Gino Carbonaro

Aforisma, fra il dubbio e la ragione


Elogio dell'Aforisma 
Concetto un po’ grottesco, un po’ folle, un po' geniale, spesso mascherato e sempre  portatore di una estrosità carica di amarezza e di follia


   L’aforisma è un pensiero sintetico, un concetto che coglie un rapporto impensato fra due eventi, e suggerisce verità nuove, non previste, anche se implicite al concetto che l'aforisma presenta.

   Caratteristica dell'aforisma è l'estrema brevità.  Un'idea fulminea che scuote e libera un pensiero e fa luce, sia pure per poco, su qualcosa. Poi, a distanza di tempo, arriva il tuono delle possibili considerazioni, o anche una fragorosa risata. Alla fine? Tutto torna come prima.

   Il termine deriva dal greco aphorìzein, è lo stesso da cui si fa derivare la parola orizzonte, e indica ancora un concetto chiuso all'interno di un limite, seppure capace di andare al di là dell'orizzonte concettuale che lo circoscrive.

   Aforisma è definizione incisiva, ma anche sferzante, modo per scuotere chi legge, per esortarlo a considerare meglio cose, eventi, uomini. Con l'aforisma è come osservare la realtà dal buco della serratura (anche l'osservazione è limitata) senza che la visione concettuale possa essere disturbata dalla interferenza di altri fatti, oggetti, eventi.

   Aforisma è una microstruttura logica, in sé completa, che esplora atomi di realtà, frammenti di verità: punti di vista per osservare la realtà da angolazioni diverse.

   L’aforisma non va confuso con la massima, né con il detto, il motto, l'adagio, né tanto meno col proverbio,  con i quali ha in comune la brevità, ma non la funzione.

   L'aforisma, non ha finalità pedagogico-morali, come la massima e il proverbio. Non presume la scoperta di verità assolute, eterne, oracolari. Non si rivolge all'uomo per correggerlo o migliorarlo, ma solo per introdurlo nell'affascinante mondo del pensiero e delle parole, per insinuare il seme del dubbio nelle sue rassicuranti e pretestuose  certezze. Lo scopo, semmai ne ha uno, è quello di far dubitare, di far ri-flettere (nel senso etimologico della parole). Flettere nel senso di piegare la realtà, che lo specchio della mente restituisce come informazione di ritorno sotto un aspetto inconsueto.

   L'aforisma esorta ad essere cauti nei giudizi, a riconsiderare gli anonimi "si-dice-che", a intercettare la presenza dell’infìdo e rassicurante luogo comune, che si annida, anguis in herba,  dappertutto, e addormenta le coscienze, quasi offesa all'intelligenza e alla libertà del pensiero.

   E ancora, l'aforisma tenta di schernire la verità ufficiale, insinuando il sospetto che possano esistere più verità: la mia, la tua, la sua, la nostra, senza con ciò escludere l'esistenza di una verità univoca ed assoluta. Ma se quest'ultima esiste, ed è possibile che esista, è anche vero che la stanno ancora cercando.

   L’aforisma distrugge i feticci e privilegia il paradosso, mentre fa uso di sillogismi extra-vaganti, ma solo per farsi beffe  della  logica.

   Il concetto cui vuole pervenire l’aforisma è che, anche la logica, la prima delle scienze ‘cosiddette’ esatte, è a rigor di logica ‘non-sempre-logica’.

   Eppure è sulla logica che fondiamo i valori e diamo un senso alla vita e decidiamo le nostre scelte e assumiamo le nostre responsabilità: morali, legali, religiose. Ed è servendosi della logica, che gli uomini fondano società, progettano il futuro, sottoscrivono accordi, segnano con precisione il confine fra bene e male, giusto e sbagliato, lecito e illecito, legale e illegale.

   Con tutto ciò, l'aforisma non rinunzia a rifare il trucco alla realtà svuotandola del significato che le attribuisce la conoscenza ufficiale. Tanto si verifica ribaltando i punti di vista, creando collegamenti neuronali nuovi e invitando ad esaminare la possibilità che "l'unica certezza (semmai ce n'è una) è che ci sono molti dubbi";  e l'unica verità, sempre che ne debba esistere una, è che “solo le menzogne sono vere”.

   E scivoliamo nel paradosso, in questo assurdo figlio naturale della logica, che dice il vero della realtà, che è sempre doppia, dionisiaca, indefinibile. Ma pochi sembrano prendere in considerazione il paradosso, che, di norma, viene sdegnosamente ripudiato da molte delle scienze ufficiali. 

   Al contrario, l'aforisma  fa suo il trasgressivo paradosso, e all'occasione ne diventa la voce, facendosi carico di scoprire analogie impensate, nessi logici nascosti, come quello (un esempio) che lega il genio e il folle, che, a suo dire,  hanno qualcosa in comune: difatti, entrambi seguono percorsi ‘logici’ diversi, imprevedibili.  

   Questo è l’aforisma: concetto un po’ grottesco, un po’ folle, un po' geniale, spesso mascherato e sempre  portatore di una estrosità carica di amarezza e follia.

                                          Gino Carbonaro

Argilla e Terracotta nella storia dell'Uomo


Argilla & Terracotta
Grandi scoperte dell’Umanità

di Gino Carbonaro

 
  Il cammino dell’uomo su questa terra è costituito da una catena ininterrotta di scoperte. Ogni nuova scoperta è servita

  • ad allontanare l’uomo dallo stato di natura, che lo poneva sullo stesso livello degli altri animali. Ogni scoperta è servita per
  • migliorare la qualità della sua vita.
Fra le grandi scoperte dell’umanità, c’è il fuoco che è servito all’uomo arcaico


1. Uomini arcaici nell’atto di accendere il fuoco
  • per riscaldarsi         
  • avere luce di notte,  
  • cucinare cibi,
  • tenere lontani gli animali
  • fondere metalli.
Agricoltura, rivoluzionaria scoperta dell’uomo.
    Dopo il fuoco, l’agricoltura è un’altra grande scoperta dell’umanità, e nasce quando l’uomo scopre che la riproduzione delle specie dipende da un seme che può essere messo a dimora nella terra.  

2. Semi di vita
   Quando l’uomo scopre che può gestire la riproduzione di un cereale (orzo, farro) e scopre ancora che viti e ulivi e altre piante possono essere implementati, allora  nasce l’agricoltura.           
                                     
3.  Uomo arcaico con aratro
Con la scoperta dell’agricoltura l’uomo rivoluziona il suo modo di vivere.
   
   Prima di questa scoperta, l’uomo viveva di quanto offriva spontaneamente la natura: erbe, radici, frutti, miele, caccia.

4. Uomini primitivi che cacciano  
    Ma, in questa ricerca quotidiana delle fonti di sopravvivenza l’uomo era costretto a muoversi, a cercare, a camminare.
    Invece, quando  l’uomo impara a dissodare la terra, quando l’uomo mette a dimora dei semi, allora è costretto a fermarsi,  
  • per proteggere i germogli,
  • per aspettare il tempo del raccolto,
  • per difendere il frutto del suo duro lavoro,
          ma soprattutto perché
  • non può trasportare i frutti del raccolto.
   Frumento, orzo, vino, olio hanno bisogno di essere conservati e protetti, dunque necessitano  di  contenitori                
5. Giare/contenitori, da culture e tempi diversi
   Ed è in soccorso dell’agricoltura che arriva benefica la scoperta dell’argilla e successivamente quella della terracotta.
         La prima creatura dell’argilla fu probabilmente una statuina  in forma umana, forse una donna dal grande sedere ad indicare il bisogno di abbondanza di mezzi di sopravvivenza.

6. Divinità femminile in argilla
   
La statuina fittile è servita all’uomo primitivo per avere l’illusione di una protezione da parte di una entità potente, dotata di potere magico. Ma l’argilla (attenzione) dovette pure sembrare una sostanza magica, se poteva essere modellata e modificata per prendere l’idea che l’uomo aveva nelle mente.
   Difatti, se ciò che è nella mente dell’uomo viene fuori, e da idea si può materializzare, grazie all’argilla, questo fatto, per l’uomo primitivo è certamente magico. Difatti, chi ancora oggi modella l’argilla,il ceramista,  è considerato un creatore.
   
  Sempre dalla argilla impastata con acqua verrà modellata la prima ciotola, che messa accanto al fuoco si asciuga, si indurisce, diventa ancora più capace di contenere un liquido, agevola una delle funzioni dell’uomo.


7. Ciotola greca
       La ciotola! Questo elemento semplice, ma importantissimo che ancora oggi è amato dai ceramisti. Ed era altresì amato dai ceramisti greci che solevano dire agli allievi: “Impara a far ciotola! Poi andrai avanti”
      Dopo la ciotola sarà il momento dei recipienti di acqua, poi della giara dalla forma ispirata dal guscio resistentissimo dell’'uovo



8. Giara nella forma di uovo
maestosa, quasi madre che custodisce nel suo utero, il frutto che è vita: vino, olio, acqua, cereali che vengono difesi dall’attacco dei topi, antichi nemici dell’uomo. Perché la terracotta non è solo un contenitore, ma è altresì una struttura che difende il prodotto. E poi ancora, lucerne, pentole, mattoni per la costruzione di case, tegole, sarcofagi
9. Sarcofago etrusco in terracotta

Villaggi di argilla
I villaggi che si formeranno lentamente presentano sempre l’uso dell’argilla, di questa pasta duttile, che prende la forma che l’uomo desidera. Si ha l’impressione che senza l’argilla e i prodotti da lei derivati, l’agricoltura non avrebbe potuto avere il progresso che ha avuto.
    
10. Villaggi con case in argilla (Africa sahariana)
   Comunque, l’uomo che fonda la sua economia sulla agricoltura è costretto a aggregarsi con altri uomini. E’ l’agricoltura che fa nascere le società. Difatti, gli uomini che vivono insieme hanno bisogno di leggi, che devono essere fissate su un supporto: su una pietra, su un quadrato di pelle, o anche su una tavoletta di argilla.
        
11. Mosè sul Monte Sinai con i Dieci Comandamenti
Le prime leggi, che conosciamo sono quelle che Dio consegnò a Mosè sul Monte Sinai
ed erano scolpite su tavole di pietra. Si tratta dei Dieci Comandamenti. E per molto tempo la scrittura ebbe come supporto la pietra, ma . Ma non tutti sappiamo che il lavoro per preparare la pietra e scolpirla era, ed è tuttora,  molto faticoso.
       Le altre leggi, che conosciamo furono dettate dal re assiro Hammurabi, 1700 anni prima di Cristo. Ma, ora le leggi furono stilate/scritte su argilla morbida,

12. Scrittura cuneiforme assiro-babilonese su tavolette di argilla  
dove, per scrivere bastava fare uso di un semplice listello di canna affilata, che sostituisce il necessario scalpello della pietra.
         L’uso di tavolette di argilla dimostra quale è stato il salto in avanti della civiltà. La scoperta dell’argilla come supporto per scrivere, può essere paragonata per i tempi alla scoperta dell’odierno computer. Si pensi al tempo risparmiato dagli scribi per vergare la scrittura. Stirare un foglio di argilla era forse più semplice che fare oggi un foglio di carta.
           Su tavolette di argilla furono scritti velocemente importantissimi libri di sapienza antica, giunti fino a noi, e furono stilati atti notarili e passaggi di proprietà, ma i cretai non costruivano solo tavolette corrispondenti alle pagine di un nostro quaderno, ma costruivano tutto quanto poteva servire all’uomo: lucerne, sedie, mattoni per edificare case e pavimenti, tegole per le coperture delle case, vasi di ogni genere, piatti, scodelle, e così via.
13. Manufatti in terracotta di origine e culture diverse
e lontani fra di loro nel tempo e nello spazio
                           
Mille usi dell’argilla.
       Oggi sappiamo che tutte le civiltà hanno conosciuto una “Era della argilla-cotta” (terracotta) dalla quale ancora oggi non siamo ancora usciti, malgrado la scoperta della plastica.
  • ll Giappone e i popoli dell’Africa Sahariana fecero uso di manufatti di argilla già 14 mila anni prima di Cristo.
  • Cina, Egitto, popoli Maya e Aztechi hanno conosciuto l’uso dell’argilla da tempi antichissimi con funzioni diverse.  
  Ma, va ricordato come utile curiosità che

14. La Grande Muraglia Cinese
            La Grande Muraglia Cinese costruita per volere del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, lunga 8852 km, larga e alta oltre dieci metri, è interamente costruita con mattoni di terracotta. una muraglia che per i tempi fu cotruita in tempo record proprio perché furono usati grandi mattoni di terracotta.
       E va ancora ricordato che lo stesso imperatore Qin Shi Huang fu ancora colui che ordinò di costruire un intero esercito di soldati, statue ad altezza d’uomo, e cavalli che avrebbero dovuto proteggerlo nell’altra vita (afterlife).
    
15. Esercito di guerrieri in terracotta                                      
(China 2° sec. B.C.)
Ma, statue e cavalli, forse diecimila esemplari, sono tutte in terracotta.  Ancora in terracotta sono molti bassorilievi assiro-babilonesi (a parte l’alabastro), e di terracotta furono molti dei teatri romani, per esempio quello di Taormina in Sicilia  

16. Teatro greco- romano di Taormina
  
Ma, va ricordata ancora la immensa produzione di vasi e giare della civiltà egeo-cretese

17. Giare egeo-cretesi
vasi  di quella greca, maltese castellucciana

18. Sculture maltesi in terracotta

che si è sviluppata nella parte meridionale della Sicilia, migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci, civiltà che non conosciuta dai Greci che in Sicilia approdarono cinque secoli prima di Cristo.

      Per l’uomo arcaico e primitivo, ma forse anche per un ceramista di oggi, l’argilla sembra possedere  qualcosa di magico, di sublime. Il rapporto che l’uomo ha con l’argilla non è lo stesso che l’uomo ha con la pietra. Per modificare la pietra, lo scultore è costretto a usare la forza: martello, scalpello, oggetti di ferro. Il rapporto uomo-pietra è una guerra.
  Invece, il rapporto che l’uomo ha con l’argilla è un atto di amore, dolce, certamente sensuale, fatto con le mani, direttamente, senza intermediari. L’argilla simula la parte migliore della vita. La possibilità di plasmare con dolcezza, con amore, dove ciò che è dentro di noi può venir fuori, vedere la luce, materializzarsi, prendere corpo e farsi vita: la vita di una idea.

19. Mani di ceramista al tornio
       
       Di tutti i materiali esistenti, l’argilla è quella che si ama di più. Si può capire per questo, perché Dio abbia scelto l’argilla, ( la “Terra dei vasai - kéramaiòs”). per creare Adamo ed Eva. Dio, dapprima modella la sua creatura, poi gli dà il soffio della vita e si fa creatura.


20. Dio crea Adamo ed Eva
Ogni ceramista, rivive forse il momento di una creazione divina ogni qual volta plasma, modella l’argilla, questa materia sconosciuta, ma da tempi antichissimi usata anche per le sue qualità farmacologiche, e oggi largamente adottata dalla medicina omeopatica.
                                                                                                              
Gino Carbonaro