2012/03/08

Igiene sociale nella Sicilia di un Tempo

    Consuetudini igieniche 
     nella Sicilia di una volta 
                                              (Scheda n. 37  da "La Donna nei Proverbi Siciliani)         

                                                   di      Gino Carbonaro  

      La storia ufficiale non si interessa di igiene, gabinetti o  fognature, ma c’è da dire che nei tempi antichi il contenuto dei cantri-catusi veniva di buona mattina svuotato nelle strade. Chi si trovava in giro per il paese, lontano dalle campagne, per risolvere un piccolo o grande problema personale, si serviva del primo angolo che dava il conforto di una privacy

     Preferiti da questi “battitori liberi” erano ponti riparati, sottoscale, scorciatoie di strade poco battute: fantasia e bisogni facevano il resto. Per questo, chi possedeva un palazzo, teneva ben chiusi i portoni e là dove si creavano angolini naturali all’esterno delle case, faceva sistemare delle sbarre di ferro curvate e spinellate, per evitare che i posticini diventassero luoghi di deposito. 

     Andar per città, significava  essere ad ogni piè sospinto offesi alle nari da un odore acre di "urèa áurea" (pisciazza) 
e di elementi organici in decomposizione

    Si aggiunga che, in una società agro-pastorale, città e case accoglievano migliaia di animali domestici: asini, cavalli, muli, quindi galline, maiali, capre, pecore, gatti, topi e chi più ne ha più ne metta, ed è facile immaginare quanti rifiuti organici venissero quotidianamente depositati per le strade. 

     Le città murate ne erano i contenitori. D’estate, l’aria viziata diventava irrespirabile, ma abitando i piani nobili delle case, i ricchi usufruivano delle brezze e limitavano i danni. Soprattutto per questo i nobili andavano in campagna d’estate, per respirare un po’ d’aria "fine" (si diceva così). Da ricordare, infine, che per fare i complimenti ad una casa, qualora non si sentissero miasmi, si diceva: “Che bella aria fina che c’è qui!”

   In tempi più vicini a noi, in alcune città della Sicilia fu organizzato un servizio simile a quello della odierna nettezza urbana: tutte le mattine passava un carro su cui era stata installata una botte fornita di bòtola soprana. 

Carro-botte adibito al  trasporto 
dei rifiuti organici. 
Primo esempio di fognatura mobile.
Operatore ecologico in azione
(Fotografia preziosissima e rara)
Autore sconosciuto 



     Il conduttore del carro era fornito di trombetta o di "brogna", come un precòne,[1] e regalava, all’angolo di ogni strada, qualche  squillo. 

      Le donne avvisate dal suono, o forse anche dall’inconfondibile tanfo che sprigionava dal carro-botte, abbracciavano il catuso sul quale era posta una tavola a mo’ di coperchio e, messe disciplinatamente in fila, lo porgevano con candida disinvoltura all’operatore ecologico, che lo svuotava dentro la botte, mentre faceva i suoi immancabili commenti. 

     Nel "catusu" c’era tutto l’elaborato della giornata, tranne carta igienica che i Siciliani conobbero solo dopo la seconda guerra mondiale. Il carro-botte, rappresentava un fatto di estrema civiltà e una occasione che consentiva alle nostre Concettine di vivere l’unico momento sociale della giornata, quello durante il quale era consentito allontanarsi di qualche metro e per qualche minuto dalla casa. 
                            
    In tempi più recenti, furono istituiti i gabinetti pubblici per consentire a tutti di svuotare i contenuti in qualsiasi momento della giornata. All’interno del gabinetto-lavatoio c’era un filo d’acqua che scorreva da una fontanella sempre aperta e una lampada da 1 watt (l’equivalente di una lucerna) sempre accesa. La consuetudine a fare quella che in gergo era chiamata “pulizia”, si spostò alla sera, o per meglio dire, all’imbrunire. Ma, vediamo come si verificava l’evento. Cerchiamo di immaginare la scena della quale chi scrive ha memoria diretta. 

     Mentre tutti i bambini giocavano fuori, una madre chiamava la maggiore delle figlie: “Cuncittiiina!” La figlia capiva, e ubbidiente lasciava il gioco per entrare in casa, dove la madre consegnava il catuso per andarlo a svuotare. La bambina lo abbracciava con attenzione e partiva seguita da un nugolo di altri bambini, che avevano nel frattempo smesso di giocare e  le facevano compagnia: una sorta di processione sacra, gioviale, spettrale anche, perché si verificava quando le luci del giorno stavano per andare via.

     All’interno dello svuotatoio pubblico, però, entrava solo Concettina. I bambini che restavano all’esterno, sentivano i rumori degli interni versati e dell’acqua che sciacquava il catuso, mentre tutti cercavano di trattenere il respiro. 

In Carrube e Cavalieri, Raffaele Poidomani rievoca lo stesso episodio nel racconto Il paese delle terrazze. Ecco il racconto.  "Dal momento – dice lo scrittore - che la capacità ricettiva ed espulsiva dello stomaco aristocratico era abbastanza rilevante, giungeva in aiuto il soccorso della Gna Ninfa. Essa appariva nell’ora tarda, verso la mezzanotte, o anche un po’ prima , l’ora cupa del brivido e dei sortilegi; si soffermava a distanza dalla soglia delle abitazioni, e tendeva la braccia, pronta ad iniziare la sua fatica. Caricava così il pesante vaso di Caltagirone dove la famiglia aveva accumulato i residui di pastasciutta con melenzane, contorni di peperoni e caponatina; aveva stratificato le fritture di gamberi e triglie, i liquori e i dolciumi offerti sulle terrazze, tutto ciò che insomma era stato rinunciato nelle ventiquattro ore dai succhi gastrici. Di vasi, talvolta ne prendeva perfino due, e si dirigeva agli scogli dove scaricava gli interni. Per tale bisogna, le si davano quattro soldi; era scalza, e la sua notte era fatta di fogna, una notte di cloaca, un buio di tombino, durante il quale attraverso la pulizia delle anfore preparava i villeggianti a più nuove e ardite gozzoviglie. Mai la incontrai di giorno; ancora mi appare così, con i capelli scarmigliati di un bianchiccio diarroico, in una lacera veste, e sempre di notte, con le braccia ripiegate in quell’osceno abbraccio, l’unico amplesso al quale penso, si fosse mai donata, lei, donna, per quattro soldi”.        



Atmosfere del passato's photo.

Una donna siciliana pulisce il "Catuso",
gabinetto dell'epoca, davanti la porta di casa.

Documento fotografico prezioso
giuntoci via FaceBook

Autore della foto sconosciuto


La consuetudine di svuotare i vasi da notte nelle strade era in vigore anche ad Atene al tempo di Socrate. Del sommo filosofo si racconta che andando una volta per le strette e tortuose strade della città in ore antelucane, si era visto inondato da una di queste provvidenze! Può sembrare incredibile, ma gettare fuori di casa i residui organici della notte era, per i tempi, un atto di civiltà, se si pensa che per millenni, forse, l’uomo ha utilizzato come gabinetto lo stesso luogo dove le bestie (che all’epoca dormivano nella stessa abitazione dell’uomo) facevano i loro bisogni.

Questo atto di “civiltà” era invece sconosciuto nel xvii sec. nel castello di Versailles per il quale gli architetti non avevano previsto posticini adibiti a funzione igienica. Così, Re e Regine, principi e principesse, conti e contesse, svegliandosi al mattino, scendevano dal letto e subito lì accanto, sul pavimento di marmo, accompagnate dal suono delle scoregge, svuotavano budella e vesciche . Il tutto? 
Sarebbe stato ripulito dai servi!




[1] Precòne o precòvio era detto il banditore pubblico. 
[2] Nel gergo siciliano, “uomo di rispetto” è uno che dà ordini (capo, leader) che detta leggi che devono essere rispettate. Chi sgarra, di fatto non rispetta il dettato dell’uomo di rispetto e perciò paga. La punizione è sempre esemplare.

Igiene nei tempi antichi Catusu, Cantru, Silletta


Antenati del Gabinetto

Catùsu, cántaru, cànŧŕu, cascìtta, silletta

                                                                                               
                                                                                           di Gino Carbonaro




   Catùsu (a Modica), cántru (a Ragusa), cantarèđdu (vezzeggiativo), cascìtta (a Comiso), sillètta (a Scicli), cántaru (altrove), era il gabinetto “portatile” di una volta. Raffaele Poidomani - si è detto - lo definisce “espressione di una fognatura mobile”; per Parini erano “spregiate crete”; ma l’idea doveva essere buona e l’attrezzo funzionale, se qualcosa di molto simile è stato creato apposta per i moderni roulottisti, che pure si degnano di usarlo. Il catusu-canŧŕu classico è un recipiente fatto di argilla smaltata dall’altezza approssimata di cm. 35, che ricorda vagamente quella di un cappello a cilindro capovolto, con i bordi dolcemente slabbrati (per agevolare l’adesione e la concentrazione del fruitore), sotto i quali si trovavano quattro (a volte otto) orecchiette rotonde (anse, manici) che ne impreziosivano la forma, ne agevolavano la presa e quindi gli spostamenti, senza perciò temere il pericolo che potesse scivolare di mano.
                                       
Cantru-Catusu

      Detto “c-c”, questo attrezzo giustamente degno di minzione, era destinato al contenimento dei residui biologici liquidi e semisolidi, e veniva tenuto in casa, generalmente sotto il letto, o in una stanzetta a parte (ove questa ci fosse stata). Il catusu-cantru era usato generalmente dalle donne, dal momento che gli uomini, alla bisogna, si servivano di riservati posticini all’aria aperta. Così ci è stato raccontato, e così è riportato in un indovinello siciliano: Ogni ġğ-jôrnu all’ammucciuni fazzu visita ’nta `l’ôrtu/ Lassu `đà lu caviġğhiuni/ Lu pirtùsu mi lu pôrtu. [1] (trad. Ogni giorno mi reco di nascosto nell'orto, lascio lì il malloppo, ma il buco me lo porto).
   
     Famoso era all’epoca il modo di dire: “Ruppi ’u catusu” “Rumpişti ’u catusu”  (trad. Ha rotto il catuso!" Hai rotto il catuso) che si esclamava  quando una persona rompeva i delicati equilibri di una discussione affermando assurdità o anche arrabbiandosi. 

     Rompere il canŧŕu-catusu di ceramica di Caltagirone era possibile, e quando ciò accadeva era una sventura, in specie se era pieno. Proprio per questo, a Ragusa era abitudine usare secchi di latta  in luogo del canŧŕu-catusu di argilla cotta.  

     Il catuso-cantro - si è detto - era parte dell'arredo casalingo, tenuto in uno stanzino adibito alla bisogna nelle case dei ricchi, e comunque non in vista  negli abituri della povera gente. Ma, di necessità, doveva essere svuotato fuori, e questo avveniva in tanti modi. Se l'abitazione era vicina al mare, le donne di casa svuotavano tutto fra gli scogli, generalmente a ora tarda, di sera. Se le case erano nelle vicinanze di una campagna, il problema era ridotto. Se la casa era dentro l'abitato,  si utilizzavano gabinetti pubblici dislocati in varie parti del paese. Il lavoro poteva essere fatto anche dalla bambina più giudiziosa della famiglia che, di solito all'imbrunire, veniva incaricata dalla madre di attendere al delicato transfer. La bambina poi, se grandicella, poteva essere accompagnata dai bambini con cui stava giocando e che per questo sospendevano il gioco. 

     Lo scrittore Maltese, modicano della prima metà del Novecento, descrive un pozzo realizzato dal Comune ai bordi della città, dove le donne andavano quotidianamente a svuotare il catuso. Il problema serio sorgeva quando il pozzo si riempiva, l'Amministrazione comunale non provvedeva a svuotare e il materiale versato fuoriusciva fuori.   



Sistema primitivo di fognatura mobile.
Il contenuto svuotato nel carro
è quanto veniva raccolto veniva raccolto 
nel "Catuso-Cantro" durante la giornata. 


[1] Ogni giorno, di nascosto, vado nell’orto: lascio lì il punteruolo (cavicchio, piòlo o punteruolo è lo stronzo) ma il buco lo riporto.