2020/11/22

CAMERA OBSCURA Camera oscura

  

Camera obscura


   di Gino Carbonaro


La camera oscura, che ho più volte ricordato, era il polmone dello studio fotografico di quel tempo, così come la cucina è tuttora il cuore di un Ristorante. Era lì, al buio che si realizzava la maggior parte del lavoro.

    

  Da noi, di camere oscure ce n’erano due. La prima, la più antica, era quella dove lavoravano i miei genitori, l’altra dove lavoravano i collaboratori di mio padre e in seguito io. Era una stanzetta di una decina di metri quadrati, priva di finestre, idealmente divisa in quattro parti, dove, entrando, a sinistra c’erano gli scaffali sui quali stavano in bella vista le riserve di carta fotografica per lavorare. C’erano tutti i formati, e tutte le gradazioni di carta fotografica.

·  Formato 4x6 cm. per le tessere  d’identità;

·  6x9 per le foto-ricordo di fidanzati e mezzo-busto da conservare nel portafogli;

·  10x15 “formato cartolina”, era detto, formato classico, per foto di persone all’impiedi, o piccoli gruppi;

·   

·  il 13x18, era il formato che rispettava la sezione aurea del raggio, e a me piaceva molto;

·  il 18x24, formato quadrotto;

·  il 24x30, il 30x40, il 40x50, il 50x70 e, subito dopo, appoggiati al muro erano posti i rotoli di carta fotografica per gigantografie.


  Questa non indifferente riserva di carta o cartoncino fotografico sensibile, era ancora suddivisa in gradazioni: Morbido (M), Normale (N), Vigoroso (V), Extra Vigoroso (EV), divisioni che servivano a compensare morbidezza o contrasto dei negativi. Se il negativo era morbido, si usava la carta vigorosa, e, viceversa, se il negativo era contrastato si usava la carta morbida. I quattro pacchi di carta prescelti si aprivano solo quando si spegneva la luce bianca e si accendeva la luce rosso-scura. Il foglio di carta fotografica, si sa, era coperto da un supporto di bromuro d’argento sensibile alla luce, e se un foglio di carta fotografica fosse stato lasciato alla luce bianca di una lampada o alla luce del sole, il foglio si sarebbe annerito in pochi minuti. Ovviamente, solo dalla parte sensibile.

 

Accanto a questi ripiani c’era l’archivio dei negativi e del lavoro già fatto, solitamente non in ordine, e qui finiva la parete sulla quale era poggiato anche un piccolo tavolo.

 

  Frontalmente c’erano tre potenti ingranditori, il “Lupo”, il “Siluro” e il Durst, adibiti a funzioni diverse. Due per ingrandimenti e gigantografie, uno per i dilettanti.

 

   Sulla parete di destra c’era la zona-lavoro. Prima a sinistra, c’era la stampante, costruita da mio padre artigianalmente, con la quale si svolgeva il 100% del lavoro di studio. In questa, si stampava bianco-nero solo per contatto “negativo-e-carta-fotografica” poggiati insieme su un vetro smerigliato sotto il quale si trovava una forte lampada che veniva accesa alla bisogna premendo un bottoncino. Subito accanto alla stampante c’era un ripiano di cemento su cui era poggiata la prima bacinella, quella dello sviluppo, dove si immergevano le foto appena stampate. Sulla bacinella dello sviluppo si trovava una pietosa plafoniera che emetteva tanta luce rossa da consentire all’operatore (o all’operatrice) di seguire il lento venir fuori delle immagini. Ed era processo che bisognava seguire con molta attenzione, e tirar fuori alla svelta la foto, quando l’immagine aveva raggiunto il livello ottimale di contrasto, per passarla ancora a destra in altra vaschetta sulla quale scorreva acqua corrente. Il lavaggio era indispensabile prima di passare la fotografia dallo sviluppo alla bacinella dove si trovava il fissaggio, sostanzialmente acqua dove erano sciolti reagenti (iposolfito di sodio, metabisolfito di potassio, e altri sali ancora) che bloccavano/fissavano per sempre la immagine della foto, che altrimenti avrebbe continuato a venir fuori senza fermarsi, sino a diventare nera.

 

    Io che sin da piccolo ho aiutato i miei genitori, avevo il compito di togliere le foto dal fissaggio, immergerle e lavarle molto bene in acqua corrente per eliminare totalmente i sali dalla superficie della fotografia. Dopo averle lavate, le riprendevo, e le appendevo con dei ganci, una ad una, a una cordicella per farle asciugare, come si fa con i panni appesi al sole. Una volta asciutte, le riprendevo, le rimettevo per categoria, le ritagliavo con una frastagliatrice…

 

FOTO n. 56

 

Frastagliatrice

 

… e le riponevo dentro le buste, pronte per essere consegnate al cliente.

 

    Come è possibile vedere, il mio lavoro era apparentemente secondario, anche perché si svolgeva alla luce del sole, ma rubava molto tempo allo studio.

 

   Da un punto di vista didattico era un intervento perfetto, perché io, bambino, davo il mio contributo partendo dalle cose più facili da fare, dalla periferia, per poi essere cooptato gradatamente verso le operazioni più complesse e centrali.


  La crescita nell’apprendimento del mestiere avvenne per me quando mio padre mi volle accanto a lui nella camera oscura e mi diede la pinza per gestire le fotografie che, appena stampate, venivano inserite nello sviluppo, per essere poi passate nel fissaggio. Ricordo benissimo. Mi sentii importante.  E, importante ancora mi sono sentito quando mio padre mi diede il carico di preparare gli sviluppi e i fissaggi per i negativi, e per la carta fotografica. Così, quando era necessario, prendevo il bilancino, avvicinavo a me tutti i prodotti chimici, li pesavo, li mettevo uno alla volta in un boccale, versavo acqua q.b. mescolavo fino a quando i prodotti chimici si scioglievano, e lasciavo poi tutto fermo per una notte, per far decantare le soluzioni. Il giorno dopo, prendevo un imbuto ponevo un fazzoletto sull’imbuto, e versavo il soluto in recipienti di vetro. Mio padre non si lamentò mai di nulla. Come dire che il mio lavoro di bambino era in regola. Comunque, non avremmo detto tutto, se dimenticassimo di ricordare che i veri protagonisti della “camera obscura” erano le due lampade rosse, di un rosso scuro, quasi invisibili, piazzate in due punti diversi della stanzetta  assieme a  una  lampada  che restava sempre accesa. Le due lampade rosse rendevano possibile vedere anche al buio, solo quando, dopo qualche minuto, gli occhi si abituavano a quella luce rossa, ma molto scura, che serviva a proteggere negativi e carte fotografiche che venivano definite “ortocromatiche”, sempre riferito alle emulsioni fotografiche sensibili a quasi tutte le bande dello spettro visibile, fatta eccezione per il rosso. A me, ricordo, piaceva definire daltonico il bromuro d’argento, che non era disturbato dalla luce rossa. “Pancromatiche”, invece, erano definite tutte le pellicole che sarebbero state disturbate da tutti i colori, anche dal rosso. Per questi negativi era d’obbligo lavorare quasi completamente al buio con l’ausilio di una quasi invisibile luce verde, ma sempre molto scura.


    Quando la luce era accesa, va detto, su un tratto di parete libera era posta in evidenza una stampa della Madonna delle Milizie a cavallo che, spada in mano, sbaraglia i Turchi che avevano occupato la Sicilia. Era un modo per ricordare in icona la  Madonna protettrice di Scicli e una pagina di storia passata.    

 

FOTO n. 59

 

Macchina fotografic scatola

Formato 6x9

 

FOTO n. 60

 

 

COMET Formato 4x6

Negli anni ’50 costava 3500 Lire

Era la macchina più venduta ai Dilettanti. 

                   Adesso immaginiamo di poter entrare insieme in una camera oscura, dove due persone stanno lavorando. Si chiede permesso. Si apre con cautela la porticina d’ingresso. Si sposta una tenda nera. Si evita di fare entrare luce dall’esterno. Si entra. E voilà. La prima impressione non è quella visiva, del buio totale o quasi che ti costringe a camminare alla cieca, ma l’odore acre di bromuri e sali e prodotti e reagenti chimici che colpiscono le nari, e ti fanno capire di essere in una zona off-limits. Poi, lentamente gli occhi si adattano alla poca luce che c’è, e finalmente riesci a vedere colui, o coloro, che stanno lavorando. Puoi vedere chi stampa (mio padre), vedi colei  che segue il lento apparire delle immagini immerse nello sviluppo,  e cura di immergerle nel fissaggio (mia madre).

 

   Di fatto, i miei genitori lavoravano stando all’impiedi, e trascorrevano le loro giornate al buio, come pipistrelli, quasi sempre in silenzio. Giornate intere. In quell’aria a dir poco non igienica, impregnata di acidi. Giornate di lavoro lunghe. Dalle tre/quattro del mattino sino alle undici di sera. Sempre rubando ore al sonno.

 

    Si trattava di una sorta di prigione necessaria e volontaria,  dalla quale i nostri protagonisti si allontanavano solo per andare in bagno, pranzare o cenare, o per andare nella sala da posa, se erano richiesti da qualche cliente. Ed erano questi i momenti in cui potevano vedere un po’ di luce del sole, e respirare un po’ di aria ossigenata. Ma, era proprio questa la caratteristica degli artigiani. Lavorare senza guardare l’orologio. Senza dire mai di no al lavoro che era vita, al lavoro che era sacro, per poi, magari, indugiare in conversazione con un cliente senza badare a quel tempo “perduto”, che serviva da relax per mettere in equilibrio il sistema nervoso. Ed era questo il loro eventuale riposo nel corso delle giornate.  

   
                                                         Gino Carbonaro

FOTOGRAFIA? COS'È?

 Fotografia? Cos’è?

di Gino Carbonaro  

 

Cos’è la fotografia? Lo chiediamo all’etimo?  

          La parola deriva dal greco: 

                       

Fos-fotòs = luce +  grafia = scrittura/o incisione 

(φῶς, φωτός = luce  + γραϕία = scrittura, incisione)

 

 

      La fotografia è quella cosa che, seguendo una serie di procedimenti chimici, fissa una immagine  su un foglio di carta sensibilizzata. 

 

      Definito il concetto di fotografia, è d’obbligo chiedersi perché gli umani hanno sempre ritenuto importante riprodurre immagini di qualcosa utilizzando qualsiasi supporto, dalla pietra all'argilla, dalla pergamena alla carta. 


     E, il pensiero corre a Giotto che povero pastorello incideva/disegnava pecore su una roccia. E ci viene da pensare come nelle grotte di Lascaux (Francia meridionale), 17.500 anni a. Cr., e nelle grotte  di Altamira (Spagna settentrionale) nello stesso periodo (Paleolitico inferiore), l’uomo incideva graffiti  utilizzando successivamente pigmenti colorati: ematite, manganese, Goethite, ocra per dipingere figure umane, e immagini di animali e piante. Si tratta di "Arte Rupestre" e si tratta di opere che dimostrano come dalla notte dei tempi l’uomo ha preso coscienza della bellezza della Natura, e ha sentito il bisogno di fissare quella meraviglia per abbellire pareti e volte delle grotte con una serie infinita di immagini mutuati dal paesaggio circostante. E si tratta di opere di grande fattura, in questo meraviglioso dialogo che l’uomo instaura con la Natura.  

 

   Ma, il riferimento va anche alla cultura egizia, assiro-babilonese, greca, romana, cinese, da cui abbiamo ricevuto immagini di imperatori, faraoni, divinità, condottieri di battaglie vinte. Immagini di uomini ed eventi che si desidererebbe far conoscere agli altri. Storia-e-arte insieme. Bisogno di fermare il Tempo, bisogno di rendere immortali personaggi ed eventi. E tanto avviene solo se si può riprodurre e fissare  l’immagine.

 

                              *    *    *  

 

     In tempi più vicini a noi, il fotografo viene tuttora richiesto in occasione di un matrimonio, o di un evento che è considerato importante. Dunque, la fotografia come la pittura, serve per bloccare un momento eccezionale, che la memoria umana avrebbe dissolto, e non avrebbe potuto consegnare al futuro.

 

     Ma oggi, la fotografia ha anche una funzione pratica. È proprio lei che offre a chiunque l’immagine di qualcosa che esiste. Una foto della Torre Eiffel, del Colosseo, di un Dinosauro ricostruito, è utile per collegare il nome con la sua immagine. E ci torna in mente il famoso slogan della Kodak che, anni fa, fissava il principio che “Diecimila parole non valgono una fotografia”. Ed era slogan che qualcuno ritiene illuminante per affermare il concetto che le parole hanno un limite. Un limite? Difatti, nessuno può spiegare a parole quale è il gusto di un nespolo, a chi non lo ha mai assaggiato.

 

  E, non avrebbe valore una enciclopedia ornitologica o botanica senza le immagini di uccelli e piante poste accanto al nome. E ancora, oggi non sarebbe possibile acquistare qualcosa on-line senza vedere l’immagine di ciò che si vuole acquistare .

 

   In ogni caso, non va escluso che un'immagine possa avere altre funzioni. Il riferimento va ai già citati graffiti di Lascaux e di Altamira, ma soprattutto al ritrovamento di 8.000 statue di soldati armati e di 100 cavalli (un intero esercito in terracotta), scoperti in Cina nel 1974.  

   

         Nell’immaginario collettivo tutti quei soldati fatti costruire da un imperatore avrebbero dovuto rappresentare un deterrente contro potenziali nemici.


   Questo il messaggio subliminale contenuto nella enorme quantità di soldati armati. Qui non parlano le parole, ma le immagini.

 

   Qualcosa di simile può essere riscontrato in alcuni  bassorilievi del passato, che descrivono battaglie vinte, e intendono dimostrare agli altri che chi ha vinto una volta potrebbe tornare a vincere ancora. Principio confermato dal fatto che bassorilievi di battaglie vinte adornano gli Archi di Trionfo latini a Roma.


Ma, anche statue di atleti vincitori di gare, e di divinità, tutto nelle immagini realizzate dai committenti sembra voler fissare il concetto di bellezza, forza, superiorità, invincibilità.

 

    Stessa funzione hanno immagini di Santi che decorano le chiese cattoliche. Icone che si possono trovare nei bivi delle strade, e davanti ad alcune abitazioni di campagna. Immagini “miracolose” che, con il loro potere, si ritiene possano tener lontano ciò-che-reca-male. E il fine è sicuramente esorcistico-propiziatorio, come quello dei Totem e delle maschere. Simboli che servono per placare angoscia e timore  della morte, supremo dei mali, che alberga dentro di noi. Credenze, che rivelano la precarietà dell’uomo, e il bisogno di protezione da parte di "entità" immaginate, sconosciute e forse inesistenti. Funzione esorcistico-propiziatoria non dissimile da quella che realizza un ikebana di fiori, la cui bellezza ingentilisce l’animo, e riesce a tener lontane le brutture della vita. O anche quella di un profumo che allontana i cattivi odori.  

     

*      *    *

 

      Tornando alla fotografia, e a tempi più vicini a noi,  io ricordo una Signora che un giorno si presentò nello studio di mio padre accompagnata da un'amica. La Signora spiegò che il marito, emigrato in Germania, le aveva chiesto una fotografia. Mio padre capì, la fece accomodare nella sala da posa, seguita dall’amica, e le indicò il separè, all’interno del quale c’era uno specchio, un pettine, un rossetto, una cravatta, un pacchetto di sigarette.


  Atto dovuto, dare uno sguardo allo specchio, prima di essere fotografata.

 

      La Signora, che pure sarà stata dal parrucchiere, spostò la tenda, entrò nel separè,  diede uno sguardo nello specchio, prese il pettine, cercò di mettere a posto un ricciolo ribelle, rinforzò il rossetto delle labbra, si diede un’ultima guardata, spostò di nuovo la tenda, e venne fuori sorridente.


Mio padre, che aveva già messo la lastra nello chassi, la fece accomodare nella poltrona, quindi accese il primo riflettore, che orientò sullo sfondo, subito dopo un secondo riflettore, che orientò sui capelli della Signora, quindi accese automaticamente l’insieme delle luci diffuse, osservò la posizione della Signora, le spostò le spalle, le direzionò la testa, tornò alla macchina da posa, si abbassò, si coprì con il panno nero, per sistemare la inquadratura, ma, la posizione della Signora non lo convinse. Uscì di nuovo da sotto il panno nero, si avvicinò alla Signora, le spostò ancora le spalle, le sollevò un pochino il mento, indicò con l’indice dove guardare, le suggerì di sorridere, tornò indietro alla macchina da presa, si coprì nuovamente sotto il panno nero, ma capì a volo che la posizione della Signora  non andava. Dunque, si scoprì nuovamente, e tornò alla Signora. Spostò nuovamente il viso in altra direzione, mosse un poco i due riflettori, tornò alla macchina da posa,  si infilò nuovamente sotto il panno. Tornò a guardare. Ma, notò che la Signora era emozionata, forse anche un po’ goffa. Mio padre le parlò giusto per farla distrarre. Intanto prese con la mano destra la pompetta che attivava lo scatto dell'otturatore.


Scopo del fotografo? Cercare di cogliere il momento migliore. 


     Invitò nuovamente la Signora a sorridere. La Signora si sforzò, ma mosse il viso, che, no! Non si doveva muovere, mentre lo sguardo doveva diventare sognante. Avrebbe dovuto far capire al marito che lei stava pensando a lui. Mio padre, da fotografo, cercava di cogliere nella persona l’espressione più naturale e più bella, in equilibrio armonico con se stessa. All’improvviso lo scatto, quasi a sorpresa, per cogliere quell’attimo fuggente che renderà la fotografia unica, e il fotografo artista. Di fatto, mio padre, proprio in quel momento, si trasformava in pittore, il cui scopo era quello di cogliere il bello: il momento che bisognava ricordare per sempre. Perché? Si sa. Tutto passa nella vita. Anche la bellezza. E nulla rimane identico a se stesso. Solo la fotografia, riesce a fermare l’attimo, unico, irripetibile, che nessuno potrà cambiare.

 

*    *   *

 

     Finita la sofferenza della Signora, per il tempo durante il quale era rimasta immobile come un pezzo di marmo, intervenne l’amica della Signora, esclamando in siciliano: “Quannu ta marito a viri, si nni veni”. Cioè: “Quando tuo marito riceverà questa foto, e ti vedrà così bella, deciderà sicuramente di rientrare in Italia per ritornare da te”.  Interessante considerazione che dimostra quale era il ruolo della fotografia: - Documento

-Ricordo

- Arte

Attrazione.                          


Gino Carbonaro

Ragusa, novembre 2020 


2020/11/12

GIUSEPPE CORALLO Memoriale di Guerra

Diario di Guerra 


    Memoriale di Giuseppe Corallo

di Gino Carbonaro



Paola buongiorno,


Intanto ti ringrazio vivamente per aver voluto condividere con me il Memoriale scritto dal padre di Giovanni Corallo.


Che dire? Quello che penso io coincide perfettamente con quanto mi hai già detto parlando di questo prezioso documento. 


Comunque, ecco le mie impressioni.

“Impressioni” le voglio definire, perché

i giudizi sono prodotti dal cervello, le impressioni vengono fuori dall’animo.



Confermo che questo libro mi ha traumatizzato. Io da piccolo ho vissuto la guerra, i bombardamenti, il suono delle sirene, il lugubre rumore degli aeroplani, le fughe precipitose nelle grotte-rifugio, mia madre terrorizzata che mi afferrava per mettermi in salvo. Insomma, in un cantuccio di me è rimasta la paura e il terrore in quel silenzio di tomba in cui decine di persone si ammassavano al buio di un rifugio. 


Ora, leggendo questo stupendo “documento” si è aperto il sipario dei ricordi e ho potuto vibrare,  fibrillare, fare insieme al prigioniero-scrittore questo viaggio a ritroso nel tempo.


Io, cara Paola, ho letto qualche diario di guerra: 

il “Sergente della Neve” di Mario Rigoni Stern, 

“Se questo è un uomo” di Primo Levi, 

“Terra matta” del nostro Vincenzo Rabito, 

e ne ho letti altri ancora di diari di guerra e memoriali, ma.. i sentimenti che mi ha provocato questo scritto sono assolutamente indicibili. Premesso ciò, in breve, ecco le mie impressioni che ti prego di ritenere sincere.


  1. Questo è uno dei più bei libri che ho letto nella mia vita, e.. 

  2.  “Dovrebbe” essere tradotto anche e soprattutto in tedesco, perché questo popolo possa capire meglio dallo scritto di questo "prigioniero-testimone",  che cosa è una guerra, quanto vale una guerra, a cosa non serve una guerra, e soprattutto che cosa è l’uomo, con i suoi sentimenti e le sue inspiegabili, incomprensibili, ingiustificabili follie. 

  3. Dunque? Libro di alta pedagogia, di etica, di religione, di storia, di tutto.

  4. Non voglio aggiungere altro, cara Paola, se non che ho letto quasi sempre con gli occhi velati dalle lacrime, cercando di capire, di spiegare a me stesso cos’è la vita.

  5. Chiudo dicendo che si tratta di un libro potente, profondo, essenziale, bellissimo, e tutti, dico tutti gli uomini di questo pianeta dovrebbero leggerlo, leggerlo, leggerlo, per meditare, meditare, riflettere.

2020/11/08

CARLO MAGNO e 'Uso della Marna nel Medioevo

 

CARLO MAGNO 

L'uso della Marna e l'effetto boomerang

                        di Gino Carbonaro


      Nell’VIII sec. d. C., in Francia, era stato scoperto che la marna mescolata con la terra fungeva da fertilizzante. Grande scoperta. Perché aumentava la produzione dei prodotti agricoli, e quindi la ricchezza. Così, tutti cominciarono a trasportare carri di marna per fertilizzare i terreni. Scoperta, che dava risultati solo nel breve termine. Difatti, nel lungo termine, la marna si induriva, cementificando i terreni, facendo perdere loro la funzione. Da qui, un effetto boomerang. Ciò che era positivo nel presente, col tempo si ritorceva negativamente su chi lo aveva messo in atto.  

      A questo punto la storia registra l’intervento di Carlo Magno, il quale emanò un Decreto che proibiva l’uso della marna, motivandolo così: 

“Si proibisce l’uso della marna per fertilizzare i terreni,
perché?  Le vecchie generazioni si arricchiscono
a danno delle generazioni future”.

      Ed è su questo che bisogna riflettere, mettendo a confronto la logica di Carlo Magno, con quella odierna che va avanti senza tener conto di quello che consegneremo alle generazioni future e all’ecosistema danneggiato dai nostri inconsulti comportamenti che, come boomerang si ritorceranno contro il mondo vegetale e animale. Ed è considerazione terribile. Amara.

       A tale proposito, riportiamo una riflessione di Carlo Rubbia, premio Nobel, il quale scrive: 

“Oggi viaggiamo tutti su un treno che va a 400 km all’ora 
e va aumentando sempre la velocità.  
Scopriremo in ritardo che sul treno manca il macchinista, 
e non sta guidando nessuno”.

        Chiuso il discorso. 
        A buon intenditor poche parole!  
 
        IL PIANETA NON È SOLO NOSTRO


        Gino Carbonaro (Novembre 2020)
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2020/11/07

COMMENTI su "VIAGGIO NEL TEMPO GIORGIO CARBONARO



Gino Carbonaro

 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 
                                    Giuseppina Pavone


Commento  n. 1 Giuseppina Pavone

     Gino Carbonaro pubblica un libro e fa un prezioso regalo alla Comunità ragusana (e non solo, direi). 

     Ho letto tutto d’un fiato il suo “Viaggio nel tempo” e lo rileggerò per gustarne la ricchezza e la pedagogia del contenuto. 

     Lo stile di scrittura, che è ‘suo’ e solo suo, riconoscibile fra mille, è semplice, agile e accattivante, godibilissimo alla lettura.
 
     La modalità espressiva, di tipo conversazionale, a tratti quasi idealmente dialogica, sembra attribuire un ruolo vivo e tangibile al lettore che diventa ‘osservatore partecipante’ e si appassiona non solo alla storia narrata, ma con uguale intensità a tutti gli altri elementi (storia sociale, linguaggio, usi, costumi, mentalità, riti …) che non sono un semplice ‘complemento d’arredo’, bensì collante della storia stessa che si fa memoria, sia individuale che collettiva.

     La dimensione affettiva si amalgama magnificamente con quella del rigore documentario, senza sminuirne la valenza e senza indugiare su note di facile sentimentalismo, piuttosto rappresentando una importante chiave di lettura per accompagnare con naturalezza il lettore in questo viaggio (o avventura?), consentendogli di scandagliarne gli anfratti reconditi e ignoti ai più.

     Ed è un paesaggio splendido quello che si può ammirare in questo viaggio, durante il quale la narrazione diventa ricerca di senso tra le tracce della memoria che si sviluppano man mano, generandosi e rigenerandosi, e che l’Autore estrae con meticolosa azione maieutica dalla sua vita, dalla sua sensibilità, dalla sua cultura, ...

     Tutto ciò fa di questo libro un testo antropologico-sociale e sociologico, semiologico, storico, psicologico, pedagogico ... tutte aree a volte chiaramente individuabili, altre deducibili da quelle pennellate di colore significanti che con incisività ne rimarcano i particolari, con inserti a mo’ di tessere di mosaico che completano, chiariscono e specificano quanto prima era stato detto o con interessanti immagini e foto (la maggior parte di queste di Gino Carbonaro che le ha impreziosite con competenti didascalie in dialetto e in italiano, ma il testo è arricchito anche da contributi fotografici di Giulio Lettica, Emanuele Di Falco e Giovanni Modica Scala).

     L’Autore parla della “Storia di una famiglia”, della sua famiglia, la Famiglia Carbonaro, a partire dalla figura principale: nonno Giorgio, il capostipite, uomo operoso, grande lavoratore, buono, saggio, intelligente, creativo, con una ricchezza d’animo che traspare dal suo sereno sorriso.

     E non è un caso che Gino Carbonaro abbia scelto, anche se forse solo intuitivamente, la dimensione tri-generazionale (con, seppur brevi, flash quadri-generazionali), che rappresenta l’unità di analisi necessaria per dare un senso allo strutturarsi dei legami e delle relazioni, sia intra-familiari che nei diversi contesti di vita. 

     A ben vedere, infatti, è la trama relazionale il tessuto portante di questa famiglia,  quella che, pur se costruita su un’apparente condizione di solitudine fino all’età di 34 anni (il duro lavoro di contadino di nonno Giorgio, il suo rapporto vivo con la ‘terra’ e con la Natura), non esita poi a proiettarsi e attualizzarsi in un più ampio contesto (nella ‘masseria’, dove “era la mente, il cuore, la testa … Ed era lavoro di privilegio che riempiva la sua giornata”). 

     Ed è in tali contesti che attecchiscono saldamente quei valori che rappresentano linee guida per agire la vita e, come tali, si costituiranno poi, per le generazioni future, come “miti familiari” positivi, non cristallizzati, adattabili e funzionali nel tempo alla crescita individuale e all’evoluzione del gruppo; mi riferisco alla serie di credenze, abbastanza ben integrate e condivise da tutti i membri della famiglia, riguardanti ciascuno di essi e le loro posizioni reciproche all'interno della vita familiare, ma con attribuzioni di significato e contenuti che hanno particolare rilevanza nel contesto sociale, contribuendo a creare il senso di identità della famiglia stessa.

     Dalla narrazione di Gino Carbonaro emergono, come ‘solidi miti’, importanti aree di valori: senso di appartenenza e di responsabilità, onestà e senso dell’etica, armonia, unità, condivisione, rispetto e senso di umanità, rilevanza e specificità dei ruoli, saggezza, industriosità, ma anche ostinata capacità resiliente nell’affrontare con grande dignità le difficoltà della vita (emblematico, a tal proposito, il motto riportato nel frontespizio del libro “Die Nocteque Pugnamus”,  Combattiamo giorno e notte). 

     Si intuisce come proprio questa “mitologia familiare” abbia svolto, anche per le generazioni successive, la funzione di dare un senso alla propria esistenza, facendo sì che ogni componente si sentisse "parte di qualcosa" e come tale venisse riconosciuto dagli altri.

     Gino Carbonaro, ‘Io narrante’ ma anche componente di terza generazione della famiglia, assieme alla sorella Flaminia, fa suo questo mandato di valori, raccoglie il testimone di questa splendida eredità, la tutela e la custodisce per consegnarla come ‘patto di lealtà’ a figli e nipoti, perché questa storia gli appartiene, è la ‘sua storia’, ma è anche la ‘loro storia’.

Alcuni flash sul contenuto. Impossibile dar conto, con una sintetica riflessione, della vastità e importanza di tutti i frammenti di narrazione, si rischierebbe di ridurne bellezza, completezza dei contenuti e rigore descrittivo; mi limito, quindi, a dare solo dei flash/stimolo alla lettura del testo.

     La prospettiva storico-antropologica e sociale, che appare privilegiata in buona parte della trattazione, associata non di rado ad una implicita, ma evidente lettura psicologica di fatti, situazioni e azioni, trasferisce il lettore in una realtà di contesto per alcuni aspetti surreale, se rapportata ai giorni nostri, considerata, in particolare, la mancanza di mezzi di supporto di quell’epoca; risaltano alcuni concetti e dimensioni ampiamente trattati in questo lavoro da Gino Carbonaro: 

•  la povertà come condizione di vita per determinate classi sociali, accettata e   vissuta quasi come una ‘seconda pelle’, ma con estrema dignità (scrive Gino Carbonaro nella sua introduzione : “Questa memoria? Va considerata una pagina di storia familiare che rievoca un’epoca rivisitata dall’angolo della povertà”)

• la precarietà abitativa con inesistenti sia condizioni igieniche che risorse primarie (acqua potabile e luce, ad esempio)

• il duro lavoro nei campi

   Ma anche...

• il senso della famiglia e degli affetti familiari, il ‘Clan Carbonaro’
 
• il ciclo di vita della famiglia e i relativi eventi critici: le nuove generazioni, le gioie …, i dolori, la guerra, le perdite

• la serenità nella saggezza 

• la rassegnazione razionale, ma non passiva

• le abitudini di vita, gli esempi e i riferimenti

• i riti e i simboli

• gli oggetti e gli attrezzi di lavoro (vere e proprie opere di artigianato, molte realizzate a mano dallo stesso nonno Giorgio): le bellissime foto ne esaltano la rilevanza

• i riconoscimenti, i sogni, i progetti 

• il linguaggio, con ampio spazio per il dialetto, elemento importante della cultura, quella popolare in particolare, perché vicinissimo alla vita quotidiana della gente, genuina via di comunicazione con l’anima, ampiamente dimostrato da alcuni termini dialettali riportati, e anche dai numerosi proverbi inseriti – ma Gino Carbonaro è specialista in questo ambito, basti pensare alle diverse edizioni del suo “La Donna nei proverbi siciliani”!

     Questo libro? Bello, emozionante, interessante, utile, educativo, …e, in una parola, ecumenico!

     Non è un romanzo, ma appassiona come un romanzo. Non è un saggio, ma contiene una ‘summa’ di  analisi documentarie sulla vita vissuta. Non è un libro di filosofia, ma invita a pensare.

     Trovo un’unica espressione che lo possa definire: è un libro d’amore e di poesia!

     Credo che debba essere letto da tutti con attenzione e interesse per non lasciarsi sfuggire nemmeno un frammento dei messaggi che trasmette.

    Mi piace concludere ripetendo la mia affermazione iniziale:

     Gino Carbonaro pubblica un libro e fa un prezioso regalo alla Comunità ragusana!

                                              Giuseppina Pavone

©️Giuseppina Pavone


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Gino Carbonaro

 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 
                                        Giovanni Scifo

Commento  n. 2  Giovanni Scifo


     In guerra, il nemico che si trova a 200 metri è  un bersaglio a 1 metro è un uomo. 

     L'ho letto in un libro "I Vangeli scomodi" di Alessandro Pronzato. 

      Colgo l'occasione per dirti che che la lettura del libro mi ha appassionato. 

     L'ho letto d'un fiato. 

     Molte le emozioni che mi ha suscitato. 

     Tanti ricordi anche della mia infanzia. 

     Eccezionale il patrimonio fotografico.  

     Sapienti le "incursioni" sociologiche. 

     Uno  spaccato delle nostre tradizioni.  

     Un abbraccio forte  caro Gino. 

     A risentirci.

                                        Giovanni Scifo


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 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 
                                          Silvia Cecchi

Commento  n. 3

Caro Gino,


Abbiamo ricevuto i tuoi libri e, Giorgio ed io l'abbiamo letto in alcune parti insieme,  e commentato con molta ammirazione e qualche commozione. Ora è ancora più bello, ma già come sai mi colpì quando era una stampa di file in bianco e nero. Foto meravigliose e molto bella la composizione grafica. Ho molto apprezzato che tu abbia pubblicato i bei commenti dei tuoi figli e di tua sorella senza intervenire in alcun modo sulle loro parole.  Mi sembra così di averli un po' conosciuti e che abbia ciascuno rivelato le proprie doti.  Ora poi non ho dubbi, è un libro molto originale anche perché vi parlano gli oggetti, come mai li ho sentiti parlare di vita vissuta, e vi parlano le 'parole' di una lingua in estinzione ma potentissima. L'esemplarità umana dei tuoi nonni è una lezione per tutti. Compare una Sicilia sconosciuta a molti e che farà storia. Il tutto visto e sentito attraverso il tuo intelligente amore per i tuoi ascendenti e per la vita. Amore colto, direi ma anche primordiale, nativo, grande e capace di rimettere insieme tutta la famiglia. Eccellente il tuo libro e anche documento storico e di costume raro. Darò ad Oliviero il suo, naturalmente, appena lo rivedrò. Grazie anche  per la lunga e bella dedica. Ti abbraccio, col desiderio di rivederci appena lo potremo. Silvia.  


Carissimo Gino,

     Ti scrivo con ritardo, non solo per il mio tempo feriale da pochi giorni iniziato, ma perché mi sono presa il tempo di godere il tuo libro che mi ha commosso, e in questo stato d’animo, ora che l’ho appena riletto nell’ultima parte, ti scrivo. 


   La vita è sempre “intensa e bella”,se l’Universo ha creato qualcuno che guarda l’Universo”(bellissimo).  


     Non sono nata povera, ma ho lavorato per tutta la vita  e sto lavorando ancora come un mulo, forse per il sentimento recondito di dovere questo tributo alla vita-dono, e ho anch’io il culto di una povertà di fondo, forse perché so che in questa povertà assoluta si trova anche l’anima quando pensa in modo radicale, forse perché l’amore a cui vorrei tributare a modo mio la mia vita è figlio di “penìa” (povertà) come dicevano i greci, e perché siamo tutti, quando non materialmente spiritualmente, uomini e donne del bisogno, della mancanza,  ben più che figli dell’agio e dell’abbondanza. Anche il mio ‘comunismo’ di fondo (che parola antica 

 

complicata oggi!)  è avversione per il privilegio e una 

 

scelta dalla parte dei poveri, dell’ingiustizia e della 

 

speranza di riscatto’, come per tuo nonno. 


 

Figura bellissima, che nelle poche parole dette nella vita ti 

 

ha trasmesso il sentimento di rifiuto e disprezzo per la 

 

follia crudele della guerra e il potere del sorriso e 

 

dell’amore (“Çiàmma”!).

 

 

   Anch’io nella vita ho avuto due o tre incontri come il tuo 

 

con il taxista di Londra. Ero sola con mia figlia, 

 

in viaggio. Una volta a New York, un’altra volta a Reims 

 

(la terza volta ora non mi torna in mente). Nel nostro 

 

lessico madre-figlia, li chiamiamo i nostri angeli anonimi.

 

 

     L’apparato fotografico è di eccezione, sia rispetto ai 

 

luoghi ( p. 21: la casa del nonno ‘non più grande di un 

 

nido d’uccello’, p. 24) sia per i volti, sia per i meravigliosi 

 

oggetti scomparsi. Direi un museo fotografico e 

 

testimoniale che merita di essere conservato come un 

 

tesoro d’archivio.

 

 

     La tua scrittura ha un’essenzialità, un tuo stile concreto 

 

e carico di sentimento, che comincio a individuare come il 

 

tuo stile del tutto personale. Non so quanti oggi abbiano il 

 

coraggio di parlare un linguaggio così  aderente alla vita 

 

nella sua espressione essenziale ed elementare.

 

La tua mitezza, dote del tuo carattere che tu riconosci 

 

anche al tuo nonno Giorgio, e la tua gratitudine alla vita 

 

nonostante tutto, sono una grande lezione per me, un 

 

insegnamento ad essere anch’io nella vita ‘mite nonostante 

 

tutto’ e sappiamo entrambi, se non di cosa parliamo, che 

 

cosa intendiamo dire.

 

   Auguriamoci di vederci presto, un grande abbraccio. 

 

                                                  Silvia 


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 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 

                                       Lorenzo Guardiano


Commento  n. 4


Carissimo Professore,

 

Ho letto oggi tutto d’un fiato il suo libro… che dirle? Sono così tante le cose che vorrei dirle, le cose che penso… forse troppo, a tal punto che non passano tutte insieme attraverso l’imbuto della mente. Fin dall’inizio della sua opera ho individuato un tratto squisitamente dolce per il mio gusto: quella spontaneità, quella genuinità degli storiografi greci (quasi dei logografi, forse) quando si accingono a raccontare i fatti e la storia di un posto. Vi è anche quell’intento costruttivo dietro il racconto, quella coscienza moraleggiante che si nasconde dietro la storia che rimanda alle pagine di Erodoto, e di certo la sua scrittura è simile alla scrittura di Erodoto e non di Tucidide, quella storia non manualistica ma quasi novellistica, ricca di digressioni, di storie, di costumi, di modi di dire, diciamo folclorica, antropologica. Quell’assenza di retorica, anzi quell’assenza di artificio che rende viva sulla pagina l’essenza della pura verità (anche quella più favoleggiante)

 

Certo tutto questo c’è. E poi? Poi sono andato avanti a leggere… quante parole mi sono venute in mente… una? Vergogna. Certo, la vergogna che provo io per aver vissuto la vita che vivo, per come ho ogni bene a portata di mano, per come ho perso (io e i miei fratelli) il contatto con una realtà concreta, fatta di erba e di sole, di fame soprattutto, di famiglia, di vita. Abbiamo perso così tanto. Certo, tanto abbiamo acquistato (soprattutto questi benedetti servizi igienici!), ma abbiamo perso così tanto. Abbiamo perso l’identità unica e irripetibile, del costruire, fabbricare, creare qualunque oggetto ci serva con le nostre mani e renderlo unico e nostro. E invece ormai è tutto altrui. Tutto già pronto e nulla è più nostro. 

 

E quale altra parola? Grazie. Grazie per questo dono per i suoi figli e nipoti ma in realtà per tutti noi. Credo sia una delle cose più potenti che abbia mai letto. Le sono così grato per averlo scritto, per avermelo mandato e per essermi amico. Sono grato e onorato della sua amicizia. Le confesso che le emozioni sono state tante. Così potente il racconto della vita nelle grotte, così dolce e toccante la pagina dell’esperienza londinese con il tassista, così straordinariamente struggente quell’unica parola ripetuta da suo nonno Giorgio alla sua moglie appena morta… “Ciamma!”

 

E il funerale di suo nonno Giorgio, il suo sogno nel cassetto realizzato… Lo confesso e sono sincero: ho pianto. Mentre leggevo. Ho pianto per una persona che non ho mai conosciuto, di cui fino a ieri ignoravo l’esistenza. Ma ho pianto per un uomo veramente uomo, per il suo amore semplice, per i suoi silenzi mai ascoltati, per i suoi sorrisi mai visti. Per tutto quello che non ho avuto e che pure mi sembra così ovvio di aver avuto, ho pianto. 

 

Grazie, professore, per questo dono. Lo porti a termine, io lo attendo. 

Un abbraccio

-- Lorenzo


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 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 

                                       Pippo Cultrera


Commento  n. 5


Caro Gino,


Stamani mi è stato consegnato il pacco con il libro.  E' un lavoro splendido, lo si vede subito, frutto di un' idea molto bella. Scrivere la storia della propria famiglia facendola anche specchio della storia della società; e unire, in un qualcosa di solidale, di quasi sacro, vecchie e nuove generazioni. Bellissima la veste grafica e preziosa la stampa, suggestive le immagini, coinvolgente il testo. Ne ho già letto - direi bevute avidamente- una ventina di pagine. Ti sono profondamente grato di questo bellissimo regalo.


Ti saluto caramente.


Giuseppe


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 Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 

                                       Lorenzo Migliore


Commento  n. 7

Caro Gino, 


Ho letto d'un fiato la straordinaria storia del capostipite della famiglia Carbonaro, il libro che con grande generosità hai voluto donarmi, e che hai scritto con la passione e la ricerca documentaria che ti hanno sempre distinto. E' uno spaccato non solo della storia di Giorgio Carbonaro, ma della storia dell'uomo e della Sicilia povera e sfruttata che tu scrivi da artista in un percorso particolare della vita, e dei fatti che quasi la enuclea dalla pur affascinante vicenda personale di ognuno dei protagonisti. E' la storia del progredire dell'uomo e dei costumi, delle condizioni di vita che ha interessato non solo la Sicilia agricola. 


     Grazie per avercela raccontata con un grande realismo che non si trova spesso nei libri di storia, e ci lega ancora di più a un mondo ormai superato, ma che amiamo perché è la storia di tutti noi.

Ciao 😘--

                                                           Lorenzo


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Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di 

                                       Giorgio Minardo


Commento  n. 8

Carissimo Gino, 

 

     Ho avuto il tuo libro da parte di Silvia, che ha trovato bello e suggestivo oltre ogni dire. All'interesse che può avvincere lo studioso e cultore di tradizioni si aggiunge - da parte mia - anche un profondo amore e riconoscimento delle mie radici, in cui mi sono visto attraverso la tua calda e appassionata scrittura di uomo del sud aperto a tutte le culture. 

 

     Commovente il tuo retaggio familiare e il tuo rispetto per  le figure dei tuoi antenati, che si impreziosisce della tua rara, profonda e vibrante umanità. Bellissima la veste tipografica e il corredo fotografico. Last but not least, la tua foto alla fine del libro dice tutto della bella persona che sei.

 

     Grazie infinite per questo dono di inestimabile valore umano ed affettivo. 

 

                                        Giorgio


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Viaggio nel Tempo

Storia di una famiglia 

Riflessioni di Giorgio Sortino

                                       


Commento  n. 9. 

Carissimo Gino, 

      Ho appena terminato di leggere il tuo libro. Mi è piaciuto moltissimo: lo definirei allo stesso tempo intimo e universale. Intimo perché parla di sentimenti familiari profondi (mi sono sentito forse a disagio pensando che in realtà tu hai scritto il libro  con l’intento di diffonderlo essenzialmente tra i tuoi familiari), ma allo stesso tempo universale perché rappresenta un documento eccezionale su quella che era la vita “vera” del popolo di questo angolo di Sicilia. Io proporrei di farlo conoscere nelle scuole, affiancandone la lettura alla visita del museo etnografico. 

      Attendo con ansia il completamento della trilogia! 
Con sincera ammirazione. 

                                               Giorgio
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