2015/12/28

Pietro Floridia Musicista modicano di Michele Giardina

Grandi del Passato
Modica: Storia & Cultura di una città


Pietro Floridia

Il sogno infranto di un musicista errante

dal libro di Michele Giardina
Siciliano Editore

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Michele Giardina


Articolo di Gino Carbonaro

Pubblicato il 26 dicembre2015
sul quotidiano "la Sicilia"


     Il passato copre i ricordi. Kronos - il Tempo - divora i suoi figli. Diventa proprio per questo un obbligo di ognuno di noi, quello di riscoprire le proprie origini, conoscere i grandi del passato, capire il perché della grandezza di quanti hanno dato lustro a una città. La nostra provincia, terra all’estrema periferia sud dell’Europa, ha da sempre custodito una sua cultura, da sempre ha avuto una sua predilezione per letteratura, poesia, musica, pittura, arte.

     Ne è prova il fatto che in questi ultimi tempi, questa terra iblea è passata agli onori della cronaca per artisti, giovani e meno giovani, di eccezionale valore, che hanno operato su una piattaforma culturale preparata da altri nel passato. Fra i pittori hanno un posto d’onore il modicano don Orazio Spadaro, i fratelli Beppe, Enzo e Valente Assenza, per citarne solo alcuni. Fra scrittori e poeti si ricordano Raffaele Poidomani, Carmelo Assenza, Nino Barone, Franco Antonio Belgiorno. Per la musica, in tempi più vicini a noi, la palma va a Lydia Jemmolo Giardina, una donna, pianista e concertista, che educò schiere di musicisti di tutta la provincia. Restando a Modica, l’attenzione va rivolta a due grossi, e non molto conosciuti compositori del passato. A Federico Borrometi (1851-1940) modicano, per anni direttore della Banda Comunale di Scicli, e soprattutto a Pietro Floridia (1860-1932), musicista che a cavallo fra Ottocento e Novecento ha operato in Italia e negli Stati Uniti d’America.

     Sino a poco tempo fa, di Pietro Floridia pochissimi sapevano della sua esistenza, e quasi nessuno aveva notizie della sua attività musicale come concertista e compositore, né si sapeva che le sue opere liriche erano state rappresentate al “Teatro alla Scala” di Milano e in tanti altri teatri d’Italia, né si aveva notizia delle sue amicizie con Brahms e Wagner. Tutto questo fino a quando un gruppo di studiosi modicani non si è incuriosito e attivato per saperne di più.
  
      Da qualche mese, però, pubblicato dall’editore Armando Siciliano, è in libreria “Pietro Floridia, Il sogno infranto di un musicista errante”, libro dello scrittore Michele Giardina, il quale, utilizzando una intensa raccolta epistolare del musicista, del padre Francesco, di amici e familiari del Nostro, ricostruisce una documentata biografia di questo interessante musicista modicano. Si svela, così, il percorso travagliato della sua vita, successi e sconfitte, ma soprattutto viene chiarito perché su di lui sia calata la coltre del silenzio.  

    Nel suo lavoro, Michele Giardina riporta fedelmente il contenuto delle lettere che il Barone Francesco Floridia, padre del musicista, da Napoli scriveva alla moglie Anna, per tenere informata lei e i familiari di quanto accadeva nel “Circo Nazionale”, uno dei tanti teatri napoletani, dove Pietro, il figlio ventunenne, lavorava per mettere in scena la “Carlotta Clepier”, il suo primo melodramma.

     Da quello che il Barone Floridia definiva “giornaletto cotidiano”, viene fuori una dettagliata descrizione su quella che è la dinamica della équipe di persone che lavorano per la “mise en scéne” di un’opera lirica. “Sessanta professori d’orchestra, altrettanti coristi, oltre quaranta comparse. Per non parlare di quello che accadeva sul palcoscenico durante i preparativi: “Una vera torre di Babele. Artigiani che non finiscono mai, operai ammassati là, ingegneri, appaltatori di scena, appaltatori del palco scenico, direttori di ballo, di quadri coreografici, ballerine dappertutto che provano e tornano a riprovare le 20, le 30 volte la stessa cosa. E poi ancora voci, grida, strimpellare di violini che sono uno strazio. Tutto è là. Sulla scena”. E poi i compromessi fra tutti coloro che spingono per avere il massimo vantaggio: “Il librettista che difende il suo lavoro, la prima attrice attenta a che la sua parte rifulga, il direttore ché la sua orchestra faccia bella figura, gli artisti che vogliono spiccare, l’impresa che ne abbia il suo più lauto tornaconto, e ancora, i giornali che pretendono abbonamenti annuali per dire bene dell’opera, i critici che pretendono qualcosa, mentre il povero Pietro, il povero Cristo in mezzo a tanti giudici, deve fare del tutto per non dispiacere nessuno”.  Tutto questo, la famiglia Floridia sopportava per lanciare il proprio ragazzo musicista alle prime armi, “Perché - continua il padre scrivendo alla moglie -  ogni carriera ha i suoi triboli”. Ma, i triboli per il nostro musicista modicano continuarono per tutta la sua vita accompagnato da guerra di interessi che lo costrinsero a combattere con Giulio Ricordi, della famosa Casa Editrice milanese, che in quel tempo monopolizzava il mondo della musica, e attacchi crudeli dovette subire dalla gelosia dei colleghi, che lo avrebbero voluto morto, al punto che nel 1904 Pietro Floridia scelte di trasferirsi negli Stati Uniti d’America. Anche lì, malgrado il successo e il riconoscimento al merito, non tutto andò liscio. Invidie e gelosie sono in letargo nel DNA umano e bisogna convivere con questi.

     Il libro di Michele Giardina, scritto con una chiarezza assoluta, non parla solo di intrighi. Chi legge la storia di questo emerito musicista modicano scoprirà perché un uomo può, molte volte, non essere capace di far riconoscere i suoi meriti, la sua grandezza. Adesso si spera che dopo la pubblicazione di questo libro, di interesse storico, ma soprattutto sociologico e psicologico, si possa avere il tempo per onorare la memoria di questo certamente grande musicista modicano.    
       

                                                                     Gino Carbonaro

Il Vecchio e il mare di Ernest Hemingway

Storia ridotta

Il vecchio e il mare

                                                              di Ernest Hemingway




         Questa riduzione è tratta dal romanzo “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, scrittore contemporaneo, premio Nobel  1954.

         Il romanzo narra la storia di un vecchio pescatore di nome Santiago, che abitava in un villaggio di pescatori  vicino all’Avana, nell’isola di Cuba, e tutte le mattine, al buio,  salpava sulla sua barca a vela dirigendosi al largo, nell’immenso oceano Atlantico.

    


         Da ottantaquattro giorni però Santiago non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo di nome Manolin, ma dopo quaranta giorni passati senza prendere pesci, i genitori del ragazzo avevano capito che il vecchio era sfortunato, e avevano mandato il figlio in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Ma, era triste per il ragazzo veder arrivare ogni sera il vecchio con la barca vuota, perciò scendeva sempre ad aiutarlo a portare le lenze o la fiocina o la vela rattoppata con sacchi di farina.

         Il vecchio aveva insegnato a pescare al ragazzo, ed il ragazzo gli voleva bene, e avrebbe voluto perciò ritornare nella barca di Santiago, perché Manolin  aveva fiducia in lui.

         Anche il vecchio aveva fiducia in se stesso, perciò non si scoraggiava, anzi voleva dimostrare a se stesso e agli altri, che già cominciavano a compatirlo, che egli non era così sfortunato come si credeva, né tanto inabile da doversi rassegnare a tirare la barca a riva. Così, pian piano, si insinuò nella mente del vecchio una idea sola, quella di vincere.

         Una mattina, il vecchio si diresse al largo lasciandosi l’odore della terra dietro le spalle, e remò nel fresco odore dell’oceano del primo mattino. Nell’oscurità Santiago sentì giungere l’alba, e mentre remava udì il suono tremolante dei pesci volanti. Poi, prima che fosse giorno chiaro, gettò le esche e si lasciò trasportare dalla corrente. Passarono molte ore, durante le quali il vecchio ebbe la compagnia di un grande uccello che planava vicino. A un certo momento, però, la lenza a poppa si irrigidì, poi si sentì un lieve strappo, poi non si sentì nulla. “Non può essere andato via – disse il vecchio – lo sa Cristo che non può essere andato via.

         "Forse sta facendo soltanto un giro. Forse ha già abboccato una volta e se ne ricorda”. Poi sentì un lieve strappo alla lenza e fu la felicità; e sentì qualcosa di forte e di incredibilmente pesante, e la lenza cominciò a scorrergli fra le dita. Si doveva trattare di un pesce enorme. Ma ora la cosa più importante era quella di fargli mangiare l’amo ben bene, in modo da farglielo entrare nel cuore, così da ucciderlo.

         Ora il pesce proseguiva con regolarità, e procedettero lentamente sull’acqua calma. Il vecchio si sentiva rimorchiato dal pesce, ed avrebbe voluto che Manolin fosse lì.

         Quattro ore dopo il pesce stava ancora nuotando, e la terraferma era scomparsa all’orizzonte. “Non importa – pensò il vecchio – posso sempre rientrare con le luci dell’Avana”. Adesso mancavano due ore al tramonto e Santiago cominciava a sentire i crampi alla mano, e avrebbe desiderato vedere il pesce almeno un momento solo, per sapere contro che cosa avrebbe dovuto combattere. Poi venne la notte e spuntò un altro giorno, ed il pesce continuava a nuotare sempre verso oriente. Santiago guardò l’orizzonte e capì sino a che punto era solo, adesso. A un certo momento la lenza si alzò lentamente, la superficie dell’oceano si sollevò davanti alla barca, ed il pesce uscì. Uscì senza fine. E l’acqua gli ricadde sui fianchi. Era lucente nel sole e la spada era lunga ed appuntita come una alabarda. Era un pesce magnifico, ed era sicuramente mezzo metro più lungo della barca. Santiago aveva visto e preso molti pesci grossi, ma non era stato mai solo. 

            Adesso, da solo, e in pieno mare aperto, era legato al pesce più grosso che avesse mai visto e di cui avesse mai sentito parlare. Ora si sentiva molto stanco, e sapeva che presto sarebbe giunta un’altra notte; perciò si riposò per quello che gli parvero dure ore, mentre l’animale maestoso continuava a trainare la barca. Si svegliò di soprassalto. Il pesce si era fermato. Era il momento. Il vecchio preparò la fiocina e si avvicinò remando lentamente al pesce. Poi alzò l’arma più alto che poté e la lanciò con tutta la sua forza. Allora il pescespada tornò in vita e si librò alto, fuori dall’acqua, mostrando tutta la sua forza e la sua bellezza.

         Più tardi, quando tutto fu finito, tirò il pesce per metterlo affiancato alla barca, in modo da legargli la testa alla prua. Passò un’ora però, prima  che il primo pescecane l’azzannasse, e quando questi si accostò al pescespada il vecchio lo colpì con tutte le sue forze. Lo squalo lasciò la preda ed affondò inghiottendo mentre moriva, ciò che aveva rubato. Aveva appena allontanato il primo pericolo quand’ecco arrivare un altro squalo il quale girò tre volte attorno alla barca, infine mise fuori il naso dall’acqua e addentò il pescespada. Il vecchio colpì lo squalo due volte nello stesso punto, ma il pescecane rimase attaccato al pesce con le mascelle chiuse; allora il vecchio lo pugnalò, girò il coltello. Lo squalo abbandonò la presa e affondò. E il vecchio disse: “Vai pure, galano, affonda per un miglio. Va a trovare il tuo amico se non era tua madre”. Poi aggiunse ad alta voce: “Devono averne preso più di un quarto, e della parte migliore”.

         Il prossimo squalo arrivò come un maiale al truogolo. Il vecchio aspettò che azzannasse il pesce e poi gli immerse a fondo nel cervello il coltello legato al remo. Ma, lo squalo fece un balzo all’indietro e la lama gli si spaccò. Ora il vecchio si mise al timone e non guardò neppure lo squalo che affondava.

         “Ormai hanno vinto loro, - pensò – sono troppo vecchio per ucciderli a mazzate, ma cercherò di farlo. Combatterò sino alla fine”. Ora era rigido e indolenzito, e le ferite e tutte le parti del corpo gli facevano male nel freddo della notte.

         Verso mezzanotte giunsero in frotta, e il vecchio riuscì a vedere soltanto le linee create nell’acqua dalle pinne. Prese a mazzate le teste e udì le mascelle serrarsi e la barca scrollata mentre gli squali attaccavano da sotto. Colpì disperatamente qualcosa che si poteva soltanto udire, e sentì qualcosa impadronirsi della mazza, e la mazza scomparve. Allora strappò dal timone la sbarra e ricominciò a sferrare mazzate con tutt’e due le mani. Ma uno giunse alla testa del pescespada, ed il vecchio capì che era finita. Abbatté la sbarra sulla testa dello squalo e colpì una, due e più volte. Lo squalo infine lasciò la presa e si staccò rivoltandosi. Fu l’ultimo squalo della schiera ad avvicinarsi. Non c’era più niente da mangiare per loro.

         Il vecchio ora respirava a stento, e sentiva un sapore strano in bocca. Sputò nell’oceano e comprese di essere sconfitto ormai definitivamente e senza rimedio. Ritornò a poppa e raddrizzò la direzione. Sentì che era dentro la corrente e vide la luce dei villaggi. Capì dov’era, e che ormai era a casa. Desiderò dormire, desiderò il letto di casa sua, e pensò che solo il letto era suo amico. Quando entrò nel piccolo porto, le luci del ristorante erano spente e il vecchio sapeva che tutti erano a letto.

         Disarmò l’albero; guardò la linea nuda della colonna vertebrale del pesce, e cominciò la salita che lo portava a casa. Nella capanna appoggiò l’albero alla parete. Nel buio trovò una bottiglia di acqua e bevette un sorso. Poi si distese sul letto e dormì profondo, e sognò i leoni africani che aveva visto nella sua giovinezza.

                                                                    Ernest Hemingway

                                                        (da Il vecchio e il mare”)

La Scomunica Kjérem di Baruch Spinoza TESTO

Testo di.. 

SCOMUNICA EBRAICA
Kjérem 
di 

Baruch Spinoza




Baruch Spinoza
(Amsterdam 1632-  L'Aja 1677 )


        Il 27 luglio 1656 fu data lettura di un testo in ebraico di 
fronte alla volta della sinagoga dello Houtgracht, il canale di 
Amsterdam che attraversava il quartiere ebraico: un 
documento di Kjérem (bando o scomunica), gravissimo e mai 
revocato, era assai esplicito e non faceva ricorso ad 
eufemismi:

     « I Signori del Mahamad rendono noto che, venuti a conoscenza già da tempo delle cattive opinioni e del comportamento di Baruch Spinoza, hanno tentato in diversi modi e anche con promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non essendovi riusciti e ricevendo, al contrario, ogni giorno informazioni sempre maggiori sulle orribili eresie che egli sosteneva e insegnava e sulle azioni mostruose che commetteva – cose delle quali esistono testimoni degni di fede che hanno deposto e testimoniato anche in presenza del suddetto Spinoza – questi è stato riconosciuto colpevole. Avendo esaminato tutto ciò in presenza dei Signori Rabbini, i Signori del Mahamad hanno deciso, con l'accordo dei Rabbini, che il nominato Spinoza sarebbe stato bandito (enhermado) e separato dalla Nazione d'Israele in conseguenza della scomunica (Kjérem) che pronunciamo adesso nei termini che seguono:  


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Simbolo della scomunica
   
Con l'aiuto del giudizio dei Santi e degli Angeli, con il consenso di tutta la Santa Comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti..

Escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo 
Baruch Spinoza. 


Pronunciamo questo Kjérem  nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. 

    Che sia maledetto 
di giorno e di notte, 
mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. 
     Che l'Eterno non lo perdoni mai. Che l'Eterno accenda 
contro quest'uomo la sua collera 
e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge.

 Che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo 
e che piaccia a Dio 
di separarlo da tutte le tribù 
di Israele affliggendolo 
con tutte le maledizioni 
contenute nella Legge. 

     E quanto a voi 
che restate devoti 
all'Eterno, vostro Dio, 
che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere 
con 

Baruch Spinoza 




alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e 
che nessuno si avvicini a lui 
più di quattro gomiti. 

Che nessuno dimori 
sotto il suo stesso tetto 
e che nessuno legga 
alcuno dei suoi scritti.

«Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto   
in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande 
corno. Le luci che si vedevano ardere brillanti al principio 
della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a 
mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche 
l'ultima, simboleggiando l'estinzione della vita spirituale 
dello scomunicato, e l'assemblea rimase completamente al 
buio».



Condanna al rogo di uomo scomunicato
(1673)


Considerazioni: La scomunica era conseguenza di una contestazione. Baruch Spinoza non era d'accordo sul fatto che Dio dovesse avere forma umana, né credeva nella immortalità dell'anima. Poneva altresì il principio che non tutto quello che era scritto nel Vecchio Testamento era credibile e accettabile. Sosteneva, invece, che si poteva discutere (e accettare) l'aspetto etico suggerito dai Profeti. La non accettazione di quelle che erano considerate verità assolute all'interno del Vecchio Testamento, provocò la rabbia-dei-rabbini che stilarono per lui la terribile scomunica. A  questo punto viene da dire che la verità è sempre stata quella proposta e imposta da chi detiene il potere. E tutti (i sudditi) hanno il dovere di accettare, ma non hanno il diritto di contestare.
Vedi la condanna al rogo di Giordano Bruno.      

Posted by Gino Carbonaro   
gino.carbonaro.italy@gmail.com

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2015/12/19

Se il nudo è peccato



Les nudites

Il nudo e la morale


di Gino Carbonaro

               
Sentō (銭湯) - Bagno

I Giapponesi, che hanno prodotto lo shintoismo, non consideravano indecoroso  mostrare gli organi sessuali e, quasi tutte le famiglie avevano in casa il bagno comune, dove spesso tutta la famiglia si immergeva per rilassarsi (non per lavarsi che va fatto separatamente). Così, tutti a partire dal nonno alla nipote sedicenne si potevano trovare insieme nell'acqua della grande vasca comune. Questa consuetudine storica e tradizionale che ha radice "shinto" è durata fino alla seconda guerra mondiale, quando gli invasori americani fecero capire ai Giapponesi (o i Giapponesi capirono) che la esposizione delle "nudites", in altri paesi del mondo era considerato immorale, o perlomeno indecente.

   
Bagno privato giapponese

La doccia a destra si fa stando seduti
su piccoli sgabelli i servizi igienici non sono previsti
in questo spazio




  Lentamente i Giapponesi, che sono sensibili alle critiche e aperti ai cambiamenti, cominciarono a modificare le abitudini accettando modelli “allotri”. Malgrado ciò, ancora oggi nei bagni pubblici (alberghi, ristoranti e altro) e nelle numerosissime stazioni termali, gli uomini (in bagni per soli uomini) stanno tutti nudi, e così è per le donne.


   
Sentō (銭湯) - Bagno
in acque termali
(Giappone) 


  Per la cronaca va però detto che quando si esce dall'acqua del bagno comune (da pochi anni, però) gli uomini si affrettano a fornirsi di un asciugamanino piuttosto rettangolare, che fanno dondolare in modo nonchalante davanti al “pendente”. Sempre per la cronaca, confrontando il passato con i modelli sopracitati, va ricordato che nelle Olimpiadi ateniesi gli atleti gareggiavano “nudi”. E le donne che venivano accolte sugli spalti (solo quelle "invitate") potevano godere lo spettacolo della "nudite". 
 
Quel privilegio toccò a Ipazia Alessandrina nel 391 dopo Cristo, quando, recatasi ad Atene, ebbe la possibilità di assistere ad una Olimpiade alla quale partecipava il fratello. Più vicini ai nostri tempi, fino agli anni Cinquanta gli esploratori che entravano nelle foreste della Amazonia e quelli che esploravano il Borneo, restavano sorpresi nel vedere che popoli/tribù indigene, soprannominati con l'aggettivo di "selvaggi" o "primitivi", indossavano il vestito di Adamo (uomini, donne, bambini).    




Borneo
Pranzo collettivo


    E allora, ci chiediamo? Perché altri popoli si coprono?   Fra le grandi scoperte degli umani ce n'è una  fondamentale. I mali possono avere accesso dagli orifizi (orecchie, naso, bocca, ano, vagina). Da qui, la difesa delle zone, che per questo venivano coperte, e comunque protette. E siccome l'uomo arcaico e primitivo aveva scoperto che il rumore (baccano) era temuto dagli ani-mali, si pensò di mettere "pendenti sonori" alle orecchie delle donne (e degli uomini?) e anche piccole aste di legno infilzate sulla bocca e nel naso. I pendenti alle orecchie, servivano per spaventare e tenere lontani i possibili mali. Solo successivamente  diventarono elementi con funzione decorativa. 

Tornando al discorso, lo stesso vale per il seno (delle donne). Nulla di male a tenerlo esposto. Ed esposto, e bene in vista lo tenevano le donne greche, che di conseguenza allattavano i loro piccoli in piena libertà davanti a tutti. Il nudo era consentito e nessuno lo associava al concetto di peccaminosa sessualità.

Gino Carbonaro