2012/11/07

Umberto Migliorisi, Poeta


Gn-Jattu Níuru 

di Umberto Migliorisi
                                                         
                                                             Gino Carbonaro


     Ho finito di leggere per la decima, dodicesima  volta il tuo libro Gn-jattu níuru di Umberto Migliorisi. Confesso. Sono rimasto colpito.

     Prima ti conoscevo  come persona, ma dopo questa lettura (molto attenta) delle sue poesie, bellissime, posso dire di conoscerlo anche come poeta, e soprattutto come uomo.

     In questo libro antologico è venuto fuori il nucleo fondante della sua personalità, il suo modo di vedere il mondo, la sua gerarchia di valori, in una parola, la sua filosofia della vita. Perché, è da questi principi che discende la sua poetica, il “che cosa è la poesia per Umberto”. Poesia, che per me è anti-poesia, perché lui, Umberto Migliorisi, è   all’opposizione, sempre, ovunque, anche in letteratura. E non ama rinnegare se stesso, la sua cultura, il suo mondo, il suo passato. Neanche quando scrive.

     Il nostro Umberto non potrebbe mai essere fra quelli che credono nella “scrittura poetica”, che danno giudizi di valore misurati alla luce di iperboli e allitterazioni, assonanze e consonanze, similitudini, metafore, metriche e enjambement, e chi più ne ha più ne metta. Figure retoriche che spesso rendono la poesia un fatto tecnico, e servono per valutare impasti versificati di concetti qualche volta poco  comprensibili anche agli addetti ai lavori. Versi che suonano,  ma il più delle volte non creano. Parole metrificate di poeti per i quali arriva come un giustiziere l’autunno della vita, che li spazza via "come foglie morte" che a fine stagione vengono disperse dal vento, e di cui nessuno si accorge. Su questi non vale la penna aggiungere altro. E lui ne canta la dipartita in una poesia: 


’A morti rê pueta assŭmiġğhia 
â caruta rê pàmmini,
ca nuđdu si n’ađduna
pueta ammunziđdati,
pàmmini caruti, scurdati …
anfilati a siccari
a-mmienz’ê fuoġğhi
ri nu libbru ca feti, 
prima ri sordi e-ppuoi
ri ciùmmu e-mmiricina.

Ed è tema che ritorna ancora in un'altra poesia inedita, dove scrive che

            Ri palori cci nn’è tanti,
            ma se ’a testa l’hai vacanti
            puoi ’nzincari quantu vuoi,
            se nun-šu-ppalori tuoi
            …
            E ’u tă fuoġğhiu arresta biancu:
            şŧrippu, asciuttu, senza sancu. 

     Analisi che è propria della poesia engagée, che fa male a chi legge, perché scuote, fa svegliare, ti mette in linea, ti costringe a guardare dentro, ti prende la coscienza e il tuo modo pigro, indolente, ipocrita, spesso disonesto di vivere, fatto di compromessi che lordano l’anima, che ti fanno illudere di vedere il bello dove c’è il falso, il luccichio, l’artificio lurido del danaro, che ti fa stampare un libro che puzza di soldi, di piombo, di medicina. Sì! medicina, quella che inghiottono i malati, per cercare di mettere un po’ di colorito sul loro pallore esangue, per riacquistare la salute che non hanno.

     Ma, è accusa che il Nostro non rivolge solo ai poeti, né a quelli che cci appojunu ’u riscursu c’ô ŧrasi e nêsci; la sua è la denunzia di chi vede dall’alto la meccanica infame di questo mondo, la spietata legge del più forte, al quale volenti o nolenti dobbiamo sotto-stare, magari mettendoci ad angolo retto, per agevolare, oleare, il rapporto con il potente. 

     Non si può accettare questo mondo di melma, questo continuo inchinarsi, piegarsi di fronte alle leggi della realtà infame, ed è piega che a lungo si trasforma in piaga. Ed è rabbia che Migliorisi registra quando scrive..

        Frati miu, cci su-bboti
quannu jittassi ’na ’uci
ca pirciassi ancucciati
çientu  auricci ażzariati
comu cożzi iapri,
ri vavaluci.

    Lo stesso mugugno del povero Giufà, ca nun s’â putiennu piġğhiari c’ô sceccu, s’â piġğhiava c’â varda. Perché, tutto il mondo conosce la “forza della forma”, la vittoria del falso sul vero, dell’artificio sul naturale; difatti,  forza e forma sono per 4/5 uguali nella parola, e simili nella sostanza. Proprio questo Migliorisi denunzia l’artificialità, la superficialità di un mondo alienato, dove non c’è spazio per il buon senso, per qualsiasi forma di onestà.
     Ora, il mio ricordo corre al quadrato di terra dimenticato nella foresta di palazzi di periferia, dove

            Sulu nta ’n-cantiđdu,
            ammucciatu rarrieri ô ma palazzu
            şt’armali (che bello!) si scurdařu  n-matarazzu
            r’erva e quaŧtro macci:
            ’n-ċiesu, ’na carrua e `đu’ ficu..
            çientu metru quadrati ’n-tuttu
            ri pararisu.

            A sira quannu şcura,
            ’i `ġğhintuzzi nt’ê `barcuna
            Supra l’uortu faňu ’a cruçi:
            Paŧr’e fiġğhiu? Runni vinni
            Şt’arrifrişcu accussì aruci?
    o chi l’ancilu passau,
    o ’u cimênto ’un-ci `bastau!?

     Bellissime considerazioni espresse in una poesia vera, incisiva. Ma, è mondo, il nostro, unni si rişparmia a caniġğhia e si sfraca ’a farina. Mondo dove tutti corrono nella corsia di sorpasso, per essere i primi, gli assoluti, i migliori, con i riflettori sempre su di loro, in primo piano: tutti colpiti da faraonìde tremens, lo stesso virus da cui erano affetti i faraoni egizi, che amavano, beati loro, stare al vertice del tutto.

     E ogni mattina, queste formiche-giganti montano sui loro "Fuoristrada", rifiutando di procedere sulla strada dei comuni mortali, e non hanno tempo per accorgersi che in una giornata di pioggia, schizzano fango sulla povera gente anonima, che ha la dabbenaggine di prendere l’autobus o di tornare a casa a piedi. Şta ggenti - caro Umberto - nun virǔnu a nuđdu.

Passa ’na machina,
nun-zi ferma.
Passa n’auŧra machina,
e nun-zi ferma.

Passa a nummiru çientu:
nun ci scropi, com’ô vientu!
’A çienteđdui: camina açiđdu.

S’â pinšassi e- `điçissi:
Passa tu, ca si a-pperi.
Ma quali cażzu, mancu ti viri.


     Mondo folle, dove c’è spazio solo per questa vita e - di riflesso - per una poesia di pazzi, alienati, fatta di immagine, di note critiche avvallanti la grandezze del poeta di turno, con il marchio che dà l’editore di moda, la carta pregiata, avoriata, e il critico, che deve essere quello che va anch’esso di moda, che possa fare da garante all’ignorante, che possa far vivere ciò che è nato morto, e però continua a schizzare il fango della indifferenza sul povero poeta appiedato.
 
     Per questo dicevamo che la poesia di Migliorisi procede contro corrente, procede “di-verso”, cioè  di "verso" contrario a come va il senso della moda e della odierna scrittura. Ma, io dico che è poesia la sua, perché nutrita di verità, di bontà, di sincerità, di sostanza; poesia che crea, fermentata dal nutrimento che viene dalla filosofia dell’esistere, perché la dinamica del poeta-vero è la dinamica di chi ha capito come va il mondo e lo documenta senza illusioni, senza falsi infingimenti, senza inganni, senza comode ipocrisie: solo così il poeta è notaio della storia.

     E la lingua? quella con la quale comunichi le verità?

Hav’a ssiri ppi forza a linqua tinta,
…a lingua ri tŏ maŧri,
chiđda ca ti fa `çhiamari
ruffianu ’u  `ruffianu,
e ’u cażzu, cażzu!

     E dalla lingua si passa a un altro degli elementi fondanti della tuo pensiero e della tua poesia: la morte lenta delle cose più care: della lingua e degli esseri viventi. Ora è 

Ta żzu Turi,
travaġğhiaturi,
ca si nni jiu
menŧri ’a musica sunava
’n-lamiemtu..

E, ar ognu passu ’n-ciuri,
e ’n-autru appriessu…

Dunque l’esclamazione! Che racchiude un giudizio di valore.

Ah! comu si scippa
e ssi jetta şta vita!
     
     Considerazioni amare, che riprendi rievocando – ed è elegia - la morte di una tua nipotina: 

 ’A prima fiġğhia ca nascìu a mma suoru
… ’na rosa, ’n-šuli, ’na luna
… na cosa ri piġğhialla a muzzucuna
… arma ’nnuccenti,
nun ċiatava quas’acciù!

E all’urtimera, nta đa facciuzza
`bianca comu ’a çira
`ci calaru all’ucciuzza ’i pinnilara.

    Poesia stupenda, dove si trova quanto di più bello c’è nella vita: il rispetto per la bellezza di un fiore che germoglia e subito muore, il silenzio che conforta la rassegnazione; la preghiera, e la certezza che questa bambina, racchiusa in sé, come un bocciolo di rosa, vivrà per sempre nel ricordo di chi l’ha amata.

     Ed è sempre il tema della morte che si registra nella veglia a una donna estinta,

Abbiata supr’ô liettu,
’na şcatǔla vacanti, …
’n-perfettu nenti ri nenti;
’na morta
ca đuoppu tanta guerra
ora va-mmancia terra.

     Amen!


E, ancora, il concetto di una veglia che aspetta l’alba di un nuovo giorno e di una nuova vita;

            Bògghia, curuzzu, súsiti,
            fai n’autru sacrifiziu
            ’na para r’uri guòriti
            r’è vivi ştu suppliziu.                                  

Principio, quello della morte e della vita, che viene ripreso  nella poesia Scampàu, quando dopo la tempesta...

             ora pari c’aġğhiorna,
            ’a ġğhenti s’arricrìa,
            accuminza a vicarìa.     


     Morte ed emarginazione dei deboli è tema che ritorna in un’altra splendida lirica: quella che canta – ed è idillio elegiaco - la fine di una pianta da appartamento, indifesa nella sua malattia, dimenticata nel suo vivere prigioniera in un ambiente non suo, straniera in un mondo estraneo, strumento di una società che la pone in un angolo di stanza per dimenticarla, e poi relegarla in un angolo di balcone, all’acqua e ô vientu,  nell’attesa di una morte naturale: 

Nta ’n’agnuni ri ’na cámmira,
sa ppi-quali malađdia,
quarchi pammina pinnìa ..
quarchi rárica niscìa …
e ogni ġğhiuornu ca passava
’u żuccu cci abbuccava...
Ma, tinìa ancora a-đdritta,
nun-murìa.

E dalla descrizione al dialogo: 

Maccia ca nun-muori e-suffrisci,
ca nun šienti, ma capisci…
nta ştu munnu mbarbarutu,
mişchinu cu è malatu...
 
  Insensibilità di una umanità distratta, indifferente al dolore degli altri. Solitudine ontologica - mi si lasci usare il termine - e, infine, la morte. Sono i concetti fondanti della filosofia della vita, e di riflesso, della poesia di Migliorisi. Ma, sono anche i concetti portanti - si è detto - della natura e dell’universo, rilevabili ancora in una estate che finisce.

  Senza scrusciu né prummissu
  - comu ’a vita, ’u ştissu -
               Accurżarunu ’i jurnati.

  E ştu suli ca ni çianci
 ’a ştissa luçi ca lassa
  eni ’a morti ca passa,
         ’a morti râ ştati.

   Bellissimo, verissimo. Ed è l’ombra della tragedia greca che aleggia su di noi, e sulla questa poesia.
 
    Si conferma così che la poesia non ha confini, e non è legata alla moda, al consueto, al trito e al risaputo. Il poeta osserva il mondo, coglie il respiro delle cose, ausculta il suo animo, e scrive quello che vorrebbe dire, anzi, gridare al mondo. E denunzia con pacata amarezza e rassegnazione, quello che va denunziato: la superficialità e la insensibilità degli uomini, le assurdità della vita, la ipocrisia, la falsa amicizia (simu amiçi… rô barconi) e gli egoismi, le convenzioni, le vanità, le ingiustizie (i cacarinari) la fatuità dei sogni e delle speranze; in una parola il mondo per quello che è, e non come lo sognano i poeti dell’Arcadia.

     Se questa è poesia, è certamente - ritorno al concetto -una anti-lirica. Se la lirica classica è fatta di eleganti consonanze di parole scelte nel vocabolario del lessico pulito ed elegante, quello dei professori e dei poeti con la “P” maiuscola, dei perbenisti, dei formalisti, Migliorisi usa la lingua dei poveri, mai abbellita, mai assonante; la sua è la lingua perdente, morente; la lingua che non interessa nessuno, che nessuno ha più il tempo di ascoltare o di parlare; quella che stiamo dimenticando anche se di tanto in tanto andiamo a visitarla nel cimitero dei ricordi e dalla quale tutti, prendiamo elegantemente le distanze. Vedi, anche io rifiuto di scrivere nella mia lingua. Forse perché ci ricorda il nostro passato di fame, di miseria e di freddo, forse perché ci è comodo stare con i più, con i forti; forse perché anche la lingua è soggetta al principio della nascita e della morte, costretta a soccombere nel confronto con i forti e bisogna accettarne la fine.

     Queste sono solo alcune delle considerazioni, che discendono dalla lettura del libro. Perché, questa sua lingua siciliana è recupero della essenza, e rifiuto della forma facile, caramellata e ben confezionata della lingua italiana. Il siciliano, è per Migliorisi uno strumento antico, forte, molto spesso sgraziato, che però è un tutt'uno con la carne, la materia e la vita di chi nei secoli ha conosciuto la sofferenza e la vicarìa della sopravvivenza. Il siciliano come lingua è per Umberto Migliorisi come il pane di grano duro, forte ai denti e al gusto, sano e nutriente. Ma è pane che non conosce la concorrenza, che non si è mai incontrato nel forno con pane che conosce  ammorbidenti e conservanti.  

      In questa forma e nell’uso di questa lingua c’è il rifiuto della grazia, della eleganza e della raffinatezza, dimostrando con ciò che Migliorisi è quello che è, senza orpelli, né ori falsi.

     Il suo punto di vista? Non si vende a nessuno. Compromessi con la poesia colta? Impensabili. Temi poetici surrogati? Non se ne parla. Migliorisi fotografa, descrive e blocca il suo mondo. La sua poesia? E' un dialogo-monologante fatto con un interlocutore invisibile e assente, perché, è veramente l’assenza, l’essenza maligna di tutte le cose: il nulla che è tutto.
 
    Ora, il dilemma si fa cornuto: il mondo è quello che Migliorisi descrivi; ed è imperativo categorico che chi legge deve recepire, perché in caso contrario, o sî ttu ca sî n’àutru, o sî tu ca fai finta! E se sei un altro, scusami. Ma, se fai finta, sei ipocrita.

       Ora mi si potrebbe chiedere, qual è la poesia che mi piace? Risposta: Salì-Salò!

    Đa rubata ri lattuchi…
            đu mulinu ca furriava…
            đ’acqua limpia ri surgiva…
            đi papaređdi ca sbattieunu l’ali,
            đi lavanneri che cosci i fora…
            đu quarcunu ca taliava..
            e.. ssa minava!
            đu stuzzuniari i cula e laurunci…
             
     Tuttu nta ’na salata ri scola! Sono immagini immortali di un documento di storia minore, ma eterna, che descrive i fatti e pure il profumo dell’aria e dell’anima di ragazzi di periferia: storia vera e dalla bellezza indescrivibile; vita che nella trasgressione di un giorno conosce la libertà, il contatto con la natura e con la verità.

     Cosa penso di te, mio caro Umberto? Tu mi fai pensare a Raffaele Poidomani e al suo Carrube e Cavalieri. Quando lo lessi, cinquant’anni fa - avevo poco più di quindici anni - dissi a me stesso: questo libro è un capolavoro, questo Poidomani è un grande scrittore. Consèntimi. L’uomo del Fuori-strada, troppo impegnato a guardarsi allo specchio e a farsi guardare, non ha avuto ancora il tempo per accorgersi della sua esistenza, e ora della tua esistenza: non ti fa passare. Tu vai a piedi. È lui, forse, che potrebbe farti morire come `đa maccia ri `billimientu.  Tu, come Raffaele Poidomani, hai dato un contributo vero, sano alla cultura. Hai raccontato una parte di noi, della tua Ragusa, della nostra Sicilia. Un poeta che si aggiunge al numero dei grandi, anche se saremo in pochi a darti il giusto e meritato riconoscimento: un Premio Vann’Antò, perlomeno, perché solo lì qualcunoo si fa ancora carico di leggere poesie nella lingua tinta.

     Ma tu, caro Umberto, devi essere felice, perché da oggi, il tuo libro è anche nello scaffale speciale della mia biblioteca, proprio accanto ai libri che mi stanno più a cuore.

     Anche io, mi tengo alla larga da tutto, e cerco di non attraversare la strada per non farmi investire. Per questo, isolato nel mio eremo di campagna posso parlare alle cornacchie e dire (N-parmu sutta ’a luna) ca ’u pani si chiama pani e ’u cażzu nun si chiama peni, pirchì...

’I peni sunu sulu chiđdi
ri şta vita bbuttana”
   
       Con stima vera, sincera, ammirato e felice per te.

                                                                     Gino Carbonaro
  
gino.carbonaro.italy@gmail.com