2012/03/26

Artigiano o Arti-genio?


 C'era una volta l'artigiano 

                                                            di Gino Carbonaro

Chi visita il Castello di Donnafugata, qui negli Iblei, rimane stupito dalla bellezza di quanto vi si trova esposto: candelabri di cristallo, mobili d’arte, armature, strumenti musicali. E il pensiero corre alle dinastie nobiliari che hanno arredato quel fortilizio di campagna, senza contare che quanto si trova lì realizzato è risultato della genialità di anonimi artigiani.

Sono gli artigiani  che da sempre hanno custodito il patrimonio di scoperte fatte dall’uomo nel corso dei millenni; coloro che avevano capacità creativa e abilità per realizzarle.

Oggi, di questi arti-giani, o arti-geni, per scomodare le etimologie, si è perduta la memoria. Dimentichiamo che Leonardo da Vinci, genio assoluto dell’umanità,  si è formato in una bottega artigiana, quella di Andrea del Verrocchio, vera fucina di idee, dove si scolpivano e si fondevano statue, si realizzavano pale e quadri di altare. Lì, con la forza della mente e l’abilità delle mani si risolvevano tutti i problemi di una committenza esigente. Ma, artigiano era ancora Benvenuto Cellini, orafo e scultore, che fuse, con le sue mani e nella sua bottega, il Pérseo. E botteghe artigiane erano quelle dei ceramisti e vasai greci, dei decoratori di vasi che oggi sono vanto e patrimonio dell’umanità, fra le cose più belle che siano mai state realizzate dall’uomo.

Più vicini ai nostri tempi, il pensiero va al carro siciliano, struttura sulla quale riposa una millenaria esperienza artigianale; si pensi alla bellezza dei ferri battuti a mano, alle sculture, torniture, decorazioni, all’arte del mastro carradore.   
  
Oggi l’artigianato è scomparso. Di quella memoria sono rimasti i reperti, sorta di cadaveri che noi mummifichiamo nei musei. Difatti, l’anima di quel reperto è volata via; non c’è più, né può essere riportata in vita. Ma la società odierna dovrebbe riconoscere i meriti dell’artigiano, che dalla notte dei tempi ha rappresentato intelligenza e memoria dell’umanità. Si potrebbe pensare di dedicargli una statua, almeno, così come si è fatto per il milite ignoto, morto in battaglia per la gloria di generali e sovrani.

I Giapponesi hanno avvertito quello che stavano perdendo, hanno inventariato gli ultimi artigiani viventi, li hanno considerati beni dell’umanità, custodi della memoria collettiva che non può essere conservata nei libri o nei musei, e li hanno insigniti del titolo di Tesori viventi. Il loro compito è ora quello di lavorare per creare un ponte fra passato e futuro, per insegnare l’arte e i suoi segreti a degli apprendisti, che a loro volta la tramanderanno ad altri. Un passato che vive. Un debito di riconoscenza che quel popolo sente di avere nei confronti dell’artigiano.   

                                                             Gino Carbonaro


Il mulo Totò Storia di animali e di uomini


La storia del Mulu Totò 
e del suo padrone Tanuzzu, 
accaduta a Niscemi qualche anno fa, rappresenta un documento 
di archeologia culturale 
giunto sino a noi dalla notte dei tempi

                                                     di Gino Carbonaro 
 
     Nella Sicilia di qualche tempo fa, l’asino, il mulo rappresentavano la ricchezza di una famiglia.
     Da sempre, fedeli compagni dell’uomo, questi animali venivano adibiti nei lavori più pesanti ed ingrati: dai carrettieri per il trasporto di merci e derrate; dai contadini come animali da soma e per arare i campi; nei frantoi per girare le macine.
     Chi scrive, ricorda quando, decenni fa, al tramonto, i sagrati di alcune chiese si riempivano lentamente di carri che tornavano dalla campagna, e venivano sistemati gli uni accanto agli altri in bell’ordine, con le aste in aria, mentre gli animali venivano avviati nelle stalle, che solitamente si trovavano all’interno delle piccole case dei contadini.
     Sino a non molti decenni fa, stalla e camera da letto dei nostri contadini erano sotto lo stesso tetto, separati appena da una tenda o da un tramezzo di canne e gesso. Animali e uomini, gli uni accanto agli altri.
     Questa era la norma. Il modello, arcaico, risaliva alla notte dei tempi. Si pensi all’ovile di Polifemo descritto nella Odissea di Omero. La sera il gregge era accolto all’interno della grotta, al riparo da lupi e malintenzionati, guardato a vista dal legittimo proprietario. Lo stesso fanno tuttora i pastori sardi introducendo le pecore pregne o malate e gli agnellini all’interno del nuraghe, e lì passano insieme la notte.    
     Se Gesù, come si racconta, è nato in una mangiatoia, è  segno che per Giuseppe e Maria era naturale alloggiare in una grotta, accanto a questi preziosi amici dell’uomo.  
     In passato, gli animali che vivevano in paese erano numerosi: animali da lavoro, soprattutto, ma c’erano anche le mucche dei venditori di latte, le greggi che a notte, tornavano negli ovili di paese, qualche maiale con la sua figliolanza, e conigli posti dove c’era spazio, e galline, che di giorno sostavano nelle gabbie davanti le porte di casa, ma di notte venivano introdotte in casa; e ancora gli immancabili cani, gatti, topi e chi più ne ha più ne metta.
     La differenza fra ieri e oggi? Tanta e nessuna. Oggi, l’inquinamento è rappresentato dall’ossido di carbonio che rende l’aria irrespirabile e fortemente tossica; ieri l’inconveniente era rappresentato dalle tonnellate di escrementi, che gli animali disseminavano per le strade e che la gente povera raccoglieva per concimare gli orticelli. Un antico proverbio siciliano recitava: “L’acqua è oru. A merda è trisoru!” L’acqua è come l’oro, ma il letame  è tris-oro, vale cioè tre volte più dell’oro.
     Era ricchezza, insomma, non deodorata. Ma, nei tempi antichi, uomini, animali e cose venivano identificati dagli odori. Il fiore odorava da fiore, il mulo da mulo, gli uomini da uomini. Odori che cambiavano da persona a persona ed erano tanto più marcati in quanto l’acqua si attingeva alla fonte o nelle pubbliche fontane, e in casa non c’era acqua per uso igienico, né esistevano fognature. Nessuno aveva gabinetto e sciacquone, doccia e bagno per limitare le esalazioni personali; e, quanto era rifiutato dallo stomaco durante le ventiquattro ore, veniva raccolto da carri “strafitenti” addetti alla bisogna. Forme di civiltà primitiva, ed espressione di una fognatura mobile.
     Ed era odore di santità, quello dei monaci, e delle monache, soprattutto, cui era proibito toccare acqua e parti del corpo impure, proprio per un principio di castità. Il sapone, si diceva, era invenzione di Satana.
     E, se i paesi erano di necessità costituiti da una sommatoria di case-stalle, è chiaro che l’atmosfera all’interno dei nuclei abitati era pesante. 
     Dagli odori, che raggiungevano ad ogni piè sospinto le papille olfattive degli abitanti, si salvavano i ricchi che vivevano i piani nobili dei loro palazzi, e potevano usufruire delle brezze che visitavano le loro camere e provvedevano al ricambio dell’aria.
     Con l’arrivo dell’estate, però, esalazioni delle concimaie cittadine e mosche aumentavano in maniera esponenziale; per questo i benestanti si trasferivano in campagna, per respirare un po’ di “aria fina”, si diceva proprio così, per distinguerla dall’aria grassa di paese.
     Sono cose che fanno parte della nostra storia recente e che non vanno dimenticate.
  
Il mulo Totò e il suo padrone Tanuzzu   

      Il mulo Totò di Niscemi e il suo padrone Tanu (o Tanuzzu) protagonisti del poemetto di Tanino Preti, rappresentano un reperto di archeologia culturale giunto sino a noi dalla notte dei tempi.
     Tanuzzu, seguendo il modello paterno e quello trasmesso dalla tradizione, accoglie tuttora il mulo all’interno della sua casetta; d’altro canto la stalla è stata lì da sempre, a memoria d’uomo, così gliel’aveva lasciata il padre in eredità.
     Ma l’animale Totò, una volta fedele compagno di lavoro del vecchio ottantenne, ora è solo animale di compagnia, fratello di sofferenze del suo vecchio padrone. Ed è a lui, al suo amico animale, che Tanuzzu chiede conforto alla sua solitudine, ed è con lui che parla il linguaggio universale dell’amore. Idillio, che può essere ritenuto assurdo agli occhi di chi non ama gli animali, ma è evento che si registra ovunque una persona tiene in casa un animale verso cui rivolge le sue cure.

La civiltà e il tempo

     Ma, il tempo passa, tutto cambia (πάντα ρέι) e la civiltà avanza. Così, quell’anonimo abituro (quello dove vive Taninu col suo mulo) che ancora qualche decennio fa era situato appena fuori dell’abitato di Niscemi, viene raggiunto, prima, conglobato subito dopo dalla massa di conglomerato cementizio, figlio della ricchezza, del progresso e di una nuova logica del vivere.
     Quello che per millenni era stato un fatto naturale, la convivenza dell’uomo con l’animale, sotto lo stesso tetto, immediatamente diventa un avvenimento non più logico, non più accettabile.
      I nuovi vicini di casa di Tanuzzu, in buona sostanza le persone civili, non possono sopportare gli odori che esalano da quel tugurio immondo, dove le bestie convivono con gli animali, e denunziano il responsabile alle Autorità Sanitarie, che, accertati i fatti, multano il colpevole.
     Motivazione. Il mulo puzza e la puzza al naso disturba i vicini di casa.
     Il Sindaco di Niscemi, fatto partecipe della delicata questione, decreta che il Mulu Totò potrà svernare (’ntà mmirnata) nella sua stalla, accanto al suo padrone, ma transumerà in campagna, e alloggerà fuori dell’abitato, nei sei mesi estivi (’nta staçiuni), non appena i terreni schiumano le prime erbe e arrivano i primi calori.
     Ed è sentenza salomonica, che discende da un diritto che Tanuzzu ha acquisito per usu capione, tenuto conto che non è stato lui ad andare verso il paese civile, ma il progresso a farsi suo vicino di casa.
    Scontro di civiltà, dunque, fra passato e presente, fra persone per bene che pensano molto bene al loro bene, e un uomo povero, indifeso, e inascoltato nelle sue umane ragioni.

    Tanuzzu da Niscemi, defensor bestiae, convinto della sua innocenza, disorientato, non riesce a capire perché l’umanità niscemese si ostina a rendere il suo mulo orfano del suo padre e amico, colpendo entrambi di un dolore che non è proporzionato al danno che essi possono arrecare ai loro vicini di casa; né riesce a capire perché le amministrazioni cercano di fare un problema di un falso problema, distogliendo l’attenzione dai veri problemi.

Un monumento al Mulu Totò 
(e al suo padrone)

     A questo punto, l’imprevisto. Una parte della cittadinanza si ribella al decreto del Sindaco, e si attiva per far costruire un monumento al mulu Totò e al suo compagno; perché è giusto tramandare ai posteri una pagina della nostra storia passata: riconoscimento al Mulo e indirettamente a tutti gli animali da soma, che hanno aiutato l’uomo nella strada del progresso, anche se alla fine sono stati costretti ad abbandonarlo davanti alla porta che lascia entrare solo le bestie, ma non gli animali.
     In parole povere, è come se in Egitto qualcuno avesse deciso di elevare un monumento alla memoria non solo del Faraone, ma anche a quelle migliaia di schiavi che hanno costruito materialmente le piramidi: il merito è anche loro. Così per gli animali.
     E la casa con stalla di Tanuzzu? È anch’essa un reperto di antropologia culturale che va salvato dalle insidie dei folli e conservato come parte del nostro passato, che tutti vorremmo dimenticare e di cui nessuno cerca di parlare.
     Ci auguriamo che tanto venga fatto.

Gli ultimi cantastorie

     Tanino Preti, musicanti bonu, ma soprattutto uomo di vera cultura e ultimo dei cantastorie, sensibile e baciato dalla musa della poesia, sente lo stridore di questo mondo che ritiene di conoscere la verità e di gestire la giustizia, mentre costruisce attorno all’uomo un inestricabile labirinto di leggi, dalle quali pochi riescono a districarsi.
     E canta, non la storia di un mulo, come dice il titolo, ma la storia eterna di una umanità che spesso perde di vista le coordinate della vita e la luce della Stella Polare.
     In questo poemetto di 55 strofe, che segue lo schema della canzuna siciliana, Tanino Preti racconta a se stesso e agli altri, quanto è accaduto a Niscemi, rivolgendosi a qualcuno disposto ad ascoltarlo, e che gli possa spiegare perché non si devono amare gli animali? E, quale male può aver fatto un uomo, che ha scelto come compagno della sua vecchiaia un mulo? Rilevando che Gesù amava gli uccellini dei campi, S. Francesco ammansiva i lupi, e tutti sappiamo che la natura è creatura di Dio e pertanto bisogna proteggerla e preservarla.
     E allora? – si chiede Tanino Preti - perché c’è gente che provoca incendi e incenerisce i boschi, perché ci sono persone che praticando la caccia terrorizzano e uccidono creature di Dio? 
     Anche lui, Tanino Preti, come il protagonista della sua storia, non capisce il mondo in cui vive, e si ostina a convivere con i suoi valori, con i convincimenti, quelli che tengono conto, che gli animali sono nostri fratelli e vanno amati e curati, se necessario. E se un uomo aiuta un animale che ha bisogno, è segno che lui è la mano di Dio.
     Questo canta l’ultimo dei cantastorie, quasi vox clamans in deserto, ora che la civiltà ha capovolto la gerarchia dei valori sociali.


Il mulu Totò e la Baronessa di Carini    

     In buona sostanza, il principio colto da Tanino Preti è lo stesso che gli antichi cantastorie rilevarono nella baronessa di Carini. In quel tempo, la cultura vigente condannava a morte la donna, che aveva tradito il marito. Poco importava che si trattasse di un uomo storpio, gobbo, vecchio e cattivo, e che avesse preso in moglie una donna giovane e bella, che non aveva scelto di sposarlo.
     La legge del più forte, che allora era quella del maschio, giustificava la morte cruenta della baronessa di Carini per mano del proprio stesso padre. 
    Il cantastorie di una volta, aveva sentito l’assurdo in ciò che la cultura dell’epoca giustificava, e denunzia il fatto davanti a un nuovo tribunale, quello del popolo, offrendo a tutti una nuova versione dei fatti; quella che reclamerà i diritti dell’amore, e renderà eroina colei che la legge e la giustizia avevano condannata.  
     Così per il mulo Totò e per Tanuzzu, la legge moderna segna con il bisturi i confini fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra chi ha ragione e chi ha torto. Tutto può sembrare logico e giusto, ma il nostro cantastorie non accetta la versione ufficiale dei fatti e passa all’opposizione, denunziando alla società le incongruenze di quella sentenza e le assurdità di questo mondo.

Cuntu e cantu

     Un antico modo di dire siciliano recitava: “Nun cantu e nun cuntu”, per significare che una persona non aveva voce in capitolo, che non valeva niente. Al contrario, era molto importante, per tutti, colui che nei tempi antichi cuntava e cantava,  cioè, il Cantastorie, una sorta di cantautore che componeva, cantava, recitava passi di storia minore.
     Come gli antichi aedi di greca memoria, il cantastorie rappresentava l’anima popolare, colui che custodiva e consegnava ai posteri l’épos di un popolo.
     Chi scrive ricorda ancora Ciccio Busacca, Turiddu Bella, personaggi passati oggi alla storia delle tradizioni siciliane. Arrivavano di domenica mattina sulla piazza più importante del paese, montavano il palchetto, molto spesso utilizzando il portabagagli della loro Seicento; esponevano  il telone con i riquadri sul quale era dipinta la storia che avrebbero dovuto raccontare e cominciavano ad arringare la folla accompagnando il canto, crudo ma bellissimo, con la chitarra.
     Erano loro, i cantastorie siciliani, che portavano nei paesi, l’eco dei grandi personaggi e degli eventi che il mito aveva consegnato alla storia.
     Ma, cuntu e cantu nascevano insieme. Difatti, cuntu è la parola-che-è-concetto “sonoro”, nel senso che si veicola nell’aria per giungere alle orecchie dell’ascoltatore;  il canto utilizza anch’esso il suono che è modulato in melopea: dunque suono-concetto, il primo, suono-melodia il secondo.     
      Tanino Preti, poeta per elezione, musicista per nascita, intellettuale onesto, che conosce la poesia  del grande poeta niscemese, Mario Gori, coglie al volo un evento misinterpretato della nostra tradizione: la storia di Tanuzzu  e del suo mulo, e ne fa una storia cantata, che si fa subito poesia. Storia, si è detto, che parte dalla realtà del fatto, ma si trasforma subito in evento metastorico che diventa favola e si fa mito; delicatezza di un racconto che trasporta il vissuto in una atmosfera surreale. Certamente, ci sono in essa forti pennellate di costume, vedi il carrettu cu la vutti prontu a ’nsaccari sicchia strafitenti, ma si tratta di eventi che il nostro cantastorie recupera dalla memoria e che la stessa dissolve.     
                                                    Gino Carbonaro

             
    

2012/03/21

Argilla & Terracotta Grandi Scoperte dell'Umanita'


Argilla & Terracotta
           Grandi scoperte dell’Umanità
   
Il cammino dell’uomo su questa terra è costituito da una catena ininterrotta di scoperte. Ogni nuova scoperta è servita
  • ad allontanare l’uomo dallo stato di natura, che lo poneva sullo stesso livello degli altri animali. Ogni scoperta è servita per
  • migliorare la qualità della sua vita.
Fra le grandi scoperte dell’umanità, c’è il fuoco che è servito all’uomo arcaico





1. Uomini trogloditici nell’atto di accendere il fuoco

  • per riscaldarsi         
  • avere luce di notte,  
  • cucinare cibi,
  • tenere lontani gli animali
  • fondere metalli.


Agricoltura, rivoluzionaria scoperta dell’uomo.

    Dopo il fuoco, l’agricoltura è un’altra grande scoperta dell’umanità, e nasce quando l’uomo scopre che la riproduzione delle specie dipende da un seme che può essere messo a dimora nella terra.  


2. Semi di vita


   Quando l’uomo scopre che può gestire la riproduzione di un cereale (orzo, farro) e scopre ancora che viti e ulivi e altre piante possono essere implementati, allora  nasce l’agricoltura.           
                                     3.  Uomo arcaico con aratro


Con la scoperta dell’agricoltura l’uomo rivoluziona il suo modo di vivere.
   
   Prima di questa scoperta, l’uomo viveva di quanto offriva spontaneamente la natura: erbe, radici, frutti, miele, caccia.


4. Uomini primitivi che cacciano  

    Ma, in questa ricerca quotidiana delle fonti di sopravvivenza l’uomo era costretto a muoversi, a cercare, a camminare.
    Invece, quando  l’uomo impara a dissodare la terra, quando l’uomo mette a dimora dei semi, allora è costretto a fermarsi,  
  • per proteggere i germogli,
  • per aspettare il tempo del raccolto,
  • per difendere il frutto del suo duro lavoro,
          ma soprattutto perché
  • non può trasportare i frutti del raccolto.
   Frumento, orzo, vino, olio hanno bisogno di essere conservati e protetti, dunque necessitano  di  contenitori                
5. Giare/contenitori, da culture e tempi diversi

   Ed è in soccorso dell’agricoltura che arriva benefica la scoperta dell’argilla e successivamente quella della terracotta.
         La prima creatura dell’argilla fu probabilmente una statuina  in forma umana, forse una donna dal grande sedere ad indicare il bisogno di abbondanza di mezzi di sopravvivenza.


6. Divinità femminile in argilla
   
La statuina fittile è servita all’uomo primitivo per avere l’illusione di una protezione da parte di una entità potente, dotata di potere magico. Ma l’argilla (attenzione) dovette pure sembrare una sostanza magica, se poteva essere modellata e modificata per prendere l’idea che l’uomo aveva nelle mente.
   Difatti, se ciò che è nella mente dell’uomo viene fuori, e da idea si può materializzare, grazie all’argilla, questo fatto, per l’uomo primitivo è certamente magico. Difatti, chi ancora oggi modella l’argilla,il ceramista,  è considerato un creatore.
   
  Sempre dalla argilla impastata con acqua verrà modellata la prima ciotola, che messa accanto al fuoco si asciuga, si indurisce, diventa ancora più capace di contenere un liquido, agevola una delle funzioni dell’uomo.



7. Ciotola greca

       La ciotola! Questo elemento semplice, ma importantissimo che ancora oggi è amato dai ceramisti. Ed era altresì amato dai ceramisti greci che solevano dire agli allievi: “Impara a far ciotola! Poi andrai avanti”
      Dopo la ciotola sarà il momento dei recipienti di acqua, poi della giara dalla forma ispirata dal guscio resistentissimo dell’'uovo




8. Giara nella forma di uovo

maestosa, quasi madre che custodisce nel suo utero, il frutto che è vita: vino, olio, acqua, cereali che vengono difesi dall’attacco dei topi, antichi nemici dell’uomo. Perché la terracotta non è solo un contenitore, ma è altresì una struttura che difende il prodotto. E poi ancora, lucerne, pentole, mattoni per la costruzione di case, tegole, sarcofagi

9. Sarcofago etrusco in terracotta

Villaggi di argilla

I villaggi che si formeranno lentamente presentano sempre l’uso dell’argilla, di questa pasta duttile, che prende la forma che l’uomo desidera. Si ha l’impressione che senza l’argilla e i prodotti da lei derivati, l’agricoltura non avrebbe potuto avere il progresso che ha avuto.
    

10. Villaggi con case in argilla (Africa sahariana)

   Comunque, l’uomo che fonda la sua economia sulla agricoltura è costretto a aggregarsi con altri uomini. E’ l’agricoltura che fa nascere le società. Difatti, gli uomini che vivono insieme hanno bisogno di leggi, che devono essere fissate su un supporto: su una pietra, su un quadrato di pelle, o anche su una tavoletta di argilla.
        
11. Mosè sul Monte Sinai con i Dieci Comandamenti

Le prime leggi, che conosciamo sono quelle che Dio consegnò a Mosè sul Monte Sinai
ed erano scolpite su tavole di pietra. Si tratta dei Dieci Comandamenti. E per molto tempo la scrittura ebbe come supporto la pietra, ma . Ma non tutti sappiamo che il lavoro per preparare la pietra e scolpirla era, ed è tuttora,  molto faticoso.
       Le altre leggi, che conosciamo furono dettate dal re assiro Hammurabi, 1700 anni prima di Cristo. Ma, ora le leggi furono stilate/scritte su argilla morbida,


12. Scrittura cuneiforme assiro-babilonese su tavolette di argilla  

dove, per scrivere bastava fare uso di un semplice listello di canna affilata, che sostituisce il necessario scalpello della pietra.
         L’uso di tavolette di argilla dimostra quale è stato il salto in avanti della civiltà. La scoperta dell’argilla come supporto per scrivere, può essere paragonata per i tempi alla scoperta dell’odierno computer. Si pensi al tempo risparmiato dagli scribi per vergare la scrittura. Stirare un foglio di argilla era forse più semplice che fare oggi un foglio di carta.
           Su tavolette di argilla furono scritti velocemente importantissimi libri di sapienza antica, giunti fino a noi, e furono stilati atti notarili e passaggi di proprietà, ma i cretai non costruivano solo tavolette corrispondenti alle pagine di un nostro quaderno, ma costruivano tutto quanto poteva servire all’uomo: lucerne, sedie, mattoni per edificare case e pavimenti, tegole per le coperture delle case, vasi di ogni genere, piatti, scodelle, e così via.

13. Manufatti in terracotta di origine e culture diverse
e lontani fra di loro nel tempo e nello spazio
                           
Mille usi dell’argilla.

       Oggi sappiamo che tutte le civiltà hanno conosciuto una “Era della argilla-cotta” (terracotta) dalla quale ancora oggi non siamo ancora usciti, malgrado la scoperta della plastica.
  • ll Giappone e i popoli dell’Africa Sahariana fecero uso di manufatti di argilla già 14 mila anni prima di Cristo.
  • Cina, Egitto, popoli Maya e Aztechi hanno conosciuto l’uso dell’argilla da tempi antichissimi con funzioni diverse.  

  Ma, va ricordato come utile curiosità che


14. La Grande Muraglia Cinese

            La Grande Muraglia Cinese costruita per volere del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, lunga 8852 km, larga e alta oltre dieci metri, è interamente costruita con mattoni di terracotta. una muraglia che per i tempi fu cotruita in tempo record proprio perché furono usati grandi mattoni di terracotta.
       E va ancora ricordato che lo stesso imperatore Qin Shi Huang fu ancora colui che ordinò di costruire un intero esercito di soldati, statue ad altezza d’uomo, e cavalli che avrebbero dovuto proteggerlo nell’altra vita (afterlife).

    
15. Esercito di guerrieri in terracotta                                      
(China 2° sec. B.C.)

Ma, statue e cavalli, forse diecimila esemplari, sono tutte in terracotta.  Ancora in terracotta sono molti bassorilievi assiro-babilonesi (a parte l’alabastro), e di terracotta furono molti dei teatri romani, per esempio quello di Taormina in Sicilia  


16. Teatro greco- romano di Taormina
  
Ma, va ricordata ancora la immensa produzione di vasi e giare della civiltà egeo-cretese


17. Giare egeo-cretesi

vasi  di quella greca, maltese castellucciana


18. Sculture maltesi in terracotta






che si è sviluppata nella parte meridionale della Sicilia, migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci, civiltà che non conosciuta dai Greci che in Sicilia approdarono cinque secoli prima di Cristo.

      Per l’uomo arcaico e primitivo, ma forse anche per un ceramista di oggi, l’argilla sembra possedere  qualcosa di magico, di sublime. Il rapporto che l’uomo ha con l’argilla non è lo stesso che l’uomo ha con la pietra. Per modificare la pietra, lo scultore è costretto a usare la forza: martello, scalpello, oggetti di ferro. Il rapporto uomo-pietra è una guerra.
  Invece, il rapporto che l’uomo ha con l’argilla è un atto di amore, dolce, certamente sensuale, fatto con le mani, direttamente, senza intermediari. L’argilla simula la parte migliore della vita. La possibilità di plasmare con dolcezza, con amore, dove ciò che è dentro di noi può venir fuori, vedere la luce, materializzarsi, prendere corpo e farsi vita: la vita di una idea.


19. Mani di ceramista al tornio
       
       Di tutti i materiali esistenti, l’argilla è quella che si ama di più. Si può capire per questo, perché Dio abbia scelto l’argilla, ( la “Terra dei vasai - kéramaiòs”). per creare Adamo ed Eva. Dio, dapprima modella la sua creatura, poi gli dà il soffio della vita e si fa creatura.


20. Dio crea Adamo ed Eva

Ogni ceramista, rivive forse il momento di una creazione divina ogni qual volta plasma, modella l’argilla, questa materia sconosciuta, ma da tempi antichissimi usata anche per le sue qualità farmacologiche, e oggi largamente adottata dalla medicina omeopatica.
                                                                                                           
Gino Carbonaro


2012/03/18

"Corna, Cornuto" nella Sicilia di una volta



21.  ’I corna su’ comǚ a li đenti … 
                fanu mali a lu şpuntari
                       ma poi servuno pri manciari

Turiddu ha capito che la moglie lo tradisce. Da ciò 
discende che lui è cornuto. Per convincersi che lui, Turiddu, il maschio, non può essere cornuto, sviluppa un ragionamento qui sotto riportato ed estrapolato dal 21° e 22° cap. de "La Donna nei Proverbi Siciliani" 
                  
                                             di  Gino Carbonaro

La cosa più grave era il non potersi sfogare con nessuno, il non poter avere quella prova tangibile che lo liberasse dallo stato di angoscia che gli procurava il dubbio, l’incertezza! E non era possibile neppure fare delle scenate, dimostrare di essere geloso, perché in questo caso era come darsi la zappa sui piedi! Difatti si sa che

Cu è`gilusu è `beccu! e
    Lu maritu`gilusu mori curnùtu!

   Ma, è a questo punto, che Turiđdu riceve l’illuminazione! Si alza di scatto e decide! decide di continuare a comportarsi come prima, come se niente fosse: fare finta di niente, ma in effetti stare “alle viste”, controllare l’entrata e l’uscita della porta di casa per poterla soprendere “in fallo” con l’amico “di-letto”!

   Ma…! mentre sta definendo i particolari del suo diabolico stratagemma, sente uno strano prurito sul lobo destro della fronte, un po’ in alto, proprio là dove cominciano i capelli, e subito dopo sulla parte sinistra: due punti diversi della fronte epperò fortemente simmetrici. E, cosa non meno strana, questo prurito si stava verificando lontano dai pasti, il che lo faceva insospettire non poco, perché sapeva di certo che…

A lu curnutu quannu nun mancia
`ci mancianu li corna!

   Ma, per la verità, Turiđdu non riuscì a concentrarsi troppo su queste considerazioni, perché un male sordo, ma alquanto intenso cominciò a farsi sentire là dove prima era solo prurito. Il male, che era un incrocio fra il mal di testa e il mal di denti, e che si infittiva sempre di più, gli consigliò di fare ritorno a casa. Ancora una volta, a confortarlo fu il Proverbio, più che gli impacchi di lino bollente, ’i catabrasimi đi linusa , che la buona Concettina gli poggiava sulla parte dolente,

Li corna su’ comu li đenti
faňu mali  a lu şpuntari!
ma poi servunu`pi manciari!

  Si trattava, di un male scomodo, sì, ma passeggero, e pertanto la cosa in sé non destava alcuna preoccupazione.
  Il giorno dopo, difatti, levatosi di buon mattino, Turiđdu si sentì più disteso, più ristorato. E guardatosi allo specchio, ripetè, a bassa voce per non far svegliare la moglie:

Lu`re nun`fa`corna!

Li corna đi la soru … su’ `corna đ’oru!

Li corna đi la mamma… su`đi canna!

Li corna đi li parenti …nun šu’ `nenti!
Li corna di la muġğheri su’ corna veri …
            e`faňu piġğhiari lu fríđdu e la frevi!

   E fu proprio a questo punto che Turiđdu tornò a sentire un brivido gelido, che partito, sempre dall’álluce del piede sinistro, gli congelò ancora il midollo spinale facendogli irrigidire tutti i muscoli. “Che fosse l’effetto di quell’acqua ghiacciata di quell’autunno precoce?” pensò fra sé Turiđdu.

   Adesso il nostro candidato al concorso per merito distinto pensa che forse sta esagerando. E mentre cerca di minimizzare i fatti, sempre guardandosi allo specchio, sviluppa tutta una serie di ragionamenti serrati ed inesorabili nella loro consequenzialità, per montare una catena logica di tipo deduttivo, del tutto simile a quella usata nella sillogistica aristotelico-tomistica, tanto per capirci. Il ragionamento procedeva grosso modo, così. Seguiamolo insieme.

Davanti allo specchio:
 “Monòlogo di Turiđdu”

1°. Nessuno può mettere in dubbio che “tutte” le donne sono puttane. (Premessa maggiore del sillogismo)

2°. È risaputo, però, che da questa privilegiata categoria bisogna escludere la propria madre, la propria sorella e…la propria moglie!  (Premessa minore del sillogismo)

3°. Se ne deduce, dunque (e il ragionamento è chiaro, limpido, cristallino e trasparente come l’acqua) che le corna non possono mai… mai! attecchire all’interno della nostra propria famiglia. (…e qui si conclude il sillogismo)

Magnìficở!Štu.pendõ!
Potenzẩ della lỡgica!?
Acudèza ỷ Arte de Ingẻnio!

   Ma quale cosa più bella, più preziosa, avrebbe potuto donare Dio all’uomo? …La logica …il ragionamento … ché, si badi bene, non è proprietà degli animali, ma qualità che compete solo all’essere pensante, che è l’uomo, che per ciò si distingue dalle bestie. La Ra.gi.o.ne! … Questo strumento magico, vero e proprio manipolatore. e. trasformatore della realtà, in virtù del quale il bianco può diventare nero, e ciò che è tondo può diventare quadrato; e conseguentemente, ciò che è sbagliato,  ipso facto, può essere corretto; e ciò che è storto, voilà, può diventare diritto. Basta aver fede in lei ... nella Logica… nella Ragione! E Turiđdu aveva molta fede nella ragione!

   Con ciò, non si vuole dire che le corna non esistano! Le corna “e-si-sto-no!” come no!

Ma, non ci competono!
Non sono cose che ci toccano…
Non ci riguardano!

   Certamente il fatto in sé, cioè che uno sia `becco, può essere pensato, supposto, magari ipotizzato in sede puramente discorsiva, ma solo come possibilità molto remota, da far rientrare nel calcolo delle probabilità. In questo caso (ma solo in questo caso!) Turiđdu si sente disposto a poter accondiscendere, a poter addivenire, a poter fare suo il ragionamento. Ma, anche dissertando sulla “ipotesi” si sente affluire il sangue alla testa. E masticato appena fra i denti, ripete a se stesso che non è giusto, minçhia! non è corretto che qualcuno possa approfittare della sua Concettina, e con uno scatto amaro esclama:

 Iu simìnu  ’a lattuca
            e ’n-autru si manćia  ’a ’nšalata!

 Şparagnu a`mò muġğheri ’nti lu lettu
            e àutru si la`godi a lu`ruvèttu!

e sbattè la porta dietro di sé uscendo.

  A pranzo, non mancò di osservare con la coda dell’occhio la brava Concettina, che le parve, anzi, un po’ sfrontata e quasi euforica. Tutto nel suo comportamento sembrava dire:

Ştúppa mi đasti e ştúppa  ti filai!

   Turiđdu avrebbe voluto aprire il discorso, dire che che nella vita aveva sempre fatto il suo dovere, che non si era mai tirato indietro, ma si rese conto che la cosa non aveva senso, lui sapeva che la muġğheri víziùsa `cu lu maritu sa la şcusa, come pure che cu’ sapi fínćiri sapi tínćiri. Per questo, pensò di sorvolare, di lasciar cadere la questione, e rimase a mangiare in silenzio, con lo sguardo che girava a vuoto in quel piatto di fave bollite.

  
22. Níu! Níu!
                 Cu nuň è `curnǚtu
                            …è fíġğhiu ‘i `Điu!


   Finito di pranzare, Turiđdu pensò di fare quattro passi, tanto per distrarsi. Ma, come si dice…? la lingua batte dove il dente duole, il pensiero, come l’ago della bussola, per quanto girato e rigirato in tutte le direzioni finiva sempre per ritornare sullo stesso punto.

   Un gruppo di ragazzini che si inseguivano fra loro gli tagliò la strada. E quando si fu allontanato, gli sembrò di udire una strana tiritera, ripetuta in coro e ad alta voce:

           Níu, níu, cu nuň è`curnùtu è `fíġğhiu ’i `Điu!  
           Níu, níu, cu nuň è`curnùtu è `fíġğhiu ’i `Điu!

   Che ce l’avessero con lui? – pensò fra sé Turiđdu -. Ma poi si convinse di aver sentito male e continuò per la sua strada, diretto ora da suo cugino ’Ntò, il figlio di sua zia Minìçċhia, che in fatto di corna aveva una certa esperienza. Ma ’Ntò, che con l’età era diventato più saggio, dapprima fu molto vago, si tenne sulle generali.

Lui sapeva bene che…

Parrari pícca e`véştiri đi pànnu
            mai a lu munnu fíçiru`dānnu!

Acqua cunšiġğhi e`sali
senza ađdummannati nun ni đari!

e ancora

        Fra maritu e`muġğheri nun ci mintiri peđi,
          fra muġġheri e`maritu nun ci mintiri jitu!

   Anche perché i litigi fra marito e moglie prima o poi si risolvono felicemente:

      Li sciarri ’ntra maritu e`muġğheri
                  passanu`ni lu lettu.

   Ma, cionondimeno, alla fine si decise per il meglio, d’altro canto Turiđdu era suo cugino. E per prima cosa cercò di confortarlo, facendogli notare che

     Cu’ pri`picca, cu`pr’assai
                tutti avemu li noşŧŕi`guai!

   e, purtroppo,

Guai e`peni / cu l’havi si li teni!

   D’altronde si sa che in questo mondo infame,

A li proviri e a li şvinturati
            ci çhiovi ’nta lu culu anchi assittati!

E comu đissi lu sceccu a lu mulu,
            nascemmu `pi `đari culu!

e pertanto non resta che piegarsi alla sorte, ponendosi dolcemente ad angolo retto, cu lu culu a`ponti,  per assecondare i disegni del destino, e magari fare appello alla rassegnazione: 

Paçienzia`ci voli  a li `burraşchi
            ca nun si mancia`meli senza muşchi!

Li đinari vannu  e vennu,
            ma li corna sempri críscinu!

e lui, ‘Ntò, su questo argomento era abbastanza prepa-rato!  E sapeva molto bene che…

Corna  e`vastunati, cu l’avi si li porta.

   E mentre ‘Ntò faceva, le sue realistiche considerazioni, Turiđdu diventava sempre più scuro, sempre più cupo in volto. Il cugino comprese di aver calcato troppo la mano e cambiò argomento. “Ma perché prendersela tanto? … la vita è breve e bisogna goderla” – disse ‘Ntò al cugino, che lo guardava negli occhi con lo sguardo assente - “Bisogna farsi coraggio!” - continuò ‘Ntò, - e gli canticchiò addirittura la canzoncina che aveva appreso durante il se.vizio” di leva, quella che diceva:

Se oggi seren non è
doman seren sarà
      se non sarà seren
            si rasserenerà!

   E poi – sentenziò ‘Ntò – bisogna vedere se uno è veramente cornuto, perché

Lu veru curnutu
            havi la teşta comu ’n-šalici putātu!”
e lo fece mettere in controluce per vedere se il disegno delle corna richiamasse l’idea di un salice. “E se anche fosse – aggiunse ancora il cugino – ci sono rimedi e sistemi per cacciare via l’indesiderato male”, bastava fare una dieta a base di lumache, come lui stesso aveva sperimentato a suo tempo; perché si sa che,

Cu’ mancia `babbaluci, caca`corna!

   E pian piano il cugino diventò anche euforico, e disse che non tutti i mali vengono per nuocere perché…

Li corna sunu sicchi
            ma mantennu ’a casa grassa.

   Fece presente tutti i vantaggi, grandi e piccini, del nuovo status sociale, al quale era salito grazie ai riconosciuti meriti della buona Concettina. E glieli enumerò tutti, uno dopo l’altro, questi vantaggi. E gli disse che, tanto per cominciare, entrava nella categoria dei benvoluti, che sono solo tre in tutto il mondo:

Ŧŗi sunu li beni voluti:
            `buffùna,`ruffiàni e`curnùti!

   E non basta!, poiché solo chi ha le corna non corre pericolo che il tetto di casa o la volta celeste possano cadergli in testa, perché …

Lu curnutu teni lu tettu ( e ’u çelu)…
           `cu ’i corna!
           
   Vantaggi immensi, ai quali bisogna aggiungere dulcis in fundo, che siffatta condizione privilegiata tonifica il sistema nervoso. Difatti si dice:

            Đisietti curnutu ca la paçienzia ti veni!

   A tutto ciò – continuò ‘Ntò, ormai preso da una irresistibile foga oratoria – a tutto ciò bisogna ancora aggiungere che proprio lui, Turiđdu, in caso di pronunciata ramificazione delle corna poteva aspirare anche al premio Nobel. Ma in questo caso è necessario che il consenso popolare sia totale, plebiscitario, e che tutti siano concordi nel dire:

            Havia ni la teşta`çhiú`corna ca capiđdi!

Corna`n’havìa quantu ’n-túmmĭnu
’i vavaluçeđdi latini!

e tutto questo alla faccia degli invidiosi che non potendo aspirare a tanto vanno ripetendo:

Chi `bella sorti haňu li curnuti,
           ca senza siri`re su’ ’ncurunāti!

  Questo in sintesi il succo del discorso di ’Ntò.
  
   E mentre quest’ultimo parlava, il viso di Turiđdu tornava a distendersi, a rischiararsi, mentre gli occhi si illuminavano e riprendevano la consueta vivacità.

   Alla fine, però, ’Ntò chiese al cugino se aveva fatto la prova del sole. “La prova del sole? – fece TuriđduE che cos’è?”. ’Ntò stava per rispondere quando un coro di voci si levò dall’alto dei cieli:

Coro 

Lu vôi sapiri cu nuň havi corna?
            cu s’affaccia  a lu suli e nun fa ummira!

In quel momento, però, una nuvola si fermò dispettosa davanti al sole, e al nostro non più giovane amico non rimase che dirigersi lentamente verso casa ruminando fra sé, come il crasto-`bécco  di suo zio Angelino:

Nenti mi ’mporta se`sugnu curnutu
            `başta ca manćiu e`sugnu viştutu!

           Per omnia saecula saeculorum


Amen

Oremus!
                                                
   Qui finisce la storia di Turiđdu e di Cuncittina, anche se i vicini di casa e gli amici tutti, trovarono da ridire sulla ponderata decisione del nostro eroe.

   Poeti e cantastorie, poi, in aeternam rei memoriam, così de-cantarono i meriti del nostro Turiđdu:



   Curnutu, chi tò paŧŗi havìa li corna,
           e di tò nanna li corna tinìa.
           Quannu nascişti tu çhiuvèru corna,
           e ’n-launàru đi corna şcurrìa.
           La tò naca e lu lettu fořu corna,
          ’ntra corna e corna nutricaru a`tia:
           vantari ti`ni poi, çhianca đi corna,
           nun`c’è `curnutu pariġğhiu đi tia.

       
   Cornuto, ché tuo padre era cornuto / e di tua nonna teneva le corna / quando nascesti tu, piòvvero corna dal cielo/ e un torrente di corna scorreva / la tua culla e il tuo letto furono fatte di corna / non c’è cornuto che può reggerti al confronto.

(L. Vigo, Raccolta amplissima, n. 4371, p. 616)

                                                 Gino Carbonaro 

 Dal 21° capitolo de "La Donna nei Proverbi siciliani", Thomson Press, Oxford 2003