Saggi


Donna, silenzio dell’anima

Una serata con “Teatro Utopia”

     Il Teatro è forma d’arte completa. Il recitare degli attori all’interno di uno spazio ideale, quello del palcoscenico, l’assistere a un evento significativo nel buio concentrante di una platea, sorta di spazio rubato alla realtà, crea negli attori e nel pubblico una suggestione che spesso consente la realizzazione di un transfer. È Aristotele a fissare il concetto di catarsi, con il quale indicava l’insieme delle emozioni che si impadronivano dello spettatore nell’assistere alla tragedia. Ed è quello che si è verificato in molti spettatori, in “Donna, il silenzio dell’anima”  ultima pièce teatrale di “Teatro Utopia”, per la regia di Giorgio Sparacino.    
     L’apertura del sipario presenta allo spettatore una scenografia che ha tutte le connotazioni di un’opera d’arte moderna. Enormi drappi bianchi bellissimi su fondo nero e un sole rosso, immenso, centrale, quasi osservatore discreto e silenzioso delle miserie della nostra realtà. Dunque la musica col suo ruolo centrale, evocativo, capace di dare il “la” alla realizzazione di un dramma che sfuma nella tragedia.
    Protagonista della serata è la “Donna” nel suo eterno rapporto con l’uomo che nel XXI sec. può ancora ritenere di essere padre-padrone gestendo il proprio rapporto strumentale con la donna come si trattasse di un burattino senz’anima.
     Poi, la disposizione della quattro lettrici, in nero, poste su piani diversi. Scenografia, costumi, disposizione degli attori sulla scena, e ancora, le luci, la musica, la scenografia, l’amplificazione del service sono componenti non secondarie della realizzazione dell’opera. Fin qui, tutto è perfetto, gli occhi dello spettatore assorbono la serenità e la bellezza del tutto.  
    Poi, comincia la lettura, che lentamente si trasforma in interpretazione intensa, sentita, partecipata. L’attenzione del pubblico è subito catturata. Fra le quattro attrici e il pubblico in sala non c’è iato, ma empatia. Da subito la partecipazione degli spettatori è totale. Il tema è sacrale. Gli eventi tragici. Sofferenza, dramma di donne che hanno subito incolpevoli, violenze da parte di uomini dominatori, di culture ossificate, di religioni schizofreniche.
            Le lettrici/attrici sono donne che si presentano come testimoni di culture altre e di eventi occorsi a donne come loro.
Certamente il mondo degli uomini non è fatto tutto di violenza e di crudeltà mentale, ma questi aventi ci rendono non direttamente, ma metafisicamente coinvolti. Per questo, non può essere accettato il silenzio ed è necessario denunziare, per avvertire coloro che potrebbero cadere in queste trappole (uomini e donne). E questo obiettivo è stato raggiunto dal “Teatro Utopia” in “Donna, il silenzio dell’anima”.
            Ma, le emozioni che ha suscitato questa  performance ha altre chiavi di lettura. Quello a cui abbiamo assistito rappresenta una svolta nel teatro moderno. Un ritorno forse consapevole all’antico Teatro Greco, dove gli attori (Υπόκριτές) erano pochi. Prima, uno solo, poi due, poi tre ed erano immobili. Bloccati dai coturni. Mascherati. L’attore è simbolo. Il tema religioso e sempre attinente ai grandi drammi della vita. Il contenuto del Teatro Greco era sempre una denunzia (vedi, Ifighenia, Le Troiane, ecc.) denunzia che doveva far riflettere e scuotere l’ascoltatore. Sorta di specchio dove ognuno di noi è costretto a guardarsi. Questo era il teatro. Tutto rigidamente bloccato da una necessaria unità di tempo, di luogo e di azione. Immobilità statica che evoca il concetto di immenso, di eterno, per il quale, obiettivo del teatro era la realizzazione di una trans-formazione spirituale, mentale, culturale dello spettatore, che doveva riflettere sul senso della vita, sui suoi comportamenti, e su come si attivavano gli umani in alcuni momenti della vita.
Chi era presente alla rappresentazione di una tragedia, alla fine avrebbe dovuto non essere più lo stesso di prima, perché spiritualmente modificato, perché costretto a ripulire la mente dai luoghi comuni, che solitamente distorcono la realtà delle cose.
Chi ha assistito a questa interpretazione di “Teatro Utopia”, ha capito perché molti hanno resistenza ad andare al teatro. Non si va al teatro perché i lavori presentati sono spesso vuoti di contenuto, e come tali capaci di inquinare la mente e non basta dunque che gli attori siano eccellenti.
In “Donna, il silenzio dell’anima” il livello del contenuto e della interpretazione della quattro attrici era altissimo, soprattutto perché denunziavano con convinzione  modelli culturali messi a confronto. D’altro canto il problema delle culture e degli scontri di culture è problema fondamentale di oggi.
Per non dire che le giovani donne che hanno scritto gli allucinanti documenti che le attrici hanno recitato e gli spettatori hanno ascoltato, hanno dimostrato che la scrittura non-letteraria è forse la vera scrittura, e qualche giovane scrittrice (per necessità) ha vergato pagine dalla potenza shakespeariana.

                                             Gino Carbonaro


Franco A. Belgiorno
I Guardiani di nuvole

Fra microstoria e poesia

Sosteneva uno scrittore del passato che il primo giudizio critico è quello del tipografo, perché è lì fra linotype e tavolo di composizione, che viene fatta in silenzio la prima diagnosi di un autore e di un’opera. È il tipografo – continuava lo scrit­tore – che valuta “a naso” l’opera e ne misu­ra la validità, con un giudizio professionale e disinteressato.
     Ho ripensato a questo autore, quando ho saputo che Roberto Cannata, Calogero Lo Sello e Pietro Ottimo, titolari de “La Grafi­ca”, la nota tipografia modicana, qualche anno fa hanno voluto fare un omaggio all’amico scrittore Franco Antonio Belgior­no, pubblicando in edizione fuori commer­
cio I guardiani di nuvole, un libretto di una quarantina di pagine, contenente tren­tadue ricordi di personaggi modicani, ora scomparsi, che appartengono alla giovinez­za dello scrittore, e sarebbero stati dimenti­cati, se Belgiorno non li avesse fissati nel ricordo di pagine di splendida poesia.
     Sotto il profilo letterario, "I guardiani di nuvo­le! sono schede commemorative, che lo scrittore dedica alla memoria di personaggi umili, per l’importanza che gli stessi rivesto­no nella memoria dell’autore e per l’immaginario collettivo dei modicani, ai quali questi personaggi appartengono.
   Idealmente, "I guardiani di nuvole! richia­mano alla memoria le epigrafi della Antolo­gia Palatina, la storica silloge di epigrammi greco-­alessandrini, che fissano in estrema sintesi e bellezza il ricordo di persone segnate dalla sorte e dalla morte; e fanno pensare ancora alla Antologia di Spoon River (che alla Antologia Palatina si ispira, oltre che per il contenuto dell’opera, anche per il titolo).
     "I guardiani di nuvole", come i personaggi di Edgar Lee Master, sono vissuti ai confini della società, in una sorta di limbo sociale, senza far male a nessuno, semmai riceven­done, e cercando di essere accettati dagli altri.
   "I guardiani di nuvole" sono i paria della società, gli emarginati, come Neli Scaccia e Vanni u piecuru, gli alienati come U Cavaleri Poidomani, figure semplici e sorridenti, come «Angiledda, profumata e bella come i fiori di capperi, che andava raccogliendo lungo le lenze di Cartellone»; creature che sembrano appartenere a un mondo altro, dimenticate da Dio e dagli uomini.
      Sono questi i personaggi ai quali Belgiorno rivolge la sua attenzione, quelli che invita al suo cenacolo letterario, per gustare ancora il sapore delle cose autentiche, perché solo dove c’è povertà c’è semplicità e non trovi la alienazione che provoca la ricchezza e il benessere.
     Così, rivedi Vannìnu re sponzi scendere nei pome­riggi estivi con una cesta piena di mazzetti di gelso­mino, che avrebbe vendu­to ai signori seduti al Cir­colo Unione o al Caffè Orientale: questo è il lavo­ro che si era inventato Vanninu per racimolare qual­che lira, per sentirsi parte dell’insieme, e dare un valore alla sua giornata, un significato alla sua vita. «Ora – scrive Belgiorno – è anche lui uno stelo di fiore, una memoria del tempo perduto, un vascel­lo che scivola nel mare del nulla, e si lascia dietro la scia ineguagliabile del suo carico profumato».
     Immagini che si dissolvono, parole che suo­nano musica consegnata al vento, che si fa carico di trasportarla sulle nuvole, dove Van­ninu raccoglie ancora gelsomini per profu­mare gli altari del Paradiso «col suo odoroso groviglio di bianco».
     Ne "I Guardiani di nuvole", vengono rievo­cate queste presenze-­assenze, figure alle quali Belgiorno restituisce una dignità che percepisci superumana; personaggi unti dal Signore, ma segnati dalla sorte, che come fiori di campo hanno lasciato una debole, ma dolce e intensa traccia del loro passaggio su questa terra.
     Così, Luiggìnu l’uoviru (il cieco) che batte il tamburo facendosi guidare per mano da un bambi­no, fa il banditore per guadagnarsi la vita: «Ora imbonisce in Paradiso e dà la sveglia alle nuvole, chiama a raccolta i paesi aerei, quando è ora di ornarli con le trine degli arco­baleni, e in quei borghi assolati, in quei vil­laggi dove i ciechi sono tutti vedenti, non ha bisogno di chi lo conduca per mano. Sta bat­tendo che tutto va bene, ta­pum, che la città è felice, ta­pum; che la gente ha finalmente scoperto la giustizia e l’amore, ta­pum. Sta sognando nella sua pacifica morte». Ed è poesia eletta, e della più fine, quella che abbiamo appena riportato.
     E Pietru c’ô frischiettu, che per poche lire, suonava ad orecchio, con meraviglia di tutti, qualsiasi motivo, «fosse il Concerto n° 3 per violino di Mozart o la Quinta di Beethoven, non avrebbe sbagliato una nota».
     E il signor Di Rosa, che «per un modesto obolo offriva schedine della Sisal» che pre­parava di notte «in una foresta di uno, ics, due... perduto nell’ossessione di far ricchi i suoi simili». Lo vedevi apparire da lontano, alto, allampanato, «gongolante e pacifico», sventolando le schedine, passando da un marciapiede all’altro alla ricerca di clienti, e quando ti arrivava vicino gli sentivi sussurra­re sottovoce: «Milioni, milioni!». Poi, d’un trat­to non si vide più: si disse che era morto. 
     Di questi personaggi, l’autore non dimentica nessuno, e ricorda Matteu, che tutte le mattine raccoglieva i «sacchetti con i fondi del caffè per le brodaglie che davano all’ospizio». Figure di un mondo dove tutti avevano un ruolo preciso e cercavano di inventarsi un mestiere per vivere.
     Ora, sono tutti dissolti nella nebbia, dileguati come ombre, «perché anche di ombre è fatta la vita, e di titoli e blasoni non è mai risorto un ricordo che si accompagnasse alla purezza e alla innocenza della povertà». Figure immense, simboli, che diventano eterni, ora che l’autore li ha trasportati nell’iperuranio della sua fantasia, nell’Eden dei ricordi. Ed è mestizia dell’anima, ed è dolore, quello che trasmette questa poesia, dal tono flebile, che canta sottovoce le cose che vanno
via, «perché la vita macina la memoria e la porta al macero della gloria».
     Sembra un bouquet, questo libretto, o anche un concerto di musiche giocate sui toni minori del blues, che cantano elegiaca­mente la vita.
     E c’è ancora Zuddu, che se n’è andato per sempre dai Ponti di Pulera, «... e ora sta sedu­to in un cupo silenzio sulla soglia del suo tugurio, nel fresco della sera che profuma di garofani e menta, in mezzo al volo basso di miriadi di rondini, dimenticato da Dio, come un pacchetto d’uomo che nessuno viene a ritirare». E siamo al tema centrale della medi­tazione poetica di Belgiorno: al senso della “dipartita” e della “assenza”, della esisten­ziale separazione della parte dal tutto, della spartenza e della solitudine, da lui sentita come massimo dei mali, forma di lacerazio­ne dell’io, che lo scrittore vive come evento fatale e tragico della vita; e sono temi cen­trali della tradizione poetica siciliana.
     Solitudine, spartenza, dimenticanza sono il leitmotiv che accompagna la produzione poetica di Belgiorno; temi che, a volte, si rifu­giano nello sfondo e sembrano attenuarsi, ma che ricompaiono all’improvviso per mate­rializzarsi nel grido della “di­speranza”, o della speranza perduta, che nutre l’angoscia dell’esistere; elementi che assu­mono una valenza tragica. Ed è la prova che tutti sono andati via, tutti sono scomparsi e ci hanno lasciati, qui nel deserto della solitu­dine! Così, Angiledda, che «si perse dentro a un tramonto e portò via la nostra infanzia»; Donna Cuncittina, che «si spense nel sonno, e forse sognò i gradini del cielo mentre li sali­va uno per uno»; ed è andata via anche Rosetta Di Rosa, la dolcissima, che scomparve in un giorno, con la famiglia, cacciata via dalla miseria.
     Spartenza, solitudine, dimenticanza sono temi classici, ontologici dell’esistenzialismo poetico di Franco Antonio Belgiorno, che si prefigge ora un’impresa impossibile, quella di trattenere al di qua del «limitare di Dite» e della dimenticanza, che è forma di morte, quei personaggi che hanno nutrito la sua giovinezza, «perché la vita non può arrendersi alla falce della morte». Ed è questo che fa la misura e la grandezza della poesia di Bel­giorno.
     E siamo al “Tempo”, altra categoria dell’esistere, che è il vero protagonista dell’opera di Belgiorno. Il Tempo che è signore e padrone delle cose, il Saturno Kronos, che divora le sue creature; il Tempo che dà e ruba gli affetti, le albe, i tramonti, le bellezze, la vita, «il tempo che ci fa orfani di affetti, ... il tempo che incendia il passato ... anche le briciole di vita, che si racimolano alla luce del sole di casa»: il tempo che bloc­ca ogni cosa, ed è per questo, che ... «l’angolo del vicolo dove scompare don Tanuzzu è ancora senza lampadina».
     Tempo crudele, che paradossalmente ama le sue creature e «incorona i fichidindia di giallo e di rosso, e tinge gli ulivi d’argento, come se la polvere... del tempo... fosse caduta sulle loro foglie».
     Ma sulla solitudine degli esistenti e come forma di reazione all’oblio, si erge il canto del poeta, mentre la voce della poesia si fa memoria: custode dei ricordi e del tempo perduto. È così che l’amarezza del pessimi­smo si stempera e si addolcisce nel farsi poesia, e il poeta, che è lirico, si fa poeta epi­co, in quanto interprete dei sentimenti di tut­ti. Ultimo degli aedi di greca memoria, Fran­co Antonio Belgiorno, dall’alto della sua splendida casa di Cartellone, canta sulla cetra dei ricordi, l’immagine di Modica, ora pietrificata nell’afa estiva, ora addormentata avendo preso per cuscino una collina, ora «come ombra che salda i frammenti della sua sostanza sulle pietre e sul cielo», e materna ne custodisce anch’essa le memo­rie della vita. Ed è poeta vero, Belgiorno, che usa le parole come fossero note, con le quali evoca musica, echi, suggestioni, e quindi consonanze di amore per questi fra­telli minori della grande e incomprensibile storia degli umani. E sono belle le cose che scrive, i personaggi che descrive, le suggestioni che trasmette, che emanano un’energia e una verità che è vita, soffio vita­le, che è spirito, onda che ti porta e ti traspor­ta: ed è microstoria che ti fa pensare, ma soprattutto poesia che ti fa sognare e ti fa interrogare sul mistero della vita, sulla bel­lezza delle piccole­grandi cose che muoio­no e vengono salvate dal ricordo. Ed è bello quando la scrittura trasforma in simboli, i per­sonaggi di tutti i giorni, poggiando il discorso anche sulla filosofia dell’esistere, che il let­tore non manca di cogliere fra le righe di que­ste pagine stupende.

                                                Gino Carbonaro

In “Pagine dal Sud”, aprile 2008.