2011/04/20

Giappone, rispetto & democrazia

Confucianesimo, religione del rispetto
 

   Immaginiamo venticinque polli in un pollaio. L’etologia afferma che il pollo-alfa beccherà ventiquattro polli, il pollo-beta ne beccherà ventitré, ma sarà beccato dal capo. L’ultimo pollo della catena verrà beccato da tutti. È questa la legge della natura alla quale sottostanno anche gli umani. Tutte le società animali hanno struttura gerarchica: in basso i deboli, in alto i forti. Al capo, potere e diritti, ai subalterni doveri, sottomissione, ubbidienza. Le piramidi egizie (o azteche) simboleggiano la disposizione naturale delle cose. Ed è struttura che ritorna negli eserciti dove ritrovi un capo, testa pensante e ordinante, in alto, i subalterni posti come gradini della scala gerarchica. In quasi tutte le società, la beccata dei polli è sostituita da forme larvate di verifica di potere.
   Dittature e tirannidi sono modelli naturali di struttura piramidale. Polizia e burocrazia sono braccia e gambe del potere.   
   I greci considerarono ingiuste le tirannidi e avanzarono il concetto di democrazia. Se la cosa pubblica è di tutti, deve essere gestita da tutti. Alla piramide sociale si sostituì il concetto di torta. Ad ogni cittadino spettava la gestione di una fettina di quel dolce potere. Nasce così il concetto di uguaglianza: uguali di fronte alle leggi (isonomia) uguali nel diritto di parola e nelle pubbliche assemblee (isotimia e isogoria). Da qui l’uso della clessidra. Prima di essere condannato, a Socrate fu concesso per difendersi un tempo uguale a quello del suo accusatore. Ma, i greci si tutelarono anche contro chi nel tempo acquisiva troppo potere. Pericle subì l’ostracismo non perché avesse amministrato male, né perché avesse rubato, o fatto votare leggi ad personam, ma solo perché troppo potente, e il potere fuori misura nelle mani di uno solo violentava il principio di uguaglianza.
    Fissato il concetto di democrazia, la cosa pubblica fu gestita (a turno) da tutti. Ma, nei fatti la piramide naturale non fu mai eliminata. La rivoluzione francese all’insegna della liberté, égalité e fraternité, si trasformò in dittatura napoleonica, la rivoluzione russa scivolò nella dittatura staliniana.
   Solo in Giappone, in virtù dell’assunto confucianesimo la piramide naturale non fu mai stravolta. Fu solo modificata in “piramide del rispetto”. L’inferiore nella scala sociale continuò a inchinarsi umilmente al superiore che fu consapevole di dovere rispetto a chi lo rispettava. Cosciente di lavorare per la società, e di avere una responsabilità morale per i propri subalterni. Lì, nella Terra del Sol Levante non esiste la democrazia nella accezione greca, ma qualcosa di diverso e di molto bello, rappresentato da forme di reciproca stima. 
   Se è vero che i Giapponesi hanno imparato la tecnologia dall’Occidente, forse anche per noi è giunto il momento di imparare qualcosa da loro. Il senso del dovere, l’onestà, il rispetto. Tutto comincia da una ipotesi. 

                                                                    Gino Carbonaro

La giustizia, fra denari e .. amicizia


Giustizia

La ghigliottina delle tasse? 
Ad alcuni taglia un capello, 
a un altro .. la testa!


                                                        di Gino Carbonaro


   Ognuno di noi ha il senso della giustizia innato. Se qualcuno scavalca la fila al supermercato, sappiamo che non è giusto. Per lo stesso motivo, crediamo che giustizia ci sarebbe in questo mondo se a tutti toccasse la stessa quota di sventure. Invece, c’è chi vive sereno e chi sopporta sofferenze e disgrazie. E, ancora, c’è chi lavora per pagare tributi e balzelli, e c’è chi è preposto riscuotere, e a comminare multe e sanzioni. La ghigliottina delle tasse, poi, ad alcuni taglia un capello, a un altro la testa.


   Al tempo degli antichi Egizi, gli schiavi erano costretti a spostare enormi blocchi di granito. Sopra di loro, le angherie di un sole rovente e la sferza dei fustigatori. Il senso della giustizia che è in noi vorrebbe capire il perché di queste disuguaglianze. Ma, quanti delitti si commettono nel nome della giustizia! L’omicidio di Sarajevo, scatenò la prima guerra mondiale. Morirono milioni di soldati. Pagò con la vita chi non aveva colpa. 

     Per l’attacco alle Torri Gemelle fu invaso l’Irak. E, indietro nel tempo, nel XIII sec., per punire i Catari che non riconoscevano il dettato della Chiesa, fu organizzata la crociata contro gli Albigesi. Scomparve una civiltà. I carnefici della notte, nel trucidare donne e bambini, chiamavano in causa la giustizia divina, gridando: “Deo lo vult!” (Dio lo vuole).    

   L’evento richiama alla mente la medievale caccia alle streghe e la frenetica attività dei tribunali della Sacra Inquisizione che mandavano al rogo fattucchiere e negromanti. Anche in quel caso si recitava una preghiera che chiudeva con “Signore! Giustizia è stata fatta!

   In tutti i tempi, lo zelo per la giustizia è stato enorme. E i fatti sono passati alla storia, perché l’uomo deve imparare com’è fatto il mondo. “Historia magistra vitae!”

   Dalla giustizia maniacale che ricorda la vendetta a quella dei tribunali dei nostri giorni. Qui la giustizia è oculata. I giudici sono impegnati a dirimere con scrupolo il falso dal vero, il bene dal male, il torto dalla ragione. Si esaminano prove, si ascoltano testimoni. La giustizia è imparziale. Il verdetto finale  evoca il simbolo della bilancia. Si vuole dire che la legge è uguale per tutti

     Ma, anche qui, nessuno può sapere se chi fa uso della bilancia ruba sul peso, né si può quantificare quanto pesa il potere, il denaro, l’interesse e la superficialità nella bilancia della giustizia. Una antica sentenza siciliana recita: “Cu’ havi dinari e amicizia si teni ntra lu culu la giustizia”. Sarà vero? I Romani si dicevano certi che le ragnatele acchiappano moscerini e non trattengono calabroni. L’allusione alla giustizia è evidente.

   Un filosofo del passato sosteneva che la giustizia è un abito bianco montato su un manichino ed esposto in vetrina. Tutti lo guardano, tutti ne parlano, tutti lo ammirano. 

     Ci si chiede se anche quell’abito è in vendita al migliore offerente? 

                                        Gino Carbonaro 









 

Matrimonio & Saggezza Popolare

Cosa suggerisce il Proverbio antico sul matrimonio

   
    Finalmente l’estate! Mare, sole, sesso, libertà. È qui, nella grande kermesse di corpi umani che si espongono le “nudítes”: muscoli da palestra, seni à la page, tatoo propiziatori, ombelichetti al piercing, costumini che coprono l’invisibile.
   Nel passato, la spiaggia era l’universo dove i giovani cercavano l’altra metà della luna. La sabbia, il mare erano luoghi di incontri e di promesse; ed erano  tanti quelli che a fine stagione incontravano il partner dei sogni, quello che avrebbero condotto all’altare.
   Ora il sociologo avverte categorico: fra le nuove generazioni, il fidanzamento è passato di moda. Il partner di oggi è solo il ragazzo-con-cui-stò (al momento); l'ex-fidanzata è la-ragazza-con-cui-stavo. E tutto procede all’insegna dell’usa, consuma e getta. Temporaneo e relativo. Oggi così, domani chissà!
   Del matrimonio, poi, se ne parla ancora, sì, ma come di optional non necessario. E poi, chi l’ha detto che per fare figli ci vuole il matrimonio? Almeno su questo punto, la gioventù moderna ha le idee chiare. Si stupisce delle ingenuità dei matusa, e punta il dito accusatore sulle loro scelte, sicuramente sbagliate.
   Proprio sulla unione coniugale, le nuove generazioni hanno dalla loro parte il Proverbio Siciliano che, vero premonitore dei tempi moderni, avverte sornione:“Cu líbbĭru  stari, nun s’hav’a ncatinari!/ Cu si marita è cunnannàtu n-vita!/ Cu si marita è cuntentu gn-jôrnu, e cu ammazza n-pôrcu è cuntenti n-annu. E, sempre saggiamente ricorda che “cu si marita e fa la casa, prestu resta cu la varva rasa”. E infine, l’avvertimento principe:“Si vôi campari mill’anni sta schêttu e nun ti méttiri nt’ê guai”. Suggerimenti ineccepibili, quelli testè elencati; difatti, nessuno può mettere in dubbio che, iri a la guerra e maritari, a nuddu s’hav’a cunsigghiari”. Per non dire che i giovani conoscono l’equazione:“Ômu maritàtu, ôçeddu ngaggiatu!” E sanno che è meglio essere uccel di bosco, che vola libero di ramo in ramo, che uccello in gabbia! E sono consapevoli, i giovani, che col matrimonio, i poco accorti antenati “si lĭvavanu n-pinseri di min… ma si ni mettêvunu çentu nta testa”.
   Oggi, è risaputo che “cu si marita e nun si penti, a Palermu si pigghia çênt’unzi n-cuntanti”, e i soldi, pare, sono ancora là, a Palermo, in attesa del legittimo richiedente.
   E allora? Se è vero, che “vidìri e nun tuccari éni cosa di cripàri”; se è logico quello che andava ripetendo la Badessa di Cimillà che “quannu lu jardinu è siccu s’abbivira”, resta fermo che è giusto godersi la libertà, “n-anca ĉa e n-anca dà!”
   Nel film “Il Re ed io”, il sovrano di Thailandia riferendosi alle donne sosteneva che: “L’uomo è come l’ape, vola di fiore in fiore!” Metafora raccolta dalla governante inglese che proseguiva: “Sì, la donna è come un fiore aperto e profumato che è… visitato da tante api!”

                                  Gino Carbonaro

Giuseppe Carbonaro, ragusano, protomedico del Morbo Cholera

Francia 1851


Quando un medico ragusano 

fu insignito con il titolo  

di Cavaliere della Legion d’Onore



     
     L’Ordine della légion d’onore fu istituito nel 1802 
da Napoleone Bonaparte per riconoscere meriti 
“aux guerriers ayant rendu des services en combattant pour la République”, ma oltre ai soldati riconobbe i meriti dei civili, anche di stranieri, che si erano distinti per meriti eccezionali. La stella a dieci punte della Legion d’onore, oggi considerata uno dei più ambiti riconoscimenti del mondo, nel 1851 fu assegnata al dr Giuseppe Carbonaro, medico siciliano per essersi distinto nello studio del colera.

     Il colera (che non va confuso con la peste) proveniente dall’India, apparve per la prima volta in Europa - via Amsterdam - nel 1826 e raggiunse l’Italia settentrionale nel ’32 e la Sicilia nel ’37. I colerosi venivano colpiti da dolori acutissimi, contorcimenti, vomiti, convulsioni, crampi accompagnati da febbre altissima e incontenibile diarrea. 

     Erano sconosciuti causa e terapia del morbo portatore di morte. L’unica difesa ritenuta efficace contro il male fu quella di abbandonare i centri abitati per evitare contatti e contagio. I nobili si chiusero nelle ville di campagna, ma anche sacerdoti, medici e autorità preposte alla gestione della cosa pubblica abbandonavano i loro uffici e si rendevano latitanti. 

     Tutto questo mentre la plebe inferocita scassinava granai e andava alla ricerca di capri espiatori. Era convincimento che l’epidemia fosse provocata da untori.      

  Su questa pandemia si costruiscono meriti e fama di Giuseppe Carbonaro, medico nato a Ragusa Ibla il 4 maggio del 1800. Figlio di notaio, laureato in medicina alla università di Palermo, aveva studiato chirurgia a Napoli proprio negli anni in cui il “morbo cholera” dilagava nell’Italia settentrionale. E, mentre tutti fuggivano, il dr. Carbonaro chiese al re di Napoli Ferdinando II di Borbone un salvacondotto per recarsi in Toscana dove il colera imperversava. Lo scopo del giovane medico era quello di studiare sul campo il morbo asiatico. In Toscana, il dr. Carbonaro osserva e annota i sintomi del male e formula una diagnosi. Al suo ritorno a Napoli pubblica la “Epitome sul cholera-morbus asiatico osservato in Livorno nel 1835" (Napoli, Trani, 1836).

     Quando il colera arriva nel Regno delle due Sicilie, il re Ferdinando lo nomina direttore degli ospedali napoletani e gli affida il compito di organizzare la difesa della città di Napoli. Da questo momento il nome del dr. Carbonaro è conosciuto in Europa e per questo sarà invitato ovunque a relazionare sulle sue esperienze dirette.

    Nel 1848 il medico ibleo fu richiesto dal governo britannico di recarsi a Malta - allora dominio britannico - per diagnosticare alcuni casi di sospetto colera rilevato su una nave in arrivo. La diagnosi era fondamentale, perché se si fosse trattato di colera tutte le navi sarebbero state bloccate in quarantena, con grave danno per l’economia dell’isola. La diagnosi era pertanto fondamentale.   

     Nel 1851, il dr. Giuseppe Carbonaro fu invitato a Parigi per partecipare alla “Conferenza Sanitaria Internazionale”. Qui Carbonaro, forte delle sue esperienze, relazionò con competenza le sue ricerche sul colera davanti a un pubblico di medici. Per questi motivi e in quella occasione il medico ragusano, primo fra gli italiani, ricevette dal Governo francese l’ambìto riconoscimento dell’

Ordine Cavalleresco della Legion d’Onore. 

Ed è un riconoscimento che non va dimenticato, anche se oggi sono pochi a sapere chi è questo uomo a cui i ragusani hanno dedicato un vicoletto che si affaccia su via Gian Battista Hodierna, che prima era dedicata proprio a Carbonaro.

                                              Gino Carbonaro

gino.carbonaro.italy@gmail.co,

Aldo Migliorisi, La musica è troppo stupida



Sulle note di un martello pneumatico
 

     Affermare che “La musica è troppo stupida” è concetto che inquieta. Tanto afferma, invece, Aldo Migliorisi, musicologo e autore di un bellissimo libro dal titolo volutamente provocatorio.
     Arte e musica sono state da sempre oggetto di conflittuali confronti fra persone, classi sociali, popoli. C’è oggi chi ricorda le diatribe fra genitori che andavano in sollucchero per Claudio Villa, Luciano Tajoli, Giacomo Rondinella, e figli di nuova generazione stregati dalla musica di Elvis Presley, Beatles, rock and roll. Per mezzo della musica la verifica di un gap generazionale. Nello stesso periodo, i sostenitori della Tebaldi e della Callas, al teatro La Scala di Milano, gli uni contro gli altri armati difendevano i loro idoli, ma soprattutto due diversi modi di intendere la musica. E, ancora nella metà dell’Ottocento, se qualcuno avesse chiesto a un Lombardo e a un Veneto, quale era il compositore più grande, avrebbero risposto: “V.e.r.d.i.!” facendo passare l’acronimo di “Vittorio Emanuele Re di Italia”. Ed era guerra giocata a suon di note fra italiani e austriaci, fra dominati e dominatori.
     Lo stesso ruolo ebbe la musica in Argentina, quando a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nacque il Tango: mentre i grassi latifondisti sudamericani, gente perbene, ligi alle leggi e rispettosi della  morale, danzavano la quadriglia sfiorandosi appena le dita, gli immigrati reclamavano un diritto alla libertà, ballando provocatoriamente abbracciati, maschi e femmine, corpo a corpo, in adesione totale, suscitando l’indignazione delle classi dominanti e la reazione della chiesa e del Papa che da Roma scagliava anatemi contro il ballo immorale, ma soprattutto contro quella forma di trasgressione sociale.
     Che la musica “diversa” fosse da considerare pericolosa, fu intuito già nel VI secolo d.C. dal papa Gregorio Magno, che dettò regole su come avrebbe dovuto essere il canto di Dio. Per non dire che essendo considerate le donne creature del diavolo, ed essendo loro proibito di cantare in chiesa, fu deciso di castrare fanciulli per creare eserciti di voci bianche, in tutto simili a quelle degli angeli che risaputamente non hanno sesso.
    Ma, già nella Grecia classica del V secolo a.C. l’attore-commediografo Ferecrate aveva portato in scena la Musica, donna dal corpo martoriato che, interrogata dalla Giustizia sul motivo di quello scempio, dichiarava di aver subito violenza da parte di chi l’aveva sconvolta, rumoreggiando in vari modi con trilli e stridii, urli e rumoretti mai sentiti, e tutti lontani dal concetto di “Armonia”. Potrebbe sembrare un discorso contro i metallari del tempo, ma a Ferecrate dava forza Platone che, nella sua “Repubblica”, avvisava di introdurre con cautela cambiamenti nella musica, così come nelle leggi dello Stato. 
    Aldo Migliorisi, nel suo libro “La musica è troppo stupida” parla soprattutto di libertà. E si chiede se l’uomo ha diritto di far musica come meglio ritiene, o deve soggiacere a regole e imposizioni, come da sempre hanno preteso dittatori di turno? Dunque, sostiene il nostro critico, diamo spazio e giudizio positivo al francese Erik Satie, agli Einsturzende Neubauten che portano un martello pneumatico sul palcoscenico per scardinare dalle fondamenta pregiudizi e prevenzioni sociali, e soprattutto ascoltiamo senza arricciare il naso cento altri musicisti libertari che cercano di affermare la loro filosofia della vita, il loro diritto a far musica.

                                                                           Gino Carbonaro


La musica è troppo stupida
di Aldo Migliorisi
Edizioni La Fiaccola

Fico, l'albero sacro alle donne



     Il fico e il suo frutto sono stati da sempre associati alla donna. Nell’antichità romana l’albero sacro alle donne era il caprifico, fico delle capre o fico selvatico: “u ficastru”. Dea protettrice delle donne era Giunone Caprotina che a Roma veniva festeggiata alle “none” di luglio, giorno in cui le donne si recavano fuori delle mura, e presso un vecchio caprifico sacrificavano alla loro dea.
   Per i Greci, la parola fico (sykòn) indica sia il frutto della pianta che l’organo sessuale femminile.
   È curioso il fatto che la “φ” (fi, phi o effe, ventunesima lettera dell’alfabeto greco) è simbolo grafico che richiama alla mente il sesso femminile, mentre ricorda il frutto del fico. La fessurina del fico maturo stillante miele e il rigonfiamento del sesso femminile stimolavano proiettivamente la fantasia dei Greci.
   Che nel mondo greco, il fico sia associato al sesso femminile è provato ancora dalle Falloforie, feste religiose nelle quali giovani aitanti portavano in processione un simbolo fallico, seguiti da donne (canefore) che portavano cestelli colmi di fichi. Il fallo e le fiche sono simboli chiari e sono propiziatori di vita.
    Ma, anche nella lingua russa, il termine fetjuk (traducibile con “fituso” o “sticchiusu”) era offensivo per un uomo. La parola deriva da “fita” (ф), che nell’Ottocento ucraino era ritenuta una lettera “sconveniente”. Così, mentre il russo di una volta metteva sotto accusa la lettera effe, con la stessa gli inglesi battezzavano il “fanny”, vezzeggiativo dell’organo sessuale femminile 
 φ     Φ  

     In linguistica, la lettera effe è il segno della vita e di ciò che dà vita: da notare le parole che hanno inizio con la lettera effe: femmina, figlio, fanciulla, fessura, fica, feto (colui che vien fuori, alla luce) Fetonte (figlio del Sole-vita), fiore (da cui nasce il) frutto, fertile, fecondo, facondo, fallo, falò (che dà luce); e ancora, fonte, fiaba, favola, ma anche feci, sono termini che indicano ciò che “vien fuori”, che aprendosi dà vita. Ma, anche proli-fica (da facio, fare, creare) è colei che genera molta prole.
     Nelle simbologie che operano in questo campo, va ricordata una canzone siciliana intitolata “La Ficu” che recita così: “La vitti mpinta a n-árvulu/ la ficu ca pinnìa/ Ed era troppu auta/ pigghiari n-la putìa/ Di sutta taliànnula/ lu meli ci currìa/ Di da vuccuzza  amabuli/ lu meli ci spannìa / Essennu sutta d’arvûlu/ na rama n’affirrai/ Ficuzza mia, certissimu/ pi certu ti manciai. Il tema del frutto appeso al ramo e non raggiungibile è allegoricamente presente nella letteratura antica. Da ricordare la poesia nella quale Saffo paragona il suo amore a una mela: “Come la mela, alta rosseggia sul ramo più alto / La dimenticarono nella raccolta / No! non la poterono cogliere.

Tango, la rivincita culturale


Tango

Da ballo scandaloso e immorale
alla designazione 
come patrimonio dell'umanità




La ricchezza del Tango è nella sua capacità di esprimere tutto dell’uomo: il bisogno di nutrire lo spirito con la musica, di ballare in coppia mimando voluttà sessuale all’interno di uno spazio-tempo (la pista da ballo) dove per la durata di un Tango, i due ballerini vivono il loro momento di sogno e di complicità con un partner vero o sognato. Miraggio che svanisce nel nulla con le definite battute d’arresto del Tango, che segnalano la fine del sogno e il ritorno alla squallida prosa di tutti i giorni.

     È di pochi giorni fa la notizia che il Tango, fenomeno culturale fra i più affascinanti del mondo, è stato considerato patrimonio dell’umanità.  L’ambìto riconoscimento è avvenuto il 30 settembre, ad Abu Daby,  dove in seduta congiunta erano riunite Commissione Intergovernativa Unesco e Agenzia Culturale dell’ONU.

     Rendere il Tango patrimonio dell’Umanità è stata scelta coraggiosa, perché fino a pochi anni fa, “intangibili” tesori dell’umanità sono stati considerati solo i beni “tangibili”: monumenti, opere architettoniche, bellezze naturali. Il Tango, invece, è creazione immateriale, la cui realizzazione dipende di volta in volta dalla capacità creativa di musicisti, poeti, cantanti, tangheri.

     Eppure, il ministro della cultura argentino Hernan Lombardi, avanzando con il governo uruguayano la richiesta all’Unesco, ha ritenuto che il Tango potesse aspirare ad ottenere tale riconoscimento, soprattutto perché l’Unesco ha in precedenza riconosciuto come patrimoni dell’umanità il Carnevale di Oruro (Bolivia) e il Carnevale di Barranquilla (Colombia). 

      Le origini del Tango risalgono alla fine del XIX secolo, quando dopo il 1880 il governo argentino aprì le frontiere alla immigrazione di massa. L’Argentina, terra immensa (dieci volte più grande dell’Italia) e ricchissima, contava allora una popolazione di due milioni di abitanti. La manodopera era necessaria per sfruttare le immense ricchezze del paese e per lo sviluppo economico dell’Argentina. Fu così che sulle rive del Rio de la Plata giunsero a ondate immigranti provenienti da tutte le parti del mondo, soprattutto europei e ovviamente italiani, che fuggivano la miseria cercando fortuna in Sud America.

     L’afflusso degli immigrati fece raddoppiare la popolazione, modificando il rapporto uomo-donna che diventò di cinque uomini di contro a una donna.

     Gli immigrati, quasi tutti giovani, pieni di speranze nella possibilità di un futuro diverso e migliore si ritrovarono di fatto senza affetti, senza famiglia, stranieri in una terra della quale sconoscevano finanche la lingua.

     Il rapporto asimmetrico fra maschi e femmine potenzia la prostituzione e il moltiplicarsi dei “quilombos” dove gli immigrati si recano per incontrare gente, vedere come è fatta una donna, annegare nell’alcol le loro pene, e ammirare i gauchos della Pampas, esperti ballerini che, nell’attesa del loro turno si esibivano in mirabolanti gare di danza sul ritmo della Milonga.

     Fu proprio nei quilombos, che allignavano nella zona del porto di Buenos Ayres, che le maitresse assoldarono le prime orchestrine, e fu qui che il Tango fece i primi passi.

    In queste “enclave” diverse, maschi e femmine, pronube il Tango, ballavano abbracciati facendo aderire i loro corpi per sentirli vibrare all’unisono con la musica e con le armonie del ballo, mimando in piena libertà scene (oscene) di corteggiamento. Qui, il macho-ballerino si prodigava nell’improvvisare passi e figure che la donna assecondava. E fu gioia degli immigrati assaporare quella libertà, vivere quella esperienza immensa. 

    Ma, il Tango “porteňo”, conosciuto fuori dai quilombos e ballato anche per le strade, fece scandalo in una società puritana. Nessuno ai primi del Novecento poteva accettare che un uomo e una donna si abbracciassero in pubblico. Ma fu merito del Tango se in epoca freudiana fu abbattuto il più radicato tabù sessuale.

     Il Tango fu condannato dalla Chiesa, dal potere politico (specie in regime dittatoriale) e dalla aristocrazia benpensante che vide figli (e figlie!) perdere la testa per un ballo, che a Buenos Ayres veniva danzato solo nei “barrios” malfamati e là dove si offriva sesso a pagamento. La calamita del sesso fu considerata… una calamità!

     E però, lentamente, il Tango si fece sempre più capace di toccare le corde dell’animo, non solo con la musica, ma anche con le parole. I testi dei primi tanghi parlano di uomini abbandonati dalla donna amata (Caminito), di luoghi di appuntamento con donne di sogno (A media luz), di figli che muoiono con sensi di colpa per aver lasciato la madre sola in patria (La Cumparsita). Agli inizi, i destinatari del Tango furono gli immigrati.  Tanto è dimostrato dal fatto che la lingua usata nei testi era il “lunfardo”, dialetto del porto nato dal contributo di lingue diverse su una base di spagnolo e parlato dagli immigrati. 

    L’atmosfera del Tango storico - o della “Vecchia Guardia” come si disse - è da fin du siècle, malinconica e decadente. Forse anche per questo il Tango-ballo infiamma il mondo. Finlandia, Giappone, Francia, Gran Bretagna e, soprattutto, Stati Uniti, dove cinema e Tango nati da poco creano la prima “star”  nell’attore-tanghero Rodolfo Valentino.

     Il Tango parla di amore, poesia, musica, arte, ma il contenuto è anche filosofico. Il Tango dice che le convenzioni sociali sono ipocrite, che amore e contatto fra sessi diversi non sono peccato, che il ballo è vita, la vita è breve, e per questo invita tutti a cogliere l’attimo fuggente. Enrique Santos Discepolo definì il Tango “un sentimento triste che balla”, e fu lievito che riuscì a unificare il popolo argentino e uruguayano, che dopo gli anni Ottanta nascevano dall’incontro di popoli e culture diversi. Ora, la fede dell’Unesco è che il Tango possa unificare i popoli del mondo. 

                                                  Gino Carbonaro