2013/01/29

Storielle del passato n.1 Usa e getta


Storiella n° 1
Usa e getta
                  Civiltà e benessere
                                                                                   Gino Carbonaro

Una volta le cose venivano fatte per durare in eterno.
Mio nonno Giorgio, detto il bisnonno Giorgio dai nostri figli, poco prima di morire mi chiamò e mi disse:“Gino, io nella mia vita ho conosciuto solo il lavoro. Soldi non sono riuscito a metterne da parte. La mia casa, tu lo sai, è costituita da una sola stanzetta quadrata, divisa in due, come tu vedi. La metà dell’ingresso, ospita questa buffetta, diciamo questo tavulino rettangolare, due sedie, una tuccena dove dormiva mio padre prima di morire, la piccola botte di vino, che è la mia unica consolazione e il mio conforto. Nell’altra metà della stanza divisa da questo separè di canne, ci entra a stento il nostro letto matrimoniale e questa cassettiera che per noi è stata sempre una specie di altare di cose preziose per quello che c’è dentro i cassetti e per quello che c’è sopra. Qui sono esposte le foto dei miei genitori e di tutta la nostra famiglia e anche le cartoline che tu mi hai mandato quando sei stato a Parigi.

Ora, siccome nessuno resta in eterno su questa terra, ti voglio lasciare un mio ricordo. E mi porse uno scatolo dentro il quale si trovava un piccolo coltello che lui prese  e aprì. Il manico era di un marrò consunto, la lama era ridotta quasi a zero  per quante volte era stata affilata. Mi spiegò che aveva acquistato quel coltello durante la prima guerra mondiale, quando si trovava sul fronte di guerra, e da allora era quello il coltello che aveva sempre portato con sè alla bisogna e per tutti gli usi.

Mio nonno era ultranovantenne e il coltellino era vecchio più di settant’anni. Una vita trascorsa insieme. A quei tempi si usava tutto. Non si buttava nulla.

                                         *    *    *

Sulla durata delle cose, ricordo ancora una scena fra mio padre e mio nonno. Mio padre, fotografo, subito dopo la seconda guerra mondiale aveva aperto uno studio fotografico a Rosolini, in provincia di Siracusa. Studio che veniva aperto al pubblico solo la domenica. Io piccolo, non mancavo di svegliarmi verso le quattro del mattino, quando mio padre si preparava per andare alla stazione ferroviaria per andare a Rosolini. D’inverno poi indossava un cappotto fatto dal sarto, perché allora era così che andavano le cose. I vestiti li facevano i sarti.
Di tanto in tanto sentivo parlare mio padre con mia madre e periodicamente faceva gli elogi del cappotto mormorando felice: “Questo cappotto ha sette anni”. E io che di anni ne avrò avuti quattro, quei sette anni del cappotto mi facevano sentire piccolo. Rimasi però stupito, quando qualche tempo dopo, il bisnonno Giorgio restituì il suo pensiero: “Questo mio pastrano ha sessantanni. Mio padre, che era nei dintorni non fiatò. Era stato battuto nel confronto. Oggi, i vestiti si acquistano periodicamente solo perché sono passati di moda. L’invecchiamento se c’è, è psicologico. Ma è proprio quello, che vince. I soldi ci sono e bisogna spenderli. Il concetto di economia è bandito.


Dal mio punto di vista, che era quello di un bambino, fissai quei concetti e osservavo ancora mio padre quando, in altri momenti della vita, per costruire qualcosa utilizzava i chiodi già usati battendoli con il martello per raddrizzarli. Così feci io da grande. Conservavo i chiodi usati e storti per riutilizzarli in seguito. Poi mi accorsi che i tempi erano cambiati e non ne valeva più la pena. La mia azione avrebbe fatto ridere chiunque mi avesse visto battere un chiodo storto per raddrizzarlo. E ci fu qualcuno che vedendomi fare quella insolita operazione rise sotto i baffi.

Oggi, le cose vanno diversamente. Un coltello non taglia più come quando era nuovo? Si butta. Se ne compra un altro. Un cappotto non piace più? Si regala. Siamo ricchi. E financo l’armadio dei ricchi finisce spesso per essere la discarica pubblica.   


Storiella n° 2

Prima di aprire la porta? Si bussa  
   
                                                                 di Gino carbonaro

Avrò avuto dodici anni quando mio padre mi chiamo e mi disse: “Gino vai al Municipio e fammi fare questo documento”. Io presi l’appunto scritto, e fiero per quell’incarico andai di corsa al Comune. Di corsa la strada, di corsa la scala. All’arrivo, mi informai. Mi indicarono un corridoio, una porta. Mi misi in fila e alla fine chiesi il documento. L’impiegato mi disse di tornare venerdì.
Tornai a casa, sempre di corsa e dissi a mio padre che il documento sarebbe stato pronto venerdì. Quando giunse il venerdì mattina, mi accorsi che mio padre non faceva più mente locale sul documento da ritirare. Io, sempre fiero di me stesso, pensai di fargli una sorpresa. Ero entrato nel mondo degli adulti. E, sempre di corsa per strada, sempre di corsa per le scale del Municipio, giunsi all’ingresso dove mi aspettava la sorpresa. Non ricordai più quale era il corridoio e soprattutto la porta. Nei corridoi non c’era nessuno e le porte erano tutte chiuse e senza indicazione. L’idea? Fu quella di aprire le porte ad una ad una, piano piano, per vedere se ricordavo.

Qui la seconda indimenticabile esperienza della mia vita. Aprendo la porta piano piano a fessura mi apparve una grande stanza, in fondo alla quale a sinistra c’era una scrivania con un impiegato seduto, che si girò verso di me gridando: “Porco! Non lo sai che si bussa?” Il porco ero evidentemente io, che chiusi altrettanto lentamente la porta e sgattaiolai nella seconda porta, bussando stavolta, e siccome quella era la porta giusta entrai per ritirare il documento che era pronto.

   Da allora ho imparato due cose:

1° Che bisogna bussare prima di aprire una porta.
2° Che se una persona sbaglia, non è educato rimproverare
     in quel modo violento.  
Nel tempo però, dimenticai quella esperienza per me traumatica. Ma, fui costretto a richiamarla alla memoria per spiegare a me stesso perché da grande, da Preside, bussavo sempre quando dovevo entrare in una classe, ma soprattutto mi chiedevo perché mi trovavo a bussare automaticamente, e di nuovo, quando uscivo dalla classe, suscitando la scatenata ilarità dei ragazzi. E, cosa non meno strana, a casa mia bussavo spesso prima di entrare in cucina o nella nostra camera da letto. Allora, mi costrinsi a pensare, per capire il perché di quel per me inspiegabile condizionamento, perché bussavo sempre, anche là dove non c’era un motivo. Ad un tratto mi venne l’illuminazione. E rividi me piccolo, quella porta che io stavo aprendo lentamente, e quell’uomo-dio, l’impiegato statale, sul trono del suo potere, dietro la scrivania e, infine mi rimbombò nella mente quel grido terrificante con il quale venivo associato a un porco.