2012/05/29

Carusanza di Giuseppe Cavarra


Carusanza
un'opera di Giuseppe Cavarra

di Gino Carbonaro 

Questo libro, Carusanza, di Giuseppe Cavarra sembra venire da lontano. Da una dimensione spazio-temporale non definibile. Da un mondo che non c’è più. Là dove le montagne parlano al cielo e il gheppio domina il vento e il silenzio avvolge ogni cosa. Qui, ai limiti della realtà, sorge Límina, un paese antico, cullato dal tempo. Qui, in questo angolo dei Peloritani, fra burroni e dirupi di capre, sono i natali e la fanciullezza di Cavarra. Così, leggendo Carusanza, rivedo montagne di fiaba. Respiro aria pura. Assaggio quel vento. Faccio mio il silenzio, mistico, di quei luoghi.

Carusanza è un diario dell’anima. Dialogo, forse monologo, che il poeta instaura con se stesso o con i suoi fantasmi, ai quali cerca di ridare una parvenza, un corpo, una definizione. Carusanza è un parlare dolce, sottovoce, che un figlio fa con la Madre, oggi cenere muto, di un passato che continua a vivere ancora nel presente della sua anima, della sua mente. Modo per testimoniare un affetto, per confermare una identità, una corrispondenza elettiva di sensi amorosi.

In questa operazione, l’evento è reso possibile dal linguaggio. Bellissimo, inusitato, strano, diverso,  vichiano. Linguaggio che pare levigato dal tempo e vibra di una luce antica. È il parlare dei Liminesi, di coloro che hanno abitato quei luoghi di mito, che sono vissuti per millenni in questa isola di strapiombi e granito. Isola nell’isola. Essenza delle essenze.

In queste poesie, le parole sono pietre, macigni, austeri, pesanti, forti. Pietre posate, una accanto all’altra, incastonate, come muri a secco, logici nella loro positura, monumentali, maestosi, funzionali, messi lì per ignorare venti ed e-venti e sfidare il tempo. Pietre per costruire un ricordo, un riparo, un argine capace di vincere contro le tempeste del nulla, della indifferenza, della superficialità, del vuoto. Parole, per non cadere in quegli sbàusi ca l’òcchju nun tocca mai u funnu, intendi, anche, lo strapiombo della morte.

Questo piccolo libro è come un nuraghe. Un monumento (solitario) che non grida la sua presenta. Ma è proprio lì, nel suo interno, custode di silenzi sacrali, che cova la vita.

C’è in questa opera una forza che non è consueta nella poesia. Un linguaggio arcaico, ma elegantissimo, finissimo, come vuole la raffinatissima cultura di questo figlio della terra sicula, di queste montagne austere che grondano storia. Immagini, ricordi, evocazioni, pensieri vaganti, un filo di filosofia appena occultata, mistero del nostro esistere. Un libro bello. Un dono che Giuseppe Cavarra fa alla sua Terra, ai suoi cari di un tempo e a quelli di oggi, al suo essere stato “altro” da quello che è ora. Profumo di nepitella. Verde e giallo di una selvaggia ginestra, riservata nel suo vivere di roccia. Un libro che è documento, atto, testamento. Libro che, nella estrema sintesi di chi conosce le siccità estive della nostra terra, e sa quanto vale il poco che è tutto, custodisce un numero non definibile di messaggi, che emergeranno lentamente, come fiori che aspettano il tempo per germogliare. Perché questo non è libro di una sola lettura. È libro che va gustato, assaporato, pensato, apprezzato, capito, poi, metabolizzato. Il suo messaggio appartiene a tutti.

Antologia di Spoon River? Forse sì, un poco, per quella volontà di evocare fantasmi. Ma, in Lee Edgar Masters il punto di vista è un altro. L’atmosfera è cimiteriale, le anime-morte sono parlanti e protagoniste. Qui, è come davanti a un grande tribunale della storia. D’altro canto Masters era stato un poco anche avvocato. Spoon River è una sorta di Inferno dantesco visto da una angolazione diversa. Spoon River è altra cosa.

In Carusanza, l’io-narrante è figlio di una terra sana e santa. Se proprio necessita un accostamento, questo libro ha, semmai, un referente greco, omerico. Se di analogie bisogna parlare, potremmo accostare Lee Edgar Masters e Cavarra, insieme all’altra grande Antologia, quella Palatina, alessandrina, dolce, forte, memoriale, essenziale nella sintesi che non dà spazio all’effimero.


                                                                                                 Gino Carbonaro

Ragusa, 22 novembre ’05 

P.S.   Per chiudere, sento di dover fare gli elogi all’Editore, Dr.  Antonino Sfameni, per la veste che ha dato a questo libro prezioso: grazia del carattere e corpo, formato della pagina, impaginazione con scelta centralizzata del rigo, interlinea e carta speciale. Ma, mi si consenta di fare i miei complimenti ancora a Piero Sérboli per la bellissima incisione riportata in copertina, incisione che fra l’altro si adatta al tema trattato

Gentile prof. Cavarra,

     Due giorni fa, passando dal Centro Studi F. Rossitto, Umberto Migliorisi mi ha dato il Suo libro, Carusanza. Io avevo sentito parlare di Lei, e forse in qualche Premio Vann’Antò, l’ho anche intravista, ma nulla di più. Umberto mi ha invitato a leggere il libro e a scrivere le mie impressioni quando avrei avuto tempo. La stessa sera, però, incuriosito, cominciai la lettura di questo libro, che mi sembrò subito diverso, strano nelle sonorità, atipico nel suo linguaggio, nei suoi contenuti, ma anche di non facile lettura. Lessi più volte le prime sei o sette poesie, poi spensi la luce, pensando a chi scriveva in questo modo così nuovo.

    La mattina dopo ritornai a leggere ancora altre poesie, poi ritenni giusto scrivere le mie impressioni a penna (io non scrivo a penna da anni); ma, scrissi una lettera a Umberto, e più tardi lo chiamai e gliela lessi. Mi invitò a modificare l’apertura perché lo scritto era rivolto a lui e non era elegante. In buona sostanza, sono delle mie “sincere” impressioni. Io, solitamente, scrivo poco, e certo non avevo proprio adesso il tempo, né la concentrazione, per una recensione, dal momento che sto mettendo a punto una mia conferenza dal titolo Da Meyerbeer a Favara, Poesia e Musica Popolare Siciliana, che terrò - come Le avrà detto Umberto -  a Messina presso la Filarmonica Laudamo, in Via Laudamo, alle 19 del giorno 30 novembre.

    Comunque, la lettura delle Sue opere non è finita. Ora il dolce Umberto mi ha passato un altro Suo libro, Vamparizzi, del 1975. Un altro libro che mi sembra con la “L” maiuscola.

    En passant, devo dire che mi è piaciuta la veste tipografica di Carusanza. Veramente un gioiello di arte libraria, soprattutto mi è piaciuta l’incisione. E se ce l’ha Lei, la tenga cara.

     Un caro abbraccio, e l’augurio di poterci incontrare al più presto, magari a Messina il prossimo mercoledì 30 novembre.
                 
                                                  Gino Carbonaro