2011/08/25

Arturo Barbante, pittore, disegnatore, artista


Lettera ad Arturo Barbante
dopo aver visitato la sua mostra di pittura
presso la Galleria Koiné di Scicli

   Il pittore che espone necessita di informazioni di ritorno per capire qual è il risultato del suo proporsi agli altri. Ritengo, dunque che quello che ti dirò può rappresentare un utile feed back.
La mia non è una critica restrittiva. Il “critico” è (o perlomeno, era una volta) colui che faceva entrare in “crisi” l’artista. Io, invece, ti dirò qual è stata la impressione fresca, genuina e soprattutto immediata di un visitatore che entra nella Galleria Koiné di Via Mormino Penna a Scicli.

      Della tua mostra avevo ricevuto via e-mail un invito che in copertina mostrava delle bottiglie viste dall’alto, prospettiva insolita, diciamo fotografica. Si trattava di un’opera non banale che faceva riflettere, incuriosire, e soprattutto invitava il destinatario a recarsi urgentemente a Scicli per vedere cosa avrebbe potuto produrre di altro l’Autore. È inutile dire che le bottiglie, per associazione di idee, facevano pensare a Morandi, ma il modo con cui erano trattate, a parte il taglio prospettico, non riconduceva al pittore milanese. Colpiva, semmai, in quella immagine di copertina, l’uso dell’acquerello, trattato per pennellate attente, macchioline, come si fosse trattato di acrilico e comunque di un colore denso. E poi, quel fondo bianco del quadro, e quel verde smeraldo centrale su cui ruotava il discorso pittorico e la trasparenza di una piccola bottiglia di gazzosa alla sinistra. Insomma, bisognava andare a Scicli.

       Io non ho letto il titolo della mostra. Il titolo “Icone della tavola” l’ho rilevato solo al mio ritorno a casa leggendo la presentazione di Carmelo Arezzo e di Andrea Guastella. Il tema era la tavola, forse anche il cibo, o il pane, o cosa accade di uomini e donne che si riuniscono attorno a un tavolo, unione com-unione di persone per assaporare uno dei beni della vita: lo stare insieme, per l’appunto. Ma, quello che accade in questi convivi o cenacoli di umani devi dirlo tu che sei il pittore e devo capirlo io che sono il fruitore.

Dentro la Galleria Koiné

            Adesso sono a Scicli in Via Mormino Penna. Frugo con gli occhi cercandoti. Non ci sei. Entro e capisco che per visitare la mostra bisogna partire da destra. I primi due quadri non mi riscaldano. Però mi colpiscono. Danno il “la” al percorso. Forse per questo, non mi sposto. Il tentativo è quello di penetrare in anteprima il “senso” di questa pittura che sembra promettere cose “diverse”. Per me il termine “senso”, inizialmente, vuol dire linguaggio, cioè forma, tecnica, dominio del quadrato all’interno del quale si sviluppa il progetto creativo-compositivo, i colori per capire come si propone il pittore, cosa vuole dire e soprattutto chi è. Nella teoria dei frattali si sostiene che basta un particolare anche minimo per capire l’insieme di qualcosa. Il principio vale anche per la pittura o per la musica. Diciamo per l’arte. Così, subito, anche da un particolare  minimo puoi rilevare la forza pittorica, il mestiere (se c’è) e anche il possibile narcisismo, che è poi  la bestia da tenere a bada.
Ma, già al terzo lavoro esposto (e venduto) mi sono bloccato ad osservare. Mi chiedevo, ma cosa sta accadendo? Questo Arturo Barbante, cosa sta proponendo? Sto osservando la “Festa di battesimo” e noto che sul tavolo c’è del cibo, dipinto a colori. Cibo. Ma la mia attenzione è catturata dagli sguardi di quelle persone che si sono fatte riprendere (stavo per dire, fotografare) da qualcuno. In ogni persona, una maschera grottesca il cui linguaggio, per me, sembra partire da molto lontano, forse da Hieronymus Bosch, transitato per Francisco Goya (ricorda “Due vecchi che mangiano) quindi vai al berlinese George Grosz e, in parallelo, a Mino Maccari, e perché no, anche a Toulouse-Lautreque e Francis Bacon. Poi ci sei tu. Tutti pittori che interessati ad esprimere (espressionisti potremmo definirli) quello che l’animo sente dentro di sé.
 Ma qui, nelle tue opere, queste maschere sono figure siciliane, di un repertorio popolare. Qui leggi la miseria e il rapporto ambiguo/ambivalente con la realtà. In quei volti cogli l’essere e il non essere delle cose. La precarietà dell’esistere: anche in quelle vivande messe in bella copia, esposte in bella mostra. Malgrado ciò, io non sono attratto dalle vivande. Gli occhi non si fermano sul tavolo né sui colori, ma vanno a posarsi sulle quattro donne di destra (sono ancora fermo sulla “Festa di battesimo) delle quali non si capisce fino a che punto sono vere o sono maschere di se stesse incartapecorite. Ma, cosa dicono? E lì ci sei tu: il creatore. E rifletto sul contenuto che richiama il senso dell’esistere (e non è poco). Diciamo, la precarietà dell’esistere. La disperata volontà di sopravvivere di persone che non esistono più, che sono transitate in un altro mondo.
Il contenuto, ha detto, Carmelo Arezzo, rimanda alla filosofia dell’esistere.
Eppure, malgrado la necessità di soffermarsi sul contenuto, sento che il mio interesse è ancora per la forma. Dunque, l’occhio dell’osservatore parte dal centro (il cibo dipinto a colori) ma, subito viene risucchiato a destra da  sguardi penetranti, poi si muove (lo sguardo) verso sinistra e rileva che le figure si dissolvono. Ombre, larve, visioni spettrali di personaggi che sono, o erano? Presenze? Assenze? È incredibile questo lavoro. Non riuscivo ad appagarmi dall’osservarlo, dal goderlo. Era musica per i miei occhi, nutrimento per il mio pensiero. La signora Anna, titolare della Galleria, si è accorta del mio interesse per le opere e mi gira intorno. Io immaginavo di vederla accanto a me, ma il mio sguardo restava inchiodato sul quadro. Ero ipnotizzato da questa spirale ruotante. Il quadro era perfetto. L’emozione intensa.
            Adesso procedo. Ora è il momento del “Brindisi”. Qui, al pennello aggiungi un filo di penna ad inchiostro di china. Si intuiscono segni volanti che come stelle filanti o meteore attraversano il fondo. Le figure? Sono sempre grottesche. I soggetti? Ancora pronti per farsi fotografare da uno spirito assente. Vogliono immortalare la loro immagine precaria, un pellicola di niente. Un sentirsi al centro dell’attenzione per un attimo. Il grottesco è dominante. Nel quadro senti tutto. Anche l’odore stantio di persone che non hanno dimestichezza con l’acqua. La gioia è la tavola. Ma io registro un vuoto. Un nulla che non ha scopi. Né motivi. Tutti i personaggi sono evanescenti. Esistono? Non esistono! Lì vedi? Non li vedi! Sembrano spiriti che hanno lasciato solo la loro pellicola esterna. Un po’ come i serpenti che non vedi, quando in campagna hai la ventura di trovare a terra una pellicina della muta. Ma, io sono affascinato dall’opera pittorica. Equilibrio. Dominio del quadrato. Piani in sequenza a partire dall’uomo seduto a sinistra. Sorriso beffardo dell’uomo che versa il vino. E ancora, una  donna manichino, anche lei maschera, palo, immobilità di chi ignora cosa sta accadendo intorno a lei.
Tutti questi protagonisti della mostra sono lì, hic et nunc. Immobili. Per farsi immortalare da una entità che come Dio è (dietro la macchina fotografica) e contemporaneamente non è, perché nessuno lo vede. Un incanto questo lavoro. Bravo Arturo.
Poi continuo nel mio procedere lento. La signora Anna riesce a dirmi se volevo un catalogo e subito dopo mi chiede se ho visto il libro. “Quale libro?” dico io. E mi mostra il pieghevole a fisarmonica, dove c’era la storia del pane. Ma io, perdonami, non riuscivo a guardare il pane. A me interessava la pittura. Il resto lo sai. Ci siamo confrontati ieri sera e hai fatto bene a mostrarmi le foto dei tuoi quadri precedenti. A farmi rilevare la tua attenzione per Bacon, e quelle surreali figure di plastica sospesa sulla testa di una persona, come la pietra di René Magritte, che è sospesa anch’essa senza peso in uno spazio surreale.  
Le tue opere sono ricche di un percorso culturale importante. Intendo Dadaismo, surrealismo, espressionismo che restano dentro di te, come residuo maturo e distillato nei lavori su cui mi sono soffermato. Ma ci sono ancora le avanguardie. Ora è tutto sedimentato, come il mosto buono che si è fatto vino. Stupenda questa tua semplificazione della forma, questa riduzione grafica del segno, l’uso dell’acquerello come fosse carboncino. E poi, che dire? Ti sei accorto che queste tue figure statiche (perché così li vuole la foto) in realtà sono dinamicamente in movimento. E quasi stanno per uscire dal quadro per venirti incontro. Mi riferisco al principio secondo cui l’Apoxiómenos di Prassitele è opera statica, ma in realtà è dinamica, mentre il Discobolo di Mirone è opera dinamica, ma di fatto statica. In effetti, il Discobolo è fermo. Non si muove. Così come il Mosé di Michelangelo che è muto, malgré lui. Questa è storia.    
    Così, nelle tue opere rilevi un universo di valori, personaggi minori della vita di tutti i giorni, che tu cerchi di sottrarre all’usura del tempo. Personaggi che vibrano. Infatti sono vivi. Esistono. E nei loro visi scavati, nella pelle che aderisce al cranio, lasciano il segno di una vita di cui non si capisce il senso. Ma, sei tu che non capisci il senso della vita, e suggelli il tuo messaggio in quei visi, in quegli sguardi vuoti di personaggi che vedi, percepisci e realizzi in questo modo splendido.

                                               * * *         
                              
    Giunto al tuo sessantaseiesimo anno di età. Dopo aver visitato, assaporato, ammirato, tenuto presente il processo della pittura mondiale, ma sentendoti incardinato a questa terra come una erbaccia sana, coriacea, spinosa e desiderosa di vivere, sentendoti parte di un discorso pittorico che non può trascurare la tua cultura, la tua gente, la tua Vittoria, produci questo evento pittorico serio, forte, profondo, eccezionale, bellissimo di arte nuova e antica a un tempo.
   In questa pittura c’è tutto di te. Soprattutto la forza, l’energia che tiene in “tensione” la tue opere, nelle quali mescoli arte aulica e arte popolare. Scegliendo di usare l’acquerello  che non deve, più che mai, sfuggire al controllo del pittore. Acquerello domato, dosato, sposato con il bianco e nero. Acquerello che non deve mai dire agli altri: “Guarda come sono bello. Come sono effeminato. Questo sono io”. Non mi meraviglierei, se cambiando il tema dei tuoi “racconti”,  tu possa cambiare tecnica e stile.
Questo perché sei imprevedibile. Ami la provocazione. Il confronto. Il dibattito. La guerra (e la pace). Ami l’amore, le cose belle e giuste, ma soprattutto parlare agli altri con la pittura. Col segno che incide senza ingannare così come spesso l’uomo usa fare con le parole.

Istrice rosso

Mi chiedo se istrice (da hystrix)  e istrione (da histrio) hanno qualcosa in comune. Tu sei un istrice rosso. Molto bello. Per curiosità ti dico che molti anni fa Mino Maccari ha illustrato l’opera “Mimi siciliani” di Francesco Lanza (Sellerio editore): una donna nuda fu disegnata curiosamente con un istrice nero posizionato sul sesso.

La critica

Non mi ero accorto (mea culpa!) che la mostra aveva un tema, fra l’altro bello e strutturalmente necessario. Una mostra “a tema” crea coesione e dà maggiore forza all’evento. In questo caso, il visitatore passa dalla osservazione di un’opera a un’altra senza doversi risettare mentalmente, quando fra un quadro e un altro, il pittore cambia tema e a argomento.
Però, quando ho letto l’apertura di Andrea Guastella, nelle pagine di presentazione alla tua mostra, quando Andrea fa l’elogio della “tavola imbandita”… “con al centro una zuppiera e un grande piatto da portata” dove “l’atto solitario di nutrirsi, ecc.” “e l’idea di soddisfare un bisogno materiale…” e “si cucina e si mangia e si parla mentre si mangia e .. tutto è l’esatto opposto delle immagini alla Mulino Bianco!”. Dotta, dotta, acuta dissertazione che mi ha fatto pensare a un proverbio cinese il quale recita: “Quando il dito indica la luna ... ”. E perdonami. Ma, restare fermi alla tavola imbandita e ridescriverla a parole, quasi ce ne fosse bisogno è proprio guardare il dito, il tuo dito (in questo caso) che indica la Luna.
Di Carmelo Arezzo mi rende “disappointed” il fatto che non capisco certi suoi passaggi.
Comunque, a parte la “omologazione” (termine che non ho mai capito e mi fa venire la pelle d’oca al solo sentirlo) non posso far mio il concetto che “il gioco dei volti e degli sguardi è spettacolo barocco e medievale a un tempo”. Proprio non mi ci ritrovo. Ma dove è il barocco? E il medioevo, poi?
E ancora va detto di quell ”unòlogo” che al mattino scrive libri con materiale di riporto letto la sera da altri libri. Ritiene di essere  “ xiclitanus genius loci” con diritto di prelazione (medievale “jus primae noctis”). Tu non gli hai dato il lato B di te, come lui pretendeva e ti ha mandato una frecciata. Era certo che ti avrebbe centrato. E ti ha centrato. Tu non appartieni alla sua parrocchia. Non ti sei fatto presentare da lui. 
Ora, io ti dico, cerca di diventare più famoso di quanto non sei già e vedrai quella persona trasformarsi in salamandra. Per ora tu non sei molto interessante per lui, ma se arrivano i "volponi", capiranno il pericolo che corrono. Hanno fatto gruppo perché come si dice: “Il cantante che non ha voce non può cantare da solo”. 
Ora io ti dico: continua con sicurezza nel tuo impegno pittorico. Per me sei già realizzato. Ora dovranno capirlo gli altri e lo capiranno. Un abbraccio e congratulazioni vivissime,

                                                                      Gino Carbonaro    


NASCA PATASCA interpretata dai Talèh

una mia composizione .... da continuare ...