2013/02/21

Le svergognate di Lieta Harrison


Alla scoperta di un libro bellissimo

Prigionieri della cultura

                                              Le Svergognate


di Lieta Harrison

Verginità della donna, delitto d’onore.
Un libro-inchiesta sulle forme mentali dei Siciliani 
alla fine degli anni cinquanta.

Una storia dimenticata
__________________________________________
                                                                     
                                                        saggio di Gino Carbonaro


Jean Jacques Servant-Screiber, editore e direttore del settimanale francese Express, scriveva anni fa che un buon libro si lancia come una marca di cioccolato. Senza di ciò il suo destino è segnato. Il principio vale anche per “Le Svergognate” di Lieta Harrison, un libro-inchiesta pubblicato nel 1963, non pubblicizzato, e oggi dimenticato.

Eppure l'opera era stata presentato da Pier Paolo Pasolini e Tullio Tentori, con una appendice di Federico Fellini. E non è poco. La copertina, poi, portava il ritratto di Lieta Harrison firmato dalla pittrice romana Anna Salvatore.

Il libro riporta i dati di una inchiesta condotta in Sicilia da una ventunenne studentessa palermitana, che voleva capire qual era, all’epoca, la percezione che i Siciliani avevano di una ragazza che avesse avuto la sventura di restare incinta o che fosse stata abbandonata dal suo ragazzo.
L’inchiesta verificava il rapporto tra verginità della donna e senso dell’onore nella Sicilia del tempo. Il discorso, poi, si allargava al concetto di "uomo d’onore, parola d’onore, delitto d’onore", e indirettamente andava sfiorando il concetto di "sgarro" e di "corna". Si trattava di un insieme di valori fondamentali nella cultura siciliana di una volta, su cui la ricercatrice affondava senza anestetico il bisturi della sua indagine.

   Il libro, che allora acquistai, mi (dis)-turbò non poco. Quella inchiesta mi parve una gratuita denunzia contro i Siciliani, e l’opera un escamotage di cattivo gusto per denunziare all’opinione pubblica italiana e internazionale il vero modo di pensare (non proprio bello) dei Siciliani.


L’Italia negli anni Sessanta

Sino ai primi degli anni Sessanta,  l’Italia era ancora spaccata in due fra settentrione e meridione in una sorta di manicheismo sociale che poneva al Nord il bene, e a Sud il male. Due culture contrapposte, due diversi modi di pensare che ponevano nella parte alta e dominante i continentali-industriali (industriosi) con valenza positiva (+), e il concetto  veniva associato all’idea di civiltà e di progresso. Dall’altra si trovava la parte sotto-messa e dipendente: terroni-cafoni, culturalmente arretrati e ignoranti. E il concetto veniva associato all’idea di passività-immobilità-disorganizzazione- inciviltà-sporcizia. Cultura agli antipodi del mondo civile. Il tutto con ovvia valenza negativa. 

In buona sostanza, da una parte c’erano i nordici, dall’altra i sudici. Ed io stesso, all’epoca studente siciliano a Roma, sapevo di passare per terrone nella considerazione dei miei colleghi romani. Tanto leggevo nei loro occhi quando mi chiedevano:“E tu da dove vieni?” E saputo che ero siciliano prendevano le distanze da me per poi tornare alla carica: “Ma, è vero che in Sicilia se lasci la fidanzata, quella ti spara?” Queste domande ed altre riempivano parte delle nostre conversazioni. Ma le notizie degli omicidi per motivi di onore, quando si verificavano, facevano il giro del mondo ed erano cose di cui ogni Siciliano era a conoscenza e si vergognava non poco.

Le svergognate

Il libro-inchiesta “Le Svergognate” era uno specchio crudele che Lieta Harrison metteva davanti agli occhi dei Siciliani, quasi a voler dire: “Guardate. Questa è la vostra cultura! Questo il vostro modo di pensare! Questa è la vostra considerazione della donna! L’avete detto voi! Ho prove e testimonianze di 686 intervistati”.

Leggevo quella terribile denunzia che mi costringeva a tirar fuori la mia testa di struzzo dalla sabbia dove cercavo di nascondere la mia vergogna, e mi sentivo come se qualcuno stesse mettendo sale nelle mie ferite. Proprio non mi andava giù quella inchiesta, fra l’altro fatta da una donna dal cognome straniero, che Lieta-mente ci svergognava ai quattro venti, come un banditore con trombetta e tamburo:"Udite-udite" come vengono messe alla gogna le donne siciliane, le svergognate!”

Ma, gli svergognati eravamo noi, 
i Siciliani!   


Se Lieta Harrison, nata a Ragusa (1938) avesse avuto una sola goccia di sangue siciliano - pensavo fra me - avrebbe dovuto sapere che i panni si lavano in casa. Mi pentii di aver comprato quel libro, e dopo averlo letto in uno stato di amara e rabbiosa sofferenza, lo riposi chissà dove per dimenticarne l’esistenza.

Qualche tempo dopo
Dopo qualche anno, quel libro mi capitò fra le mani. Lo rilessi senza acredine e senza prevenzione. Questa volta l’opera mi sembrò diversa. Con il tempo, tante cose erano cambiate. Adesso ero nelle condizioni di rilevare che l’inchiesta fatta da Lieta Harrison nei primissimi anni Sessanta era un documento di portata storica eccezionale.

Quel libro indagava sulla condizione della donna siciliana molti anni prima che il movimento femminista prendesse coscienza del problema della donna. Di fatto, l’ inchiesta di Harrison aveva  messo il dito in una delle piaghe della nostra cultura. Un libro che anticipava i tempi, e che per importanza potrebbe essere paragonato alla inchiesta fatta alla fine dell’Ottocento da Franchetti e Sonnino, perlomeno per quel che riguarda la “cultura” del popolo siciliano.

Potenza del tempo! Ciò che mi aveva turbato tanti anni prima, diventava ai miei occhi di interesse assoluto. L’inchiesta della Harrison, a cavallo fra storia del costume, antropologia, sociologia e psicologia diceva tutto sulla condizione della donna siciliana, ma indirettamente fissava e archiviava le forme mentali dei Siciliani di una volta. Insomma, uno spaccato di cultura siciliana con tutte le prevenzioni, prevaricazioni, fisime, stereotipi e ragnatele di (pseudo-)valori (quello dell'onore) che creavano la gabbia mentale all’interno della quale ognuno di noi viveva imprigionato.

Il concetto di onore

   
Giunti alle soglie del terzo millennio, chi vuole sapere come eravamo proprio cinquant’anni fa, come  veniva considerata la donna siciliana e soprattutto come si comportava la donna in ossequio alle norme culturali, deve leggere questo libro, sfogliare le schede contenute nell’album di ricordi messo a punto da questa intraprendente ricercatrice, che all’epoca dei fatti aveva poco più di vent’anni, perché è qui, per merito di questo documento che possiamo oggi vedere quali impensabili accezioni assumeva il concetto di onore in questo triangolo perverso di Sicilia.

    Due persone parlavano, prendevano un accordo e si impegnavano?... sulla loro parola d’onore.
Due amanti avevano una relazione sessuale?  Il contatto, la complicità sessuale era un fatto che si trasformava in patto, che siglava un atto.

Tutto chiamava in causa l’onore.

Solo la morte poteva sciogliere il patto. Non importava che la parola data sancisse un accordo amoroso, commerciale, legale o illegale. Tutto era compiuto all’insegna dell’assoluto, dell’eterno, dell’immodificabile, secondo una logica-etica super-umana.

Era impensabile che il patto non venisse onorato. Se quanto era nelle aspettative e negli accordi fosse stato disatteso da una delle parti, le conseguenze sarebbero state tragiche. E ciò, nella Sicilia del tempo, era risaputo da tutti.

Ma anche la verginità della donna prima del matrimonio era parte di un patto familiare e sociale non scritto. La figlia-femmina imparava da piccola il suo ruolo. Subordinazione al maschio, remissività e soprattutto il concetto che il suo onore era legato alla verginità, di cui si faceva garante tutta la famiglia, che era onorata  nella misura in cui riusciva a difenderla e a garantirla sino al giorno del matrimonio. Il capo-famiglia l’avrebbe condotta all’altare consegnandola immacolata, così come natura l’aveva fatta, al futuro marito della figlia.

La perdita della verginità fuori dallo schema della ritualità sociale, secondo il modello antico-ed-accettato, era causa di disonore per tutta la famiglia.

La ragazza siciliana sa di aver sottoscritto sin dalla nascita un patto-silenzioso con il padre,  con la famiglia e con la gente a cui tutti devono dar conto, sa di essere parte di questa cultura, soggetto inscritto in un sistema metasociale, la giovane donna era perfettamente edotta che un nuovo eventuale patto siglato con un uomo che le chiedeva la “prova d’amore” entrava in collisione con le norme sancite dalla società e dalla famiglia. Ma, sa altresì che un rapporto sessuale prematrimoniale non è socialmente e moralmente grave se verrà coronato dal matrimonio.

La tragedia (bisogna chiamarla per nome) scattava solo se la donna perdeva la verginità, ancor più se diventava ragazza-madre, e l’amante promesso-sposo non onorava il patto-atto (implicito e presupposto) di sposarla. In questa malaugurata evenienza la ragazza diventava “sbirugnata” (svergognata), cioè persa, perduta, per se stessa e per il mondo, mentre il padre che non era riuscito a custodire il “prezioso bene” della figlia, fallito nel suo ruolo di pater familias, diventava disonorato.

Il ruolo della Gente

Al di sopra di tutti, l'occhio vigile della Gente - che nella cultura siciliana era a metà fra il coro della tragedia greca e il tribunale di inquisizione -  che si ergeva a giudice spietato e condannava i disonorati, i trasgressori delle norme (anche se il codice penale aveva un occhio di riguardo per per l'omicidio d'onore). Prima fra tutti la ragazza privata della verginità che nessun uomo avrebbe più sposato (prima sanzione), subito dopo il padre fallito nel suo ruolo, in quanto aveva dimostrato di non avere autorità, di non essere stato ascoltato (dalla figlia); infine la famiglia della ragazza che infettava il corpo sociale con il suo esempio.

La sanzione sociale era immediata, il disprezzo della gente assoluto, l’emarginazione della famiglia era il risultato di un anatema, oggetto di condanna e di maledizione.



Il recupero dell’onore

E tuttavia, in questa cultura arcaica giunta sino a noi dalla notte dei tempi, il recupero dell’onore era possibile. Bastava eliminare la causa prima, l’ultimo anello della catena, lo stupratore, l’infame, anche lui senza più onore. Come dire, muore l’animale, scompare il male. Dopo l’affronto, per il d-disanuratu non c’era più spazio in questa terra dell’onore, egli è un cadavere vivente, che aspetta di essere vurricatu, seppellito: “Iu manciu  pani, ma iddu a manćiari terra!” Questo è il pensiero e queste sono le parole della giovane donna che in Sicilia sarà costretta a uccidere l’amante per ragioni d’onore.

Difatti, l’affronto gravissimo, che in dialetto si diceva şgarru, poteva essere lavato solo col sangue, sciolto con la morte di chi aveva avuto la superbia - si diceva così - di violare le regole e di non mantenere la parola d’onore.

In questa “etica” siciliana era parimenti d-disanuratu anche colui o colei che avevano ricevuto lo sgarro e per timore non avevano provveduto a far rispettare il patto lavandolo nel sangue. In questo caso, il reo-vigliacco avrebbe subìto una terribile sanzione sociale: il disprezzo della collettività  e con esso la emarginazione dal gruppo

(Chiddu? e-ni omu di m-merda!).


Faida. La legge per riscattare l’onore perduto


La legge dell’onore era un aspetto della faida, di una arcaica legge naturale giunta sino ai giorni nostri dalla notte dei tempi, ancora valida sino a sessant'anni fa. La faida sanciva il ricorso alla vendetta personale per lavare l’onta subita. Il principio della faida è etologico. La specie umana, come quella animale, seleziona i migliori, i più forti. Ed elimina inesorabilmente i deboli, i vigliacchi. Chi subisce un affronto, chi ha subìto ’na tagghiatina ’i  facci senza reagire è verme, ed è immeritevole di appartenere a un gruppo di persone onorate che sanno difendersi e che nessuno può riprendere. Se l'uomo non ha la forza di far valere il suo diritto è un perdente, un vinto che non merita di appartenere alla onorata famiglia degli umani, cioè dei Siciliani.

L’etica dei Siciliani
   
    Da questa cultura dell’onore e del rispetto – tanto si evince dall’inchiesta della Harrison - discendeva l’etica familiare. Nella Sicilia di una volta il marito era il capo indiscusso della famiglia. Aveva potere sulla moglie che era obbligata ad e-seguire le sue (di lui) volontà. Impensabile era la trasgressione.

Ogni maschio si diceva uomo di rispetto se faceva rispettare le regole e si faceva rispettare da tutti, cioè se era ’ntisu (sentito, rispettato),  se la sua parola pacata aveva la connotazione di un ordine e i suoi “consigli” venivano eseguiti.

Dall’uomo d’onore discendeva la famiglia onorata che perciò veniva rispettata. L’ethos della famiglia era fondato su tre valori:

1.    Sul lavoro del capofamiglia e sul suo carisma
(capace di farsi ubbidire)

2.    Sulla fedeltà della moglie e sulla sua remissività.

3.    Sulla verginità delle figlie-femmine.

Sui tre principi sopra elencati si fonda la inchiesta di Lieta Harrison, che però appunta la sua attenzione sui comportamenti che la società siciliana adottava nei confronti delle “Svergognate”. La donna sedotta (e abbandonata) – si è detto - diventata per un sincronico rapporto di causa ed effetto una svergognata, e la qualifica era una sorta di condanna ad una morte bianca (vedi la novella Nedda di Giovanni Verga) decretata tacitamente dalla società (che si ritiene pura e incolpevole) nei confronti di colei che era stata segnata dalla malasorte.


Il recupero dell’onore


Per recuperare l’onore della giovane donna e della famiglia - qui è il punto centrale della inchiesta della Harrison - c’era la strada sacrificale. Un coltello da macellaio o un colpo di lupara sparato a bruciapelo, che colpendo il responsabile finale della catena del disonore, avrebbe invertito il corso delle cose. L’esecuzione di morte per essere piena e totale doveva essere fatta per mano della vittima, e solo in subordine dal padre o da un parente di primo grado della ragazza; e il sacrificio doveva avvenire davanti a tutti, sulla pubblica piazza e nel giorno Santo della Domenica.


La Sicilia non è più la stessa


A distanza di tempo, viene naturale chiedersi come è potuto cambiare il corso della storia in così poco tempo, ma, viene altresì da porsi qualche domanda. Se una cultura può essere schizofrenica come sembra essere stata la cultura siciliana del passato. Se nelle culture è possibile rilevare le angosce e le nevrosi di un popolo. E ancora, se quanto è riportato in questa tragica inchiesta di Lieta Harrison (intendi la cultura arcaica e tribale giunta a noi dalla notte dei tempi) continua ad essere tuttora operante in ognuno di noi. Nella realtà, la sessualità non è più un tabù per la donna e la società.

La donna si è emancipata. Ma gli uomini?  E la società?

Per il resto, e per continuare le riflessioni, si rimanda a Le Svergognate, la bellissima inchiesta di Lieta Harrison.    
    
Gino Carbonaro


e-mail: gino.carbonaro.italy@gmail.com

2013/02/18

Delitto d'onore in Sicilia


Ingabbiati dalla cultura

Delitto d’onore!

Storia dimenticata dei Siciliani di una volta

        Sino a qualche anno fa c’era nel popolo siciliano qualcosa  che probabilmente non si ritrovava in nessuna parte del mondo. Parliamo del concetto di onore.

        Due uomini parlavano, prendevano un accordo, si impegnavano sulla loro parola, ed era un patto che siglava un atto.
L'accordo era sigillato da una parola d’onore. Ed uomini d’onore erano quelli che si impegnavano a mantenere l’accordo.

Il patto d'onore

Il patto d’onore era indissolubile e poteva essere sciolto solo dalla morte. Non importava che l’accordo fosse commerciale, legale o illegale. L'accordo univa le due persone, le rendeva compari o complici, legati allo stesso destino nella indissolubilità di un patto che doveva essere rispettato. Tutto era compiuto all’insegna dell’assoluto, dell’immodificabile secondo una logica super-umana.
Era impensabile che il patto siglato da una stretta di mano e garantito da due persone d’onore non venisse onorato. Se ciò fosse accaduto, le conseguenze sarebbero state tragiche. E ciò era risaputo da tutti. Chi non manteneva l’impegno, agli occhi del Siciliano di qualche decennio fa, era un disonorato che non meritava di continuare a vivere su questa terra e pertanto doveva tornare là da dove era venuto. Seppellito. A mangiare terra (si diceva così!). L’affronto, gravissimo, che in dialetto si diceva "sgarru", poteva essere lavato solo col sangue, sciolto con la morte di chi aveva avuto la superficialità e l’arroganza  (ma si diceva superbia) di non mantenere la sacra parola dell’onore.
Parimenti veniva macchiato di disonore chi aveva ricevuto lo sgarbo, colui che era stato leso nella sua dignità di uomo, qualora non avesse provveduto a lavare nel sangue il terribile affronto. In questo caso avrebbe subìto una terribile sanzione sociale: il disprezzo della collettività  e con esso la emarginazione del gruppo (chiddu? eni omu di m-merda!).

Faida
La Legge dell’Onore era un aspetto della faida, di una arcaica legge naturale che sanciva il ricorso alla vendetta personale per lavare l’onta dell’affronto subito. Il principio della faida è etologico. La specie umana, come quella animale, seleziona i migliori, i più forti, ed elimina inesorabilmente i vigliacchi. Chi subisce un affronto, chi ha subito "’na tagghiatina ’i  facci" senza reagire è verme, e non merita di appartenere a un gruppo di persone onorate; e se non ha la forza di far valere il suo diritto, merita di non appartenere alla onorata famiglia dei siciliani. 

A ben vedere è la legge che regola gli appartenenti alla mafia. Ogni patto deve essere punto di riferimento assoluto, vita natural durante. Così per la punizione, che discende dallo sgarro e si potrebbe definire vendetta.
L’etica familiare dei Siciliani

        Da questa cultura dell’onore e del rispetto  discendeva l’etica delle famiglie. Nella Sicilia di una volta il marito era capo indiscusso della famiglia, aveva potere sulla moglie che era obbligata ad eseguire le sue volontà.
Ogni maschio è "uomo di rispetto" solo se si fa rispettare, ed è perciò "’ntisu",  cioè se la sua parola ha un suo peso specifico e viene ascoltata.
Chi gestisce l’immagine pubblica è il maschio. E' l'uomo che ha responsabilità sulla famiglia che, se vuole essere rispettata deve essere di riflesso "onorata". L’onore della famiglia è dato da tre cose fondamentali: dal lavoro del capofamiglia, dalla fedeltà della moglie e dalla verginità delle figlie femmine.
La moglie che tradisce il marito ha infranto una promessa fatta in chiesa davanti al sacerdote. Non ha mantenuto la parola data e di conseguenza rende "cornuto" il marito (affronto terribile!) disonorando la famiglia e il clan. Per il marito che ha subìto lo "sgarro" il dilemma non era "cornuto". Difatti, non offriva alternativa. La scelta? (si fa per dire!) Uccidere probabilmente in un giorno di festa o soltanto di domenica e sulla pubblica piazza, davanti a tutti, coram populo, in forma ufficiale e spettacolare, colui che gli aveva mancato di rispetto mettendogli la corona (corna o corona sono termini linguisticamente sinonimi). La stessa fine avrebbe potuto fare la moglie che solo nel migliore dei casi sarebbe stata arrestata, e dopo “equo processo” messa in carcere, colpevole di alto tradimento. Tanto prevedeva l'antico codice italiano.
Più grave era la situazione socio-familiare quando a subire violenza sessuale da parte di un uomo era una giovane donna. Tanto si verificava anche nel caso in cui un giovane fidanzato avesse preteso la “prova d’amore” prima del matrimonio, ma successivamente non avesse mantenuto la promessa di portarla all’altare. 

Ancora una volta, l’onta dell’offesa avrebbe coinvolto non solo la ragazza non più vergine, che perciò diventava svergognata, disonorata (si diceva "sbrugnata"), ma anche la famiglia estesa ai parenti collaterali, tutti disonorati per “simpatia” in seguito alla perdita della verginità della ragazza e all’atto violento. E tutti in attesa di recuperare l’onore. Anche in questo caso, per recuperare l’onore della famiglia la via era quella sacrificale.  Lavare nel sangue l’onta subita. Sola differenza era che in questo caso l’esecuzione di morte, per essere piena e totale, doveva essere fatta dalla ragazza che aveva subito l'affronto. Anche in questo caso il sacrificio doveva avvenire davanti a tutti. E la legge? La legge italiana, fino al 1 settembre 1975, prevedeva il delitto d’onore (e lo giustificava) facendo sì che la punizione del reo non superasse i due-tre anni di carcere. Ma si trattava di una "lex" che, paradossalmente poteva essere applicata solo in Sicilia (Regione a Statuto Speciale!). A riconoscimento delle sue arcaiche leggi.
E’ questa la cultura che regolava i comportamenti dei Siciliani sino o poco meno di quarant’anni fa. Tanto è documentato da un libro importantissimo, oggi dimenticato, forse rimosso, intitolato “Le svergognate”, pubblicato nel 1963, la cui autrice Lieta Harrison,  di padre americano e madre inglese è nata a Ragusa durante la seconda guerra mondiale.
Gino Carbonaro

gino.carbonaro.italy@gmail.com

2013/02/11

Raccomandazione in Italia


Ti rac-comando (di favorire) l’amico


La Raccomandazione?
Non esiste!
La Raccomandazione 
è una invenzione!


La più grande invenzione 
dopo la scoperta del fuoco
e della fionda!
  
    Come le vivande, esistono tante specie di raccomandazioni. Ci sono quelle “soft” che evocano il burro e la marmellata, e quelle “hard” che richiamano la carota e il bastone. Le prime hanno il tono mielato della preghiera. Sono quelle che la madre rivolge alla figlia che la sera esce con le amiche: “Giovanna, non fare tardi, mi raccomando”. E sanno di supplica le raccomandazioni che si ricevono in tempo di elezioni: “Si tratta di un amico, di grande disponibilità, non dice di no a nessuno, dobbiamo aiutarlo. Mi rac-comando”. Avvertimento che arriva alle orecchie di chi lo riceve, come mosca che a sorpresa plana in prossimità delle orecchie. Ed è vicinanza che disturba. Ed è ronzio che dà fastidio. Poi il dittero si allontana e di lui rimane solo la sgradevole memoria.   

  Alla seconda specie, appartengono le raccomandazioni hard, quelle vere, che innescano dinamiche forti e mettono in atto interessi legati alla sopravvivenza. Qui comanda la legge dei favoritismi.  “Se tu dai una cosa a me, io poi do una cosa a te”. 

   La ricerca della raccomandazione scatta immediata quando, bandito un concorso, si conosce la commissione esaminatrice. In quell’istante, i concorrenti si attivano con la solerzia delle formiche cui qualcuno ha messo sottosopra il formicaio. Scrutano l’orizzonte alla ricerca di ag-ganci  mentre attivano una catena di S. Antonio, ragnatela di favori che ricorda le strutture cellulari del cervello. Sinapsi che mettono in contatto cellule apparentemente lontane fra loro per trasmettere in tempo reale una nuova gamma di meriti e crediti. Per prima cosa bisogna trovare una autorità amica- degli-amici, che può parlare prudente e suadente al membro della commissione. La frase enunciata, “ti rac-comando”, ha la connotazione di un ordine. Favore attende favore. Sgarro si paga. Carota e bastone sono impliciti. E le leggi? ci si chiede. Sono simili alle “grida” di manzoniana memoria. Flatus vocis! Emissioni gassose del basso corporeo. Chi poi "vinceva un concorso (si fa per dire) con la raccomandazione, si vantava, anche, e fiero del suo indiretto potere esclamava: "Io trasìi co' cauçi. Ca pirata ro viscuvu pigghiai u puostu".    
     
     Era fondata su questi principi la società di una volta che, anziché selezionare meritevoli e qualificati impiegati, mirava a favorire clienti e raccomandati.

    Se la raccomandazione, come elemento culturale perverso non viene considerata atto mafioso, la logica è la stessa. Lo scopo è quello di favorire masse di privi-legiati, soggetti “privi legis” (privi di legge, al di sopra delle leggi) l’etimo aiuta) persone che non riconoscono la legge e la deprivano di senso e funzione. 

Ed è per questo, che nei servizi sociali ci si imbatte in persone che non sono funzionali al posto di lavoro e al servizio erogato. Il concorso è falsato? La società non cresce. La struttura sociale è quella del carciofo. Chiusa in se stessa.    

     I Borboni di Napoli che dicevano di essere  ligi alla forma e alla legge, squittivano: “La raccomandazione non esiste! La raccomandazione è una invenzione!” Certamente.. la più grande invenzione dopo la scoperta del fuoco e della fionda

                                            Gino Carbonaro




2013/02/05

Belgiorno Guardiani di Nuvole


Fra microstoria e poesia

 
Franco Antonio Belgiorno


I guardiani di nuvole
 
di Gino Carbonaro

Sosteneva uno scrittore del passato che il primo giudizio critico è quello del tipografo, perché è lì fra linotype e tavolo di composizione, che viene fatta in silenzio la prima diagnosi di un autore e di un’opera. È il tipografo – continuava lo scrit­tore – che valuta “a naso” l’opera e ne misu­ra la validità, con un giudizio professionale e disinteressato.

    Ho ripensato a questo autore, quando ho saputo che Roberto Cannata, Calogero Lo Sello e Pietro Ottimo, titolari de “La Grafi­ca”, la nota tipografia modicana, qualche anno fa hanno voluto fare un omaggio all’amico scrittore Franco Antonio Belgior­no, pubblicando in edizione fuori commer­
cio "I guardiani di nuvole", un libretto di una quarantina di pagine, contenente tren­tadue ricordi di personaggi modicani, ora scomparsi, che appartengono alla giovinez­za dello scrittore, e sarebbero stati dimenti­cati, se Belgiorno non li avesse fissati nel ricordo di pagine di splendida poesia.

    Sotto il profilo letterario, "I guardiani di nuvo­le" sono schede commemorative, che lo scrittore dedica alla memoria di personaggi umili, per l’importanza che gli stessi rivesto­no nella memoria dell’autore e per l’immaginario collettivo dei modicani, ai quali questi personaggi appartengono.
  Idealmente, "I guardiani di nuvole! richia­mano alla memoria le epigrafi della Antolo­gia Palatina, la storica silloge di epigrammi greco-­alessandrini, che fissano in estrema sintesi e bellezza il ricordo di persone segnate dalla sorte e dalla morte; e fanno pensare ancora alla Antologia di Spoon River (che alla Antologia Palatina si ispira, oltre che per il contenuto dell’opera, anche per il titolo).
    "I guardiani di nuvole", come i personaggi di Edgar Lee Master, sono vissuti ai confini della società, in una sorta di limbo sociale, senza far male a nessuno, semmai riceven­done, e cercando di essere accettati dagli altri.
  "I guardiani di nuvole" sono i paria della società, gli emarginati, come Neli Scaccia e Vanni u piecuru, gli alienati come U Cavaleri Poidomani, figure semplici e sorridenti, come «Angiledda, profumata e bella come i fiori di capperi, che andava raccogliendo lungo le lenze di Cartellone»; creature che sembrano appartenere a un mondo altro, dimenticate da Dio e dagli uomini.
     Sono questi i personaggi ai quali Belgiorno rivolge la sua attenzione, quelli che invita al suo cenacolo letterario, per gustare ancora il sapore delle cose autentiche, perché solo dove c’è povertà c’è semplicità e non trovi la alienazione che provoca la ricchezza e il benessere.
    Così, rivedi Vannìnu re sponzi scendere nei pome­riggi estivi con una cesta piena di mazzetti di gelso­mino, che avrebbe vendu­to ai signori seduti al Cir­colo Unione o al Caffè Orientale: questo è il lavo­ro che si era inventato Vanninu per racimolare qual­che lira, per sentirsi parte dell’insieme, e dare un valore alla sua giornata, un significato alla sua vita. «Ora – scrive Belgiorno – è anche lui uno stelo di fiore, una memoria del tempo perduto, un vascel­lo che scivola nel mare del nulla, e si lascia dietro la scia ineguagliabile del suo carico profumato».
    Immagini che si dissolvono, parole che suo­nano musica consegnata al vento, che si fa carico di trasportarla sulle nuvole, dove Van­ninu raccoglie ancora gelsomini per profu­mare gli altari del Paradiso «col suo odoroso groviglio di bianco».
    Ne "I Guardiani di nuvole", vengono rievo­cate queste presenze-­assenze, figure alle quali Belgiorno restituisce una dignità che percepisci superumana; personaggi unti dal Signore, ma segnati dalla sorte, che come fiori di campo hanno lasciato una debole, ma dolce e intensa traccia del loro passaggio su questa terra.
    Così, Luiggìnu l’uoviru (il cieco) che batte il tamburo facendosi guidare per mano da un bambi­no, fa il banditore per guadagnarsi la vita: «Ora imbonisce in Paradiso e dà la sveglia alle nuvole, chiama a raccolta i paesi aerei, quando è ora di ornarli con le trine degli arco­baleni, e in quei borghi assolati, in quei vil­laggi dove i ciechi sono tutti vedenti, non ha bisogno di chi lo conduca per mano. Sta bat­tendo che tutto va bene, ta­pum, che la città è felice, ta­pum; che la gente ha finalmente scoperto la giustizia e l’amore, ta­pum. Sta sognando nella sua pacifica morte». Ed è poesia eletta, e della più fine, quella che abbiamo appena riportato.
    E Pietru c’ô frischiettu, che per poche lire, suonava ad orecchio, con meraviglia di tutti, qualsiasi motivo, «fosse il Concerto n° 3 per violino di Mozart o la Quinta di Beethoven, non avrebbe sbagliato una nota».
    E il signor Di Rosa, che «per un modesto obolo offriva schedine della Sisal» che pre­parava di notte «in una foresta di uno, ics, due... perduto nell’ossessione di far ricchi i suoi simili». Lo vedevi apparire da lontano, alto, allampanato, «gongolante e pacifico», sventolando le schedine, passando da un marciapiede all’altro alla ricerca di clienti, e quando ti arrivava vicino gli sentivi sussurra­re sottovoce: «Milioni, milioni!». Poi, d’un trat­to non si vide più: si disse che era morto.
    Di questi personaggi, l’autore non dimentica nessuno, e ricorda Matteu, che tutte le mattine raccoglieva i «sacchetti con i fondi del caffè per le brodaglie che davano all’ospizio». Figure di un mondo dove tutti avevano un ruolo preciso e cercavano di inventarsi un mestiere per vivere.
    Ora, sono tutti dissolti nella nebbia, dileguati come ombre, «perché anche di ombre è fatta la vita, e di titoli e blasoni non è mai risorto un ricordo che si accompagnasse alla purezza e alla innocenza della povertà». Figure immense, simboli, che diventano eterni, ora che l’autore li ha trasportati nell’iperuranio della sua fantasia, nell’Eden dei ricordi. Ed è mestizia dell’anima, ed è dolore, quello che trasmette questa poesia, dal tono flebile, che canta sottovoce le cose che vanno
via, «perché la vita macina la memoria e la porta al macero della gloria».

    Sembra un bouquet, questo libretto, o anche un concerto di musiche giocate sui toni minori del blues, che cantano elegiaca­mente la vita.
    E c’è ancora Zuddu, che se n’è andato per sempre dai Ponti di Pulera, «... e ora sta sedu­to in un cupo silenzio sulla soglia del suo tugurio, nel fresco della sera che profuma di garofani e menta, in mezzo al volo basso di miriadi di rondini, dimenticato da Dio, come un pacchetto d’uomo che nessuno viene a ritirare». E siamo al tema centrale della medi­tazione poetica di Belgiorno: al senso della “dipartita” e della “assenza”, della esisten­ziale separazione della parte dal tutto, della spartenza e della solitudine, da lui sentita come massimo dei mali, forma di lacerazio­ne dell’io, che lo scrittore vive come evento fatale e tragico della vita; e sono temi cen­trali della tradizione poetica siciliana.
    Solitudine, spartenza, dimenticanza sono il leitmotiv che accompagna la produzione poetica di Belgiorno; temi che, a volte, si rifu­giano nello sfondo e sembrano attenuarsi, ma che ricompaiono all’improvviso per mate­rializzarsi nel grido della “di­-speranza”, o della speranza perduta, che nutre l’angoscia dell’esistere; elementi che assu­mono una valenza tragica. Ed è la prova che tutti sono andati via, tutti sono scomparsi e ci hanno lasciati, qui nel deserto della solitu­dine! Così, Angiledda, che «si perse dentro a un tramonto e portò via la nostra infanzia»; Donna Cuncittina, che «si spense nel sonno, e forse sognò i gradini del cielo mentre li sali­va uno per uno»; ed è andata via anche Rosetta Di Rosa, la dolcissima, che scomparve in un giorno, con la famiglia, cacciata via dalla miseria.
    Spartenza, solitudine, dimenticanza sono temi classici, ontologici dell’esistenzialismo poetico di Franco Antonio Belgiorno, che si prefigge ora un’impresa impossibile, quella di trattenere al di qua del «limitare di Dite» e della dimenticanza, che è forma di morte, quei personaggi che hanno nutrito la sua giovinezza, «perché la vita non può arrendersi alla falce della morte». Ed è questo che fa la misura e la grandezza della poesia di Bel­giorno.
    E siamo al “Tempo”, altra categoria dell’esistere, che è il vero protagonista dell’opera di Belgiorno. Il Tempo che è signore e padrone delle cose, il Saturno Kronos, che divora le sue creature; il Tempo che dà e ruba gli affetti, le albe, i tramonti, le bellezze, la vita, «il tempo che ci fa orfani di affetti, ... il tempo che incendia il passato ... anche le briciole di vita, che si racimolano alla luce del sole di casa»: il tempo che bloc­ca ogni cosa, ed è per questo, che ... «l’angolo del vicolo dove scompare don Tanuzzu è ancora senza lampadina».
    Tempo crudele, che paradossalmente ama le sue creature e «incorona i fichidindia di giallo e di rosso, e tinge gli ulivi d’argento, come se la polvere... del tempo... fosse caduta sulle loro foglie».
    Ma sulla solitudine degli esistenti e come forma di reazione all’oblio, si erge il canto del poeta, mentre la voce della poesia si fa memoria: custode dei ricordi e del tempo perduto. È così che l’amarezza del pessimi­smo si stempera e si addolcisce nel farsi poesia, e il poeta, che è lirico, si fa poeta epi­co, in quanto interprete dei sentimenti di tut­ti. Ultimo degli aedi di greca memoria, Fran­co Antonio Belgiorno, dall’alto della sua splendida casa di Cartellone, canta sulla cetra dei ricordi, l’immagine di Modica, ora pietrificata nell’afa estiva, ora addormentata avendo preso per cuscino una collina, ora «come ombra che salda i frammenti della sua sostanza sulle pietre e sul cielo», e materna ne custodisce anch’essa le memo­rie della vita. Ed è poeta vero, Belgiorno, che usa le parole come fossero note, con le quali evoca musica, echi, suggestioni, e quindi consonanze di amore per questi fra­telli minori della grande e incomprensibile storia degli umani. E sono belle le cose che scrive, i personaggi che descrive, le suggestioni che trasmette, che emanano un’energia e una verità che è vita, soffio vita­le, che è spirito, onda che ti porta e ti traspor­ta: ed è microstoria che ti fa pensare, ma soprattutto poesia che ti fa sognare e ti fa interrogare sul mistero della vita, sulla bel­lezza delle piccole­grandi cose che muoio­no e vengono salvate dal ricordo. Ed è bello quando la scrittura trasforma in simboli, i per­sonaggi di tutti i giorni, poggiando il discorso anche sulla filosofia dell’esistere, che il let­tore non manca di cogliere fra le righe di que­ste pagine stupende.

                                               Gino Carbonaro