2011/07/27

Franco Ciccio Belgiorno



Ricordi di infanzia  

                                                                di Gino Carbonaro



                         

                                                           Ciccio Belgiorno a 17 anni
la foto è stata scattata da 
Gino Carbonaro nel 1956


 



















Ho conosciuto Franco Antonio Belgiorno (Ciccio per gli amici) nel 1949. Avevamo entrambi dieci anni, o poco meno. Chi me lo ha indicato fu un compagno di giochi il quale, in un siciliano aulico mi disse: "U sai, dda ssupra ci abbìta 'n-picciuottu che rici ca ha b-bistu i marziani, e ddici ca ha n-cavaddu biancu, e ddi notti vola e ssi nni va supra a criesia ri san-Giorgiu. Ma, a-ssiri pazzu! E-ni marmanicu”. Per qualche tempo pensai a "questo" ragazzo che non avevo mai visto, il quale raccontava cose strane, di avere visto i marziani e di volare su un cavallo bianco. Qualche giorno dopo incontrai di nuovo colui che mi aveva parlato di Ciccio (perché di Ciccio Belgiorno, parlava) e gli chiesi di indicarmelo quando l'avesse visto. Io ero con le spalle girate al Teatro Garibaldi e, il ragazzo mi fa :"Gìriti, u viri unn’è!” Vedi dov'è. Io mi giro e vedo questo spilungone, magrissimo, allampanato, con i pantaloni corti fino al ginocchio. Gli vado incontro per parlagli. Diventammo amici. Mi disse che abitava con la nonna Giorgia e la zia Alba sulla collina. MI disse ancora che sua padre era "direttore" dell'aeroporto di Comiso, ma era anche giornalista e scrittore, e l'anno successivo lui sarebbe venuto a Modica per frequentare la Scuola Media. Sì, diventammo amici. E lui prese l'abitudine di venire a casa mia la mattina. E andavamo insieme a scuola. E un giorno mi disse che da grande voleva fare il giornalista e lo scrittore.  

Un segno, che sa di precognizione 

Ciccio Belgiorno andava a scuola solo perché tutti andavano a scuola o perché qualcuno glielo aveva mandato. Ma, tranne il francese e il disegno e l’italiano, non lo interessava quasi nulla della scuola. I suoi interessi erano altri: leggere libri, scrivere e parlare, raccontare fatti, essere al centro dell'attenzione. Lentamente, cominciò a portarmi i suoi primi 
racconti(-ni). Tutti i pomeriggi ne scriveva uno e arrivava correndo sulla scala di casa mia per farmelo leggere. Fu allora che dalla lettura di uno di questi racconti immaginai che Ciccio, forse, un giorno avrebbe potuto diventare uno scrittore. Chissà! E lui, Ciccio, all’epoca non aveva ancora undici anni. 

In un racconto di una paginetta che mi consegnò strappata malamente dal quaderno (ricordo come fosse adesso) scriveva: "La giornata di quella estate era afosa. Gli uomini erano sporchi e sudati. L'acqua non riusciva a dissetarli. Il caldo li aveva buttati fuori dalle case, ma... in una fetta d'ombra una colonna di formiche era occupata a trasportare... ecc". 

Mi colpì il “caldo” che “buttava” fuori la gente dalle case. Un caldo “personificato” e soprattutto quella "fetta d'ombra nella quale procedeva l’esercito mirmidone". In verità, fu sorpresa per me l’essermi accorto che l'ombra si potesse affettare. Ma, era vero! L'ombra esiste con una sua forma. E per Ciccio, che aveva finito di mangiare una fetta di anguria, l'ombra si poteva affettare. Fissai quel concetto per non dimenticarlo, anche per capire se veramente Ciccio sarebbe diventato uno scrittore.    
Da quel momento fissai bene il concetto: Ciccio aveva una vera grande passione, quella di scrivere, de-scrivere, raccontare, ri-creare atmosfere, sensazioni, e fare teatro.     
Godere della scrittura per lui era tutto. 
   
L'anno successivo, altra sorpresa. Ciccio aveva scoperto un libro (il suo primo libro di letture) che sarà fondamentale per la sua formazione artistica. Il libro era il "Cyrano de Bérgerac" di Rostand, famosa opera teatrale portata in scena nel 1897, e oggi considerata un capolavoro della letteratura francese.     

La storia narra di Cyrano, estroso poeta estemporaneo dal naso lunghissimo, uomo di teatro e abile spadaccino, dalla lingua anch’essa affilata che usava come una spada. Poeta squattrinato che amava i giochi di parole con le quali metteva in ridicolo i suoi nemici e declamava poesie per incantare la donna amata. Insomma un personaggio, si direbbe oggi.   

Innamoratosi del testo, Ciccio imparò a memoria passi dell’opera di Rostand, soprattutto le poesie, e lentamente in una sorta di transfer assunse il ruolo di Cyrano anche nel suo comportamento. Diventò più sicuro, cercando di sfidare gli uditori con battute di effetto, per essere al centro dell’attenzione. 

Pian piano, il Corso Umberto diventa per lui, novello Don Chisciotte, il palcoscenico di un teatro del quale lui era lo scrittore, il protagonista, l’eroe, il cantastorie, il tutto.   
    
Dopo un anno la scoperta de "Il barone di Munchhausen", altro romanzo fantastico, altro personaggio contafavole, che raccontava di essere andato sulla luna, e diceva delle sue pustolette che non erano vulcani. Il Barone di Munchhausen era quello che aveva girato il mondo a cavallo di una palla di cannone lanciata, e alla fine caduto nelle sabbie mobili, si era salvato tirandosi su per i capelli. 

Siamo davanti a un “cavalier Poidomani” ante litteram. Colui che avrebbe potuto distruggere Modica con la sua “bomba atomica alla ricotta salata”. (Vedi → I guardiani delle nuvole”) Ciccio resta incantato da questi affabulatori, da questi cantastorie alla Ciccio Busacca che lascia gli ascoltatori a bocca aperta.  
   Questo secondo transfer era facile per lui che a nove anni raccontava di aver cavalcato l’Ippogrifo alato, ma è chiaro che finzione, invenzione, scrittura, teatro, immaginazione, sogno, fuga dalla realtà, per lui erano un tutt’uno. 

Nel secondo romanzo letto, e scoperto non si sa come da lui, aveva nutrito se stesso di quello di cui aveva bisogno per vivere. Immaginare mondi altri, diversi. Superare il mondo della realtà per andare altrove, non importa dove, pur di vivere il non consueto, l'incredibile di un mondo sconosciuto, per poi rientrare nella realtà e scoprire, sempre da solo, lo scrittore americano William Saroyan di cui apprezzava la semplicità della scrittura, che fondeva realtà, sentimento e sogno. 


    Anche qui un innamoramento e una passione. Poi fu il momento di John Steinbeck. "Uomimi e topi", lo lesse in qualche pomeriggio. 

Subito dopo scopre i “Quarantanove racconti” di Ernest Hemingway. Hemingway, già premio Nobel (1954) fu per lui il modello di scrittore-giornalista che sognava di diventare. 



                                      


Gino Carbonaro e Ciccio Belgiorno 


1956


Intanto avevamo sedici anni. Io riuscii ad andare da solo a Parigi e da lì tornai con un libro di poesie di Jacques Prévert. Glielo prestai (me lo ha restituito dopo una quarantina d'anni). 

Ciccio aveva una grandissima predisposizione per le lingue e non trovò difficoltà nel divorarlo, farlo suo, portarselo a letto, imparare versi a memoria, fantasticare, mentre scoprivamo che "Les feuilles mortes" la classica composizione di Kosma, aveva un testo (poesia) di Jacques Prévert. Così, io suonavo la fisarmonica e lui cantava. Cominciò da qui il suo primo esperimento di canto, mentre cominciava a comporre poesie che mi portava perché glieli mettessi in musica. In realtà giocavamo. Non sapevamo di scherzare col fuoco che può scottare l'animo, la mente, e fare cultura. Poi Ciccio si dedicò al teatro con Marcello Perracchio, mentre io andavo all'Università ma, restammo in contatto, tant'è che quando incontrai Claire, mia moglie a Roma, lui, Ciccio, venne a stare con me per una settimana, e fu il primo a conoscere Claire. Intanto suo padre, Franco Libero Belgiorno, aveva messo su "Il mattino di Modica" e Ciccio comincia il rodaggio scrittorio proprio nel giornale di famiglia. 

    Nel 1969 conosce Brigitte, tedesca di Wiesbaden. Lo stesso  anno la raggiunge in Germania per sposarla. In Germania vivrà un trentennio, sempre curando la scrittura e tenendo contatti con "La Voce di Modica", prima,  e poi con "Il giornale di Scicli", e il “Corriere d’Italia” continuando a leggere autori che lo avevano colpito. Fra questi "Il sorriso dell'ignoto marinaio" di Vincenzo Consolo, "Cento anni di solitudine" di Garçia Marquez, Kafka, Italo Calvino, Pablo Neruda, Garçia Lorca, quindi James Joyes dei Dubliners che gli ricordavano Modica, per fermarsi infine al suo amato Fernando Antonio Pessoa, portoghese (1888/1935). Con Pessoa il rapporto è diverso. Pessoa è, di tutti gli scrittori, quello che lui sente più vicino. Non è un caso che entrambi si chiamano “Antonio” come secondo nome, che entrambi hanno trascorso metà della loro vita all’estero (Pessoa in Sud-Africa, Belgiorno in Germania), e non ultima affinità, sono nati entrambi il 13 di giugno. Ma certamente, le affinità elettive sono dovute al modo di trattare il racconto. In Pessoa il racconto scivola nel solipsismo, mentre Belgiorno consegna i fatti alla memoria. 

    In tutte queste letture, non senti la presenza di Raffaele Poidomani, che lesse dopo il 1975, quando io gli feci dono di una copia di Carrube e Cavalieri. Lesse in ritardo Poidomani, anche lui scrittore-giornalista, che fra l'altro era amico di suo padre. Però, quella lettura gli fissò qualcosa nel suo interno, se è vero che molti dei suoi racconti giovanili terranno presente il modello dello scrittore modicano. 

   Quello che qui si vuole rilevare, è che i referenti culturali di Franco Antonio Belgiorno, appartengono a un areale europeo e mondiale (non necessariamente tedesco o mittel-europeo), e nemmeno locale. 

    Sradicato dalla sua amata Modica e dal suo Corso Umberto dove era conosciuto da tutti come personaggio originale ed estroso, Ciccio soffrì molto il suo vivere in mezzo a un popolo che considerò diverso da quello italiano, con usi, abitudini, costumi, cultura diversa dalla nostra, e che di necessità mortificava la sua personalità, rendendolo insofferente. Non accettò mai la mancanza di sole, soffriva per quel cielo quasi sempre color piombo.  

    Ciccio è era nato nell'anno della lepre (pesci, segno doppio) e nel mese di giugno (gemelli, segno doppio) con un ascendente (bilancia, sempre di segno doppio). Fu sempre con due anime nei confronti di molti e di molte cose. 

Rapporto ambivalente ebbe con Modica e con i modicani, con la Germania e i tedeschi, malgrado amasse teneramente la sua Brigitte. E rapporti ambivalenti ebbe anche con gli amici. 
     Nel risvolto di copertina del libro “L’arca sicula”, Edizioni “Il Giornale di Scicli”, trovi scritto “Franco Antonio Belgiorno è nato a Siracusa nel 1939. Ha vissuto la sua gioninezza a Modica, città si suo padre”. Questo scriveva, ma a Modica, “città di suo padre, quindi “non sua”, ha dato tutto se stesso diventando il custode della memoria, un sacerdote di quanto di sacro possiede questa città che in realtà lui amava senza misura.    

Ma, fu proprio la lontananza dalla sua terra a determinare in lui quella carica di profonda nostalgia, che ovattò tutti i suoi racconti, trasformando la realtà vera in realtà sognata, trasportata in una atmosfera che è quasi sempre un iperuraneo surreale. 

A me viene da dire che la sua prosa è gouache, pensiero, poesia, musica, storia, danza. Tutto.
  
   In comune con Raffaele Poidomani? "La epicizzazione della Provincia" (Peppe Pitrolo). Le differenze? Sono i referenti letterari. Poidomani parte da "Le anime morte" di Gogol, e usa sarcasmo e  satira. Belgiorno, è nostalgico, i suoi referenti culturali sono molti, e hanno un respiro più largo, si è detto. 


                                                 Gino Carbonaro