2020/12/12

NELL' ALDILA' CON FRANCO CILIA COMMENTO DI GIUSEPPINA PAVONE

 

Nell'Aldilà con Franco Cilia
di Gino Carbonaro

Il saggio può essere idealmente diviso in due parti:
la prima, con un evidente carattere di ‘divertissement’,
descrive la morte immaginaria dell’amico Franco Cilia
(pittore, scultore, scrittore, poeta, affabulatore, declamatore e seduttore), con il quale l’Autore instaura un dialogo tramite e-mail … siderei, quindi tra l’aldilà e l’al di qua, aventi per oggetto
sia l’estremo sgomento che tale perdita ha suscitato nell’ambiente, sia quei germogli di riflessione sul modus vivendi dell’Artista prima del … trapasso, ma anche dei suoi aneliti verso dimensioni ‘altre’ (terrene e spirituali) che lo proiettano verso mete agognate da sempre (degna di nota l’espressione “la mia grande aspirazione è stata quella di inzuppare nella vita il biscotto della libertà”); la ‘leggerezza’ della forma (definibile come “andamento allegretto, ma non troppo” …), sostenuta da un significativo livello di pensiero divergente, apre un mondo nuovo e alternativo, la lettura cattura chi legge, trascinandolo in un vortice apparentemente delirante di assurdità che alla fine appaiono … logiche!

Ed è partendo da questo presupposto che prende corpo la seconda parte del lavoro, là dove l’Autore, con un andamento questa volta “maestoso con moto”, fino al … “vibrato forte”, si propone un arduo obiettivo: sollevare importanti questioni esistenziali, chiedersi quei ‘perché’ della vita che da sempre attanagliano l’animo degli esseri umani sulla Terra e ai quali è difficile dare risposte anche lontanamente soddisfacenti. Così, si parla di Dio, di Vita e di Morte, di Memoria, di Ricordo e di Consolazione, di Finitudine e di Infinito, di Certezze e Sicurezza, ma si riflette anche sulle ‘Verità che vengono dall’Aldilà’ e che sulla Terra cadenzano la vita di ogni individuo (giustizia, libertà, legge, morale, felicità, bellezza, arte, guerra …) per ricondurre il discorso sull’Infinito e su Dio (coincidenza degli opposti!), tutti temi affrontati dall’Autore con fine animo da filosofo.

Il messaggio di questa trattazione, imponente e importante, si sviluppa sempre sul piano della leggerezza e della fluidità dello stile, ma proposto quasi come ‘ricerca di senso’, la cui proiezione nel tempo richiama alla mente il testo di Illica-Giacosa della Madame Butterfly di G. Puccini, allorché la protagonista, pur nel pieno del suo dramma relazionale (e, in fondo, esistenziale), nel celebre brano ‘Un bel dì vedremo’ …, palesa, anche lei con un tentativo di levità ("un po’ per celia, un po’ per non morir” …), gli aneliti in quel momento vitali della sua anima: fiducia, speranza, attesa…della Verità.

© Giuseppina Pavone
L'immagine può contenere: il seguente testo "Riflessioni sul libro di GINO CARBONARO NELL'ALDILÀ CON FRANCO CILIA"
vallo e a











     © Saggio di Giuseppina Pavone

2020/11/22

CAMERA OBSCURA Camera oscura

  

Camera obscura


   di Gino Carbonaro


La camera oscura, che ho più volte ricordato, era il polmone dello studio fotografico di quel tempo, così come la cucina è tuttora il cuore di un Ristorante. Era lì, al buio che si realizzava la maggior parte del lavoro.

    

  Da noi, di camere oscure ce n’erano due. La prima, la più antica, era quella dove lavoravano i miei genitori, l’altra dove lavoravano i collaboratori di mio padre e in seguito io. Era una stanzetta di una decina di metri quadrati, priva di finestre, idealmente divisa in quattro parti, dove, entrando, a sinistra c’erano gli scaffali sui quali stavano in bella vista le riserve di carta fotografica per lavorare. C’erano tutti i formati, e tutte le gradazioni di carta fotografica.

·  Formato 4x6 cm. per le tessere  d’identità;

·  6x9 per le foto-ricordo di fidanzati e mezzo-busto da conservare nel portafogli;

·  10x15 “formato cartolina”, era detto, formato classico, per foto di persone all’impiedi, o piccoli gruppi;

·   

·  il 13x18, era il formato che rispettava la sezione aurea del raggio, e a me piaceva molto;

·  il 18x24, formato quadrotto;

·  il 24x30, il 30x40, il 40x50, il 50x70 e, subito dopo, appoggiati al muro erano posti i rotoli di carta fotografica per gigantografie.


  Questa non indifferente riserva di carta o cartoncino fotografico sensibile, era ancora suddivisa in gradazioni: Morbido (M), Normale (N), Vigoroso (V), Extra Vigoroso (EV), divisioni che servivano a compensare morbidezza o contrasto dei negativi. Se il negativo era morbido, si usava la carta vigorosa, e, viceversa, se il negativo era contrastato si usava la carta morbida. I quattro pacchi di carta prescelti si aprivano solo quando si spegneva la luce bianca e si accendeva la luce rosso-scura. Il foglio di carta fotografica, si sa, era coperto da un supporto di bromuro d’argento sensibile alla luce, e se un foglio di carta fotografica fosse stato lasciato alla luce bianca di una lampada o alla luce del sole, il foglio si sarebbe annerito in pochi minuti. Ovviamente, solo dalla parte sensibile.

 

Accanto a questi ripiani c’era l’archivio dei negativi e del lavoro già fatto, solitamente non in ordine, e qui finiva la parete sulla quale era poggiato anche un piccolo tavolo.

 

  Frontalmente c’erano tre potenti ingranditori, il “Lupo”, il “Siluro” e il Durst, adibiti a funzioni diverse. Due per ingrandimenti e gigantografie, uno per i dilettanti.

 

   Sulla parete di destra c’era la zona-lavoro. Prima a sinistra, c’era la stampante, costruita da mio padre artigianalmente, con la quale si svolgeva il 100% del lavoro di studio. In questa, si stampava bianco-nero solo per contatto “negativo-e-carta-fotografica” poggiati insieme su un vetro smerigliato sotto il quale si trovava una forte lampada che veniva accesa alla bisogna premendo un bottoncino. Subito accanto alla stampante c’era un ripiano di cemento su cui era poggiata la prima bacinella, quella dello sviluppo, dove si immergevano le foto appena stampate. Sulla bacinella dello sviluppo si trovava una pietosa plafoniera che emetteva tanta luce rossa da consentire all’operatore (o all’operatrice) di seguire il lento venir fuori delle immagini. Ed era processo che bisognava seguire con molta attenzione, e tirar fuori alla svelta la foto, quando l’immagine aveva raggiunto il livello ottimale di contrasto, per passarla ancora a destra in altra vaschetta sulla quale scorreva acqua corrente. Il lavaggio era indispensabile prima di passare la fotografia dallo sviluppo alla bacinella dove si trovava il fissaggio, sostanzialmente acqua dove erano sciolti reagenti (iposolfito di sodio, metabisolfito di potassio, e altri sali ancora) che bloccavano/fissavano per sempre la immagine della foto, che altrimenti avrebbe continuato a venir fuori senza fermarsi, sino a diventare nera.

 

    Io che sin da piccolo ho aiutato i miei genitori, avevo il compito di togliere le foto dal fissaggio, immergerle e lavarle molto bene in acqua corrente per eliminare totalmente i sali dalla superficie della fotografia. Dopo averle lavate, le riprendevo, e le appendevo con dei ganci, una ad una, a una cordicella per farle asciugare, come si fa con i panni appesi al sole. Una volta asciutte, le riprendevo, le rimettevo per categoria, le ritagliavo con una frastagliatrice…

 

FOTO n. 56

 

Frastagliatrice

 

… e le riponevo dentro le buste, pronte per essere consegnate al cliente.

 

    Come è possibile vedere, il mio lavoro era apparentemente secondario, anche perché si svolgeva alla luce del sole, ma rubava molto tempo allo studio.

 

   Da un punto di vista didattico era un intervento perfetto, perché io, bambino, davo il mio contributo partendo dalle cose più facili da fare, dalla periferia, per poi essere cooptato gradatamente verso le operazioni più complesse e centrali.


  La crescita nell’apprendimento del mestiere avvenne per me quando mio padre mi volle accanto a lui nella camera oscura e mi diede la pinza per gestire le fotografie che, appena stampate, venivano inserite nello sviluppo, per essere poi passate nel fissaggio. Ricordo benissimo. Mi sentii importante.  E, importante ancora mi sono sentito quando mio padre mi diede il carico di preparare gli sviluppi e i fissaggi per i negativi, e per la carta fotografica. Così, quando era necessario, prendevo il bilancino, avvicinavo a me tutti i prodotti chimici, li pesavo, li mettevo uno alla volta in un boccale, versavo acqua q.b. mescolavo fino a quando i prodotti chimici si scioglievano, e lasciavo poi tutto fermo per una notte, per far decantare le soluzioni. Il giorno dopo, prendevo un imbuto ponevo un fazzoletto sull’imbuto, e versavo il soluto in recipienti di vetro. Mio padre non si lamentò mai di nulla. Come dire che il mio lavoro di bambino era in regola. Comunque, non avremmo detto tutto, se dimenticassimo di ricordare che i veri protagonisti della “camera obscura” erano le due lampade rosse, di un rosso scuro, quasi invisibili, piazzate in due punti diversi della stanzetta  assieme a  una  lampada  che restava sempre accesa. Le due lampade rosse rendevano possibile vedere anche al buio, solo quando, dopo qualche minuto, gli occhi si abituavano a quella luce rossa, ma molto scura, che serviva a proteggere negativi e carte fotografiche che venivano definite “ortocromatiche”, sempre riferito alle emulsioni fotografiche sensibili a quasi tutte le bande dello spettro visibile, fatta eccezione per il rosso. A me, ricordo, piaceva definire daltonico il bromuro d’argento, che non era disturbato dalla luce rossa. “Pancromatiche”, invece, erano definite tutte le pellicole che sarebbero state disturbate da tutti i colori, anche dal rosso. Per questi negativi era d’obbligo lavorare quasi completamente al buio con l’ausilio di una quasi invisibile luce verde, ma sempre molto scura.


    Quando la luce era accesa, va detto, su un tratto di parete libera era posta in evidenza una stampa della Madonna delle Milizie a cavallo che, spada in mano, sbaraglia i Turchi che avevano occupato la Sicilia. Era un modo per ricordare in icona la  Madonna protettrice di Scicli e una pagina di storia passata.    

 

FOTO n. 59

 

Macchina fotografic scatola

Formato 6x9

 

FOTO n. 60

 

 

COMET Formato 4x6

Negli anni ’50 costava 3500 Lire

Era la macchina più venduta ai Dilettanti. 

                   Adesso immaginiamo di poter entrare insieme in una camera oscura, dove due persone stanno lavorando. Si chiede permesso. Si apre con cautela la porticina d’ingresso. Si sposta una tenda nera. Si evita di fare entrare luce dall’esterno. Si entra. E voilà. La prima impressione non è quella visiva, del buio totale o quasi che ti costringe a camminare alla cieca, ma l’odore acre di bromuri e sali e prodotti e reagenti chimici che colpiscono le nari, e ti fanno capire di essere in una zona off-limits. Poi, lentamente gli occhi si adattano alla poca luce che c’è, e finalmente riesci a vedere colui, o coloro, che stanno lavorando. Puoi vedere chi stampa (mio padre), vedi colei  che segue il lento apparire delle immagini immerse nello sviluppo,  e cura di immergerle nel fissaggio (mia madre).

 

   Di fatto, i miei genitori lavoravano stando all’impiedi, e trascorrevano le loro giornate al buio, come pipistrelli, quasi sempre in silenzio. Giornate intere. In quell’aria a dir poco non igienica, impregnata di acidi. Giornate di lavoro lunghe. Dalle tre/quattro del mattino sino alle undici di sera. Sempre rubando ore al sonno.

 

    Si trattava di una sorta di prigione necessaria e volontaria,  dalla quale i nostri protagonisti si allontanavano solo per andare in bagno, pranzare o cenare, o per andare nella sala da posa, se erano richiesti da qualche cliente. Ed erano questi i momenti in cui potevano vedere un po’ di luce del sole, e respirare un po’ di aria ossigenata. Ma, era proprio questa la caratteristica degli artigiani. Lavorare senza guardare l’orologio. Senza dire mai di no al lavoro che era vita, al lavoro che era sacro, per poi, magari, indugiare in conversazione con un cliente senza badare a quel tempo “perduto”, che serviva da relax per mettere in equilibrio il sistema nervoso. Ed era questo il loro eventuale riposo nel corso delle giornate.  

   
                                                         Gino Carbonaro

FOTOGRAFIA? COS'È?

 Fotografia? Cos’è?

di Gino Carbonaro  

 

Cos’è la fotografia? Lo chiediamo all’etimo?  

          La parola deriva dal greco: 

                       

Fos-fotòs = luce +  grafia = scrittura/o incisione 

(φῶς, φωτός = luce  + γραϕία = scrittura, incisione)

 

 

      La fotografia è quella cosa che, seguendo una serie di procedimenti chimici, fissa una immagine  su un foglio di carta sensibilizzata. 

 

      Definito il concetto di fotografia, è d’obbligo chiedersi perché gli umani hanno sempre ritenuto importante riprodurre immagini di qualcosa utilizzando qualsiasi supporto, dalla pietra all'argilla, dalla pergamena alla carta. 


     E, il pensiero corre a Giotto che povero pastorello incideva/disegnava pecore su una roccia. E ci viene da pensare come nelle grotte di Lascaux (Francia meridionale), 17.500 anni a. Cr., e nelle grotte  di Altamira (Spagna settentrionale) nello stesso periodo (Paleolitico inferiore), l’uomo incideva graffiti  utilizzando successivamente pigmenti colorati: ematite, manganese, Goethite, ocra per dipingere figure umane, e immagini di animali e piante. Si tratta di "Arte Rupestre" e si tratta di opere che dimostrano come dalla notte dei tempi l’uomo ha preso coscienza della bellezza della Natura, e ha sentito il bisogno di fissare quella meraviglia per abbellire pareti e volte delle grotte con una serie infinita di immagini mutuati dal paesaggio circostante. E si tratta di opere di grande fattura, in questo meraviglioso dialogo che l’uomo instaura con la Natura.  

 

   Ma, il riferimento va anche alla cultura egizia, assiro-babilonese, greca, romana, cinese, da cui abbiamo ricevuto immagini di imperatori, faraoni, divinità, condottieri di battaglie vinte. Immagini di uomini ed eventi che si desidererebbe far conoscere agli altri. Storia-e-arte insieme. Bisogno di fermare il Tempo, bisogno di rendere immortali personaggi ed eventi. E tanto avviene solo se si può riprodurre e fissare  l’immagine.

 

                              *    *    *  

 

     In tempi più vicini a noi, il fotografo viene tuttora richiesto in occasione di un matrimonio, o di un evento che è considerato importante. Dunque, la fotografia come la pittura, serve per bloccare un momento eccezionale, che la memoria umana avrebbe dissolto, e non avrebbe potuto consegnare al futuro.

 

     Ma oggi, la fotografia ha anche una funzione pratica. È proprio lei che offre a chiunque l’immagine di qualcosa che esiste. Una foto della Torre Eiffel, del Colosseo, di un Dinosauro ricostruito, è utile per collegare il nome con la sua immagine. E ci torna in mente il famoso slogan della Kodak che, anni fa, fissava il principio che “Diecimila parole non valgono una fotografia”. Ed era slogan che qualcuno ritiene illuminante per affermare il concetto che le parole hanno un limite. Un limite? Difatti, nessuno può spiegare a parole quale è il gusto di un nespolo, a chi non lo ha mai assaggiato.

 

  E, non avrebbe valore una enciclopedia ornitologica o botanica senza le immagini di uccelli e piante poste accanto al nome. E ancora, oggi non sarebbe possibile acquistare qualcosa on-line senza vedere l’immagine di ciò che si vuole acquistare .

 

   In ogni caso, non va escluso che un'immagine possa avere altre funzioni. Il riferimento va ai già citati graffiti di Lascaux e di Altamira, ma soprattutto al ritrovamento di 8.000 statue di soldati armati e di 100 cavalli (un intero esercito in terracotta), scoperti in Cina nel 1974.  

   

         Nell’immaginario collettivo tutti quei soldati fatti costruire da un imperatore avrebbero dovuto rappresentare un deterrente contro potenziali nemici.


   Questo il messaggio subliminale contenuto nella enorme quantità di soldati armati. Qui non parlano le parole, ma le immagini.

 

   Qualcosa di simile può essere riscontrato in alcuni  bassorilievi del passato, che descrivono battaglie vinte, e intendono dimostrare agli altri che chi ha vinto una volta potrebbe tornare a vincere ancora. Principio confermato dal fatto che bassorilievi di battaglie vinte adornano gli Archi di Trionfo latini a Roma.


Ma, anche statue di atleti vincitori di gare, e di divinità, tutto nelle immagini realizzate dai committenti sembra voler fissare il concetto di bellezza, forza, superiorità, invincibilità.

 

    Stessa funzione hanno immagini di Santi che decorano le chiese cattoliche. Icone che si possono trovare nei bivi delle strade, e davanti ad alcune abitazioni di campagna. Immagini “miracolose” che, con il loro potere, si ritiene possano tener lontano ciò-che-reca-male. E il fine è sicuramente esorcistico-propiziatorio, come quello dei Totem e delle maschere. Simboli che servono per placare angoscia e timore  della morte, supremo dei mali, che alberga dentro di noi. Credenze, che rivelano la precarietà dell’uomo, e il bisogno di protezione da parte di "entità" immaginate, sconosciute e forse inesistenti. Funzione esorcistico-propiziatoria non dissimile da quella che realizza un ikebana di fiori, la cui bellezza ingentilisce l’animo, e riesce a tener lontane le brutture della vita. O anche quella di un profumo che allontana i cattivi odori.  

     

*      *    *

 

      Tornando alla fotografia, e a tempi più vicini a noi,  io ricordo una Signora che un giorno si presentò nello studio di mio padre accompagnata da un'amica. La Signora spiegò che il marito, emigrato in Germania, le aveva chiesto una fotografia. Mio padre capì, la fece accomodare nella sala da posa, seguita dall’amica, e le indicò il separè, all’interno del quale c’era uno specchio, un pettine, un rossetto, una cravatta, un pacchetto di sigarette.


  Atto dovuto, dare uno sguardo allo specchio, prima di essere fotografata.

 

      La Signora, che pure sarà stata dal parrucchiere, spostò la tenda, entrò nel separè,  diede uno sguardo nello specchio, prese il pettine, cercò di mettere a posto un ricciolo ribelle, rinforzò il rossetto delle labbra, si diede un’ultima guardata, spostò di nuovo la tenda, e venne fuori sorridente.


Mio padre, che aveva già messo la lastra nello chassi, la fece accomodare nella poltrona, quindi accese il primo riflettore, che orientò sullo sfondo, subito dopo un secondo riflettore, che orientò sui capelli della Signora, quindi accese automaticamente l’insieme delle luci diffuse, osservò la posizione della Signora, le spostò le spalle, le direzionò la testa, tornò alla macchina da posa, si abbassò, si coprì con il panno nero, per sistemare la inquadratura, ma, la posizione della Signora non lo convinse. Uscì di nuovo da sotto il panno nero, si avvicinò alla Signora, le spostò ancora le spalle, le sollevò un pochino il mento, indicò con l’indice dove guardare, le suggerì di sorridere, tornò indietro alla macchina da presa, si coprì nuovamente sotto il panno nero, ma capì a volo che la posizione della Signora  non andava. Dunque, si scoprì nuovamente, e tornò alla Signora. Spostò nuovamente il viso in altra direzione, mosse un poco i due riflettori, tornò alla macchina da posa,  si infilò nuovamente sotto il panno. Tornò a guardare. Ma, notò che la Signora era emozionata, forse anche un po’ goffa. Mio padre le parlò giusto per farla distrarre. Intanto prese con la mano destra la pompetta che attivava lo scatto dell'otturatore.


Scopo del fotografo? Cercare di cogliere il momento migliore. 


     Invitò nuovamente la Signora a sorridere. La Signora si sforzò, ma mosse il viso, che, no! Non si doveva muovere, mentre lo sguardo doveva diventare sognante. Avrebbe dovuto far capire al marito che lei stava pensando a lui. Mio padre, da fotografo, cercava di cogliere nella persona l’espressione più naturale e più bella, in equilibrio armonico con se stessa. All’improvviso lo scatto, quasi a sorpresa, per cogliere quell’attimo fuggente che renderà la fotografia unica, e il fotografo artista. Di fatto, mio padre, proprio in quel momento, si trasformava in pittore, il cui scopo era quello di cogliere il bello: il momento che bisognava ricordare per sempre. Perché? Si sa. Tutto passa nella vita. Anche la bellezza. E nulla rimane identico a se stesso. Solo la fotografia, riesce a fermare l’attimo, unico, irripetibile, che nessuno potrà cambiare.

 

*    *   *

 

     Finita la sofferenza della Signora, per il tempo durante il quale era rimasta immobile come un pezzo di marmo, intervenne l’amica della Signora, esclamando in siciliano: “Quannu ta marito a viri, si nni veni”. Cioè: “Quando tuo marito riceverà questa foto, e ti vedrà così bella, deciderà sicuramente di rientrare in Italia per ritornare da te”.  Interessante considerazione che dimostra quale era il ruolo della fotografia: - Documento

-Ricordo

- Arte

Attrazione.                          


Gino Carbonaro

Ragusa, novembre 2020