2012/08/31

Il mare, ieri e oggi


Il mare, per i Greci, e per noi

di Gino Carbonaro


Il mare! E’ come il cibo. Bisogna amarlo e temerlo. 
Il mare è elemento che vive. E’ come gli uomini. 
Un giorno è sereno, calmo, benefico. 
Altro giorno lo ritrovi  capriccioso e violento, cupo, 
tenebroso, vendi-cattivo. Pericoloso, anche. 
Perché può mettere a rischio la nostra stessa vita.

I Greci, marinai e navigatori, consideravano il mare
fonte di energia gestita da una potente divinità. 
Dio del mare era, nella loro mitologia, Poseidon, 
la cui reggia ponevano nelle profondità marine, 
dove luce filtrata dalle acque faceva brillare madrepore e coralli nel mistero verde-azzurro 
dei fondali marini.  

Di tanto in tanto emergeva, Pòseidon-Nettuno, tridente in mano, terribile sul carro trainato da focosi cavalli, che sollevavano spruzzi di schiuma sulla superficie del mare. Era accompagnato, il dio, dall’intera sua corte. Delfini che intrecciavano danze intorno al carro costituito da enormi conchiglie, tritoni marini, bellissime Nereidi oceanine.  

Emergeva sovente, Poseidone, per controllare che il dio Eolo non approfittasse della sua assenza per mettere a soqquadro la superficie del mare. Nel qual caso era guerra terribile. Tempesta! Risultato di un conflitto fra divinità. E tutto aveva termine solo quando Eolo veniva allontanato dolorante e mugghiante nei suoi domìni posti tuttora nei dintorni delle isole Eolie.

Nei momenti di tempesta marina, guai ai marinai sorpresi in mare. Nessuna nave del tempo poteva resistere alle crudeli sferzate delle onde. Ed era inutile per gli umani affidare l’anima a qualche divinità. Il fondo del mare avrebbe accolto uomini e cose. Per questo, i Greci temevano il mare e il suo dio.

La storia racconta di un ricco mercante ateniese, che di necessità avrebbe dovuto imbarcarsi per raggiungere Siracusa. Consapevole dei rischi che comportava l’andar per mare, prima di partire pensò bene di scendere al Pireo per chiedere informazioni, capire come comportarsi. Al porto, la scena era quella di sempre. Navi agli ormeggi. Navi tirate sulla spiaggia. Marinai che riparavano reti da pesca. Il mercante chiese a un passante: “Buon uomo, sapresti dirmi quali sono le navi più sicure? Quelle da guerra? Quelle mercantili?” La risposta subitanea fu: “Quelle tirate a secco, Signore”. Forse, aveva ragione.

Il mare presentava rischi nell’antichità. Tanto è dimostrato dal fatto che degli oltre quattromila epigrammi raccolti nella “Antologia Palatina”, un intero libro, il VII, contiene epigrammi funebri, quasi tutti dedicati a quanti erano periti in un naufragio. Gli epigrammi, poi lapidi funerarie, sono bellissimi. Ne citiamo qualcuno. 

“Forza e vortice di un uragano 
provocato da Euro, 
e le onde ancora e la notte 
quando si fa buio al tramonto di Orion, 
mi uccisero. Scivolai dalla vita. 
Io, Callaiscro, mentre navigavo nel mare di Libia. 
Sono scomparso nel gorgo delle acque. 
Ora sono preda dei pesci. 
Questa pietra non mi ricopre. Inganna”. (VII - 273) 

E quest’altro ancora: 

Mare dal cupo rumore, 
perché hai rovesciato nel fondo Teleutagora, 
che navigava su una navicella 
con il suo povero carico? 
Perché hai scagliato su di lui 
le tue onde ingiuste? 
Dovunque sia, ora è pianto 
privo di vita su qualche spiaggia 
di aironi, e gabbiani divoratori di pesci” (VII - 652)

Il rapporto con il mare per i Greci è stato sempre di odio-amore. Da una parte veniva temuto, il mare, dall’altra si restava incantati di fronte alla sua bellezza, al suo fascino immenso. Colori, ossigeno, luminosità, preziosità marine. Il mare è stato da sempre fonte di vita. Per questo, fu proprio nel mare che i Greci posero la nascita di Afrodite, dea della bellezza, della sessualità e dell’amore. Afrodite-Venere, sorriso della Terra e della Vita. Figlia del mare e del cielo. Nata dalla spuma galleggiante del mare.

In un mattino di primavera, fra alba e aurora, argento e oro, una donna di meravigliosa bellezza emerse stillante dalle acque marine. Nessuno aveva mai visto una creatura simile. La sosteneva una conchiglia iridata di alabastro. La brezza marina faceva ondeggiare i suoi biondi capelli e i veli, che avvolgevano delicatamente il suo corpo nudo. Proprio così la fissa Sandro Botticelli nel suo quadro immortale, “La nascita di Venere” (1485). Così la rievoca poeticamente Ugo Foscolo nelle “Grazie”.

E oggi? Il rapporto con il mare è sostanzialmente positivo. Tutti amiamo viaggiar per mare. Lo dice il successo delle crociere. D’estate, poi, le spiagge pullulano di una umanità distratta che aspira a godere i benefici influssi del sole, alla serenità e al benessere. Il richiamo alla divinità greca, al sesso, alla bellezza non è tramontato, soprattutto quando un bell’esemplare di giovane donna emerge dalle acque fresche del mare avviandosi verso la spiaggia. La sua pelle è dorata, profumata di salsedine dopo aver celebrato il rito della immersione, della rinascita, del ritorno alla vita. 
Gli sguardi sono solo per lei, novella Afrodite, 
donna quasi nuda in bikini o topless dalla bellezza avvenente, fascinatrice e ammaliante. 

Ora, attendiamo con ansia che la moda possa proporre costumi realizzati con velo, delicato e trasparente, perché la natura tutta della donna, possa con “les nudites” e con la poesia del suo corpo offrirsi alla vista, lei, novella Afrodite, al godimento dei sensi, alla gioia degli occhi e dello spirito. Di tutti. 
Questo ci dà la spiaggia. D’estate.


                                                                      Gino Carbonaro

gino.carbonaro.italy@gmail.com

2012/08/29

Sapore del Tempo di Nino Barone Preside



Il sapore del Tempo
di Nino Barone

                                                        Gino Carbonaro    

Tutto, in questo “Sapore del tempo” 
di Nino Barone, fa pensare alla Grecia classica. 
A sorpresa, il bel Corso Umberto di Modica diviene,
per analogia (e un po’ di fantasia) agorà-salotto:
luogo di incontro, di confronto, di dibattito 
e di approfondimento di idee, esposte da uomini
liberi, attenti, intelligenti, culturalmente preparati.
Qui, in peripatetiche conversazioni, 
vengono discussi temi svariati, nel nobile intento 
di scoprire la verità delle cose ed evitare 
luoghi comuni e quanto è propinato da televisione 
e mass-media. E sentono, questi “passeggiatori”, 
il diritto-dovere di dire quello che pensano 
in piena ed assoluta libertà di idee. 
Questo, mentre l’Autore, con la “auctoritas” 
che deriva dalla sua persona, e con la forza 
suffragata dalla sua esperienza, 
coordina gli interventi e, quasi occulto 
direttore d’orchestra, dà il “la” e il giusto tono alle
conversazioni. È lui, il “vegliardo” scrittore 
ricco di anni e di esperienza, di sapere e di cultura,
che può di diritto far conoscere il suo punto di vista,
utile soprattutto  ai giovani (vedi il dialogo 
con Paolino e Virginia) ma necessario per illuminare la strada anche di chi ritiene di sapere, e soprattutto di chi va senza chiedersi dove sta andando.

     La tecnica messa in atto nelle conversazioni è quella “maieutica” nel senso etimologico del termine: necessaria la ricerca di punti forti, implicito il procedere per sillogismi: da qui discende la verità che è frutto di un faticoso travaglio di idee. La finalità del libro è dunque socio-pedagogica, ma anche filosofica, propria del metodo socratico; l’impostazione mai tradita è quella del dialogo platonico sobrio, equilibrato, attento.
     Ma, è la prosa, soprattutto, che sembra figlia della cultura greca, quel modo di comunicare di Nino Barone chiaro, cristallino, coinvolgente, mirato al concreto, misurato, concatenato nella logica dei fatti, assolutamente privo di narcisismi e di concetti astratti.   
     Ed è merito (quello di scrivere chiaro) che è dono di natura (che pochissimi possiedono) ed è ciò che rende agevole seguire con vera delizia l’esposizione del pensiero.
     Per il resto, questo terzo lavoro, dal titolo stupendo va considerato l’ultimo momento di una trilogia composta da “Richiami” ed “Essere Cava”, opere pubblicate in precedenza, ma in questo “Il sapore del Tempo” il registro è debolmente diverso da quello adottato nei due precedenti lavori. Difatti, mentre prima l’interesse è per il racconto che rievoca momenti del passato, qui il protagonista, e io narrante, è colui che mira a custodire e difendere la saggezza nel senso confuciano del termine. Saggio - dice Confucio - è colui che è per costume serio, sollecito, dolce: sollecito e serio con i conoscenti, dolce con gli amici. Saggio è colui che è cauto nel parlare e rapido nell’agire, che è franco senza essere ostinato; austero, ma non superbo. E ancora, saggio è chi tende a migliorare e indica ad altri la via che ritiene migliore. Saggio è chi non si duole di non essere conosciuto, ma opera in modo da essere degno di essere conosciuto e di lasciare un dolce ricordo di sé e di coloro che ha messo al mondo. Qui i principi della saggezza, che è universale, coincidono con l’éthos greco. Infine, il saggio sa che ripetere ciò che si è appena ascoltato in strada è il vero e grande torto fatto alla virtù.

     L’essenza del libro è soprattutto mirata alla ricerca della saggezza e della verità, più che del sapere e della erudizione.

      Volendo tentare un parallelismo con l’arte figurativa, direi che questa opera è simile a un affresco che descrive un’epoca e un ambiente particolare, anche se l’impostazione ricorda la tecnica del mosaico. Difatti, ogni considerazione, racconto, intervista o dialogo riportato nel libro, altro non è che un tassello, una tessera, che acquista senso pieno solo come parte di un tutto. Così viene fuori la struttura mental-culturale di uno scrittore che crede nei valori, nella religione, nella fede, nella bontà, nella carità, nella giustizia, nel dovere, e soprattutto in una politica fatta da uomini integerrimi, intelligenti, illuminati e onesti. Tanto si rileva nel corso del libro, ma è provato dall’ultimo racconto intitolato “Anno 2084”, dove facendo ricorso a un paradosso, l’Autore ci invita a prevedere come sarà il mondo verso la fine del XXI sec. 

   Tanto evidenzia il fatto che Nino Barone è uomo sostanzialmente ottimista.

     Le considerazioni contenute nel libro? Importantissime! Protagonisti? Un po’ tutti. Uomini e Tempo (Χρόνος), Il Tempo che, come nave, ci porta in un viaggio a noi sconosciuto, dove viaggiano tutti gli esseri viventi e gli uomini, alcuni dei quali con le loro false fedi e credenze, e con le loro debolezze, vedi “Saridda e l’amore”, una donna che si invaghisce di altro uomo e abbandona marito e figli per convivere con quello che lei considera il sogno della sua vita. Ma, nell’opera si incontra anche la violenza arrogante, in “Punture di spillo”, gli intricati problemi della nostra politica e gli scontri fra magistratura e politica; viene denunziato certo costume (o malcostume) di certi uomini politici dei tempi andati, trattato il problema degli immigrati, il disorientamento dei giovani di oggi, quello sui condizionamenti occulti della televisione, e così via. Sotto ogni aspetto il libro è un documento che registra modi di vivere, di pensare, di comportamento, che rileva il modo di reagire, nel bene o nel male, alla vita che qualcuno ci ha dato da vivere, e registra quelle “sbavature della società” che “possiamo approvare o non approvare”.
     
     L’autore si schiva affermando che il suo non è un libro di sociologia, ma i dati inseriti che registrano modalità e cambiamenti sociali, modificazioni di abitudini e valori, attengono alla sociologia e (perché no?) alla filosofia.
     
      Infine, quello che si evidenzia nella lettura del libro è il tono pacato, sereno, urbano di affrontare i temi, soprattutto il rispetto per le opinioni degli altri che fissano in chi scrive il grande valore attribuito alla libertà individuale e collettiva. Rispetto e libertà che politicamente si ritrovano nel concetto di democrazia.
    
     “Il sapore del Tempo” è un libro che mancava, scritto da colui che può essere definito notaio di una  microstoria umana e sociale in una nicchia di tempo che sarà divorata dal Tempo.
                                                                                                                      
                                      Gino Carbonaro          

P.S.  Due parole di elogio per la bella edizione curata dalla nuova Casa Editrice Argo, soprattutto la impaginazione, la scelta della carta certamente pregiata, stupendo il titolo, bella la copertina e la prefazione del prof. Piergiorgio Barone. Congratulazioni.

P.P.S. Non avrei inserito in questo libro il racconto “Un cane”.

Essere Cava di Nino Barone Preside



Essere Cava di Nino Barone

                                                              
Gino Carbonaro



  "Essere Cava", ultima opera di Nino Barone, è un libro importante, scritto con una prosa cristallina, chiarissima, coinvolgente, unica, che pone Nino Barone nel novero degli scrittori in assoluto più significativi della storia letteraria della Sicilia.

   "Essere Cava"  è diviso in tre parti, diverse nel tema e nel tono. La prima, intitolata Essere Cava, comprende gli anni della giovinezza dello scrittore. La seconda parte, Riflessioni di un moderato,  tratta gli anni della maturità e della sua militanza politica, con una appendice di “considerazioni” varie. La terza parte La voce del cuore, ricordi di situazioni e persone care.  
    
  L’apertura del libro è stupenda. Il modello è manzoniano. Anche il riferimento alle cave che unendosi formano una “ypsilon” sembra ricordare il grande scrittore lombardo, ma è solo una impressione. In realtà, la descrizione, in Essere Cava è più moderna, agile, intensa, ricca di colore, sentita, e, mi consenta il paragone con la pittura, ricorda l’affresco, più che l’olio.

    Ma è proprio l’apertura che dà il “la” all’opera. Qui si descrive Modica come una sorta di nicchia ecologica: ambiente naturale (cave e colline circostanti) forse unico nel suo genere, nel cui interno (si pensi agli aggrottati) si è adattato a vivere un popolo, che proprio da qui ha sviluppato una sua peculiare identità psicologica e culturale.

     La similitudine che vede un tutt’uno fra natura e uomini è stupenda: dalla descrizione dell’ambiente naturale, alle abitudini umane, rappresentate dalla passeggiata nel Corso e dalla gente che sente il bisogno di parlare, comunicare con gli altri e di sentirsi ascoltata.  

     L’analogia con la natura è chiara: come le acque defluiscono nella cava mescolandosi e combinandosi, così gli abitanti di queste colline scendono a valle, in quella Cava, ora serpente d’asfalto, per incontrarsi, intrecciarsi fra di loro, scambiarsi idee e progetti, per autoalimentarsi, vivificarsi e lievitare insieme quelle idee e quei progetti che si fanno cultura di un popolo.

   Poi, a sorpresa, viene inserito il concetto di limite. Quel Corso, che rievoca la Agorà greca, che è stata l’utero all’interno del quale sono stati messi a dimora i semi della civiltà forse più grande della Terra; quel Corso - dicevamo - anche per il modicano è utero, dove le informazioni convergono, si amalgamo, e si ridistribuiscono.  Spazio chiuso che conforta e protegge, ma che può, altresì, diventare un limite.

    Chi è vissuto a Modica, come me, temeva l’ora del tramonto, quando, giù dal Corso si vedeva scomparire il Sole dietro la collina della Giganta, e avrebbe voluto essere come un fiore, per allungare lo stelo (il collo) verso l’alto per non perdere nessun attimo di luce che scompariva.

     Da qui, anche per tutti gli habitué della Cava, era forte l’aspirazione a superare il limite, in tutti i campi: desiderio di parlare, approfondire, chiarire, scoprire, tenersi informati, socializzare, partecipare (nel senso che l’etimo insegna) di essere parte degli altri, nella consapevolezza di una identità peculiare: quella che molti hanno inteso come modicanità; ma altresì volontà di essere migliori nel lavoro, nella crescita sociale, nel progresso, ed è qui che si rileva il superamento del limite. Come è possibile vedere, si tratta di un concetto forte.

     La giovinezza, il fascismo, la guerra

     Subito dopo, il libro entra nella storia. In parte personale, in parte italiana. Qui il documento diventa ancora più interessante. Il valore è dato dalla testimonianza diretta di uno scrittore che non ha letto sui libri quello che racconta. Forse si è stanchi di leggere cose scritte con materiali di riporto, e anche qui ritorna il concetto di freschezza, come chi con le prime acque d’autunno raccoglie erba fresca sui campi e la offre agli amici così come è, sana e nutriente.

    Da questo momento, chi legge è affascinato dal racconto, non riesce a lasciare la pagina e a chiudere il libro. Così procede l’affresco sul Fascismo visto dalla periferia, non dal centro; da un’ottica che è quella del giovane studente universitario; anche questa, prospettiva è sincera, ingenua, leale; testimonianza non facilmente riscontrabile nei libri di storia.

    E poi, gli usi di una epoca che non è più: il "Sabato Fascista", l’Università, la vita militare, la guerra. Tutto fresco, genuino, senza orpelli, senza vanagloria, senza narcisismi, che non possono trovare posto in un diario (perché di diario si tratta) scritto con uno scopo preciso: lasciare un testamento spirituale e culturale ai tre figli: Uccio, Eugenio e Alessandra.

      Testamento come documento, ma anche come fatto di arte bellissima. Se, da un punto di vista letterario, è stupendo il capitolo di apertura “Essere Cava”, è poesia il racconto intitolato “Un cane”. Qui il mio ricordo corre a “Niente di nuovo sul Fronte Occidentale”, a quel passaggio dove l’Autore descrive cavalli feriti che fuggivano, terrorizzati, calpestando le budella che fuoriuscivano dalla loro pancia. È la tragedia, che nella guerra coinvolge i deboli e gli innocenti.

     Qui, è stupenda la descrizione del cane morente: “Cadde di schianto e si stirò mugolando. Lentamente, quasi con compostezza, si dispose a morire. Un piccolo filo rosso di sangue scendeva dall’orecchio, giù per il nero, smunto viso, si raggrumava adagio e senza fretta all’angolo della sua bocca, colorando stranamente di rosso i suoi lunghi denti bianchi. Gli occhi però rimasero ostinatamente aperti, senza rimprovero e senza rancore, solo freddi e lontani, quasi resi opachi da una luce nuova e violenta, da un’altra luce”.     

    Io dico che questa è poesia grande e della migliore, e mi riferisco all’intero racconto (p. 49-52)

     Poi, ricomincia la cronaca, e si descrive come in una certa classe sociale avvenivano i fidanzamenti. Si tratta di un documento di usi e consuetudini che non tornano più e che sono sconosciuti alle nuove generazioni, che potrebbero non capire la dinamica di quei corteggiamenti amorosi. Insomma, documento fondamentale, importante, non solo per i suoi figli, ma forse, e soprattutto, per i suoi nipoti.

     Procedendo, il lettore si trova davanti ad una sorta di appendice titolata “Cronaca minore”. È quella che tratta  l’ingresso in politica dell’Autore, ma è anche momento propedeutico alla seconda parte dell’opera.

    Le riflessioni di un moderato

     Con “Le riflessioni di un moderato” l’opera cambia materia e tono. Più che di un diario, che vede come protagonista unico lo scrittore e destinatari i figli, il lavoro si divide fra cronaca e storia, con analisi, e soprattutto giudizi di valore, che collegano la piccola città di Modica e i suoi eventi alla più ampia storia italiana degli ultimi cinquant’anni.

     Nelle Riflessioni,  l’impegno dello scrittore è un altro: soprattutto quello di capire come si genera una crisi politica e generazionale da un impianto politico  sostanzialmente onesto nelle intenzioni dei fondatori dei partiti politici e della Democrazia Cristiana in particolare. E si chiede altresì il perché di “…tante ombre: violenza, sessualità sfrenata, corsa all’egoismo e al materialismo, crollo della religiosità tradizionale, allentamento dei vincoli familiari e soprattutto, mali nuovi e tremendi: terrorismo e droga!” 

     E subito trova pronta una prima subitanea risposta, secondo cui …la radice del male sta nell’egoismo, nella ricerca affannosa del guicciardiniano “suo particulare” che è diventata norma prima di questa nostra società”.  Certamente una crisi di tale entità, come è quella italiana di questi ultimi decenni, non può avere una sola causa. Da questa premessa discende la ricerca delle componenti e dei responsabili della crisi.

     L’ottica è la stessa che ha caratterizzato la prima parte, e vede lo scrittore come osservatore privilegiato, un po’ nella veste di storico, in altri momenti nella veste di moralista, di filosofo, di notaio della storia, di avvocato difensore di se stesso, del suo operato come uomo politico e del suo partito, sempre fortemente amareggiato per non essere riuscito, lui e gli altri responsabili (in parte) della cosa pubblica ad arginare l’arrivismo e la corruzione che ha inquinato la società italiana e con essa la amministrazione modicana.

    Mafia, bustarelle, corruzione, affannosa ricerca di miliardi da parte dei partiti, sono cause fondamentali del degrado nel quale si trova a vivere la società italiana. Ed è su questo punto che si registra la sconfitta della intera classe politica.         

     In questa seconda parte, lo scrittore è più partecipe ai fatti, meno distaccato di quanto non fosse stato nella prima parte, e segue il fluire degli eventi con vigile attenzione e partecipazione, interpretandoli sempre dal suo punto di vista: quello di un uomo corretto e fedele alle sue idee; uomo che ha dato se stesso per la sua città e per il suo partito e vede ora tutto distrutto da un uragano, per il quale non si riesce a trovare la causa. Tanto lavoro per raccogliere altro che un pugno di foglie secche.

     Le colpe? Di tutti e di nessuno. Leggi errate come la Bucalossi che fa sviluppare l’abusivismo edilizio. La Riforma sanitaria che crea un carrozzone burocratico costoso, quanto inefficiente; la creazione di un esercito di funzionari pubblici e di partito, di imprenditori parassiti e impreparati, di Enti pubblici grandi e piccoli che redistribuiscono senza logica flussi non controllati di denaro pubblico. E poi ancora impunità, inamovibilità di una massa di gente interessata solo ad arricchirsi a spese dei contribuenti, mafia. L’origine degli scandali di quest’ultimo decennio – conclude l’Autore – discende in gran parte da qui.  
   
     Le analisi? Tutte importanti, per conoscere come un addetto ai lavori ha vissuto e interpretato uno squarcio di storia locale.

     Ha sicuramente fatto un bel regali ai suoi figli e ai suoi nipoti, ma anche a noi tutti, che possiamo avere un punto di riferimento forte sulla storia che ha visto la Cava di Modica, e uno che qui ha trascorso quasi tutta la sua vita.

                                           Gino Carbonaro                               


Ragusa/Modica, novembre 2004      

gino.carbonaro.italy@gmail.com

2012/08/25

Ricordo di Gino Mariella, un compagno di classe eccezionale



Gino Mariella


                    Nei ricordi di 
  Gino Carbonaro

  



1. Forse perché sono nato in mezzo alle fotografie, anche i miei ricordi del passato sembrano sistemati in un album di immagini. Tu giri le pagine, vedi figure e attorno a queste pensi.

La prima immagine che ho fortemente fissata di te, mio carissimo Gino, risale alla quarta elementare. Nell’aula ci sono due o tre grandi finestre che si affacciavano sulla via Garibaldi (’a via Lonca, a Modica), una cattedra di fronte, il crocifisso al centro, una lavagna, due armadi di colore celestino (ma chissà se erano celestini). Poi l’immagine della maestra, la signora Bellassai, bionda, buona, che tutte le mattine dopo le preghiere fa ripetere a tutti, per prima cosa, a memoria, la poesia che aveva assegnato il giorno precedente.

Ed eri tu il primo che cominciavi a ripetere. Tua era la pole position. E tu ti alzavi all’impiedi, diventavi subito serissimo, piegavi il collo con una inclinazione sacrale e cominciavi a ripetere senza una titubanza, senza una sbavatura. Perfetto. Scioccante per tutti quelli che dopo di te avrebbero dovuto avvicinarsi a te come  modello di riferimento.

Ecco, questo è il ricordo che custodisco nella mia memoria in maniera indelebile. Anche perché si è ripetuta per tanti mesi, tutte le mattine. Mai un errore, mai una impreparazione. È da allora che per tuo tramite ho fissato in me il concetto della perfezione possibile.

Forse per questo eri la gioia della maestra che ti voleva più bene di tutti, anche se, dolcissima com’era, voleva bene a tutti.

Poi, a ripetere la poesia era un altro ragazzo che era più bravo di tutti, ma meno bravo di te (forse, si chiamava Giannone e oggi gestisce a Modica un ristorante agrituristico). Al terzo posto, c’ero io, così, almeno, mi ricordo, poi, mi pare ci fosse Spillicchi, che era figlio di un barbiere. 

E qui, per quel che riguarda la mia storia, c’entri tu, la tua persona; perché da primo della classe, quale ero stato nella scuola elementare di Scicli, a Modica ero sceso di gradini e di livello.

Con tutto ciò, in quella quarta classe elementare fissai per sempre la mia percezione di te. Tu eri tu, con la tua bella e già formata personalità, sana, discreta, tenace, complessa eppure semplice, sempre un po’ più in alto di me; io ero io, con la mia personalità che tu rispettavi.

Ma, era talmente meritato il tuo primato in classe, eri così onesto nel manifestare le tue qualità, ed eri così corretto nel rapporto con gli altri che non riuscii mai a considerarti un antagonista, né un concorrente, né a nutrire alcun sentimento che non fosse di ammirazione nei tuoi confronti. Sempre. Allora, come adesso. D’altro canto, con te non mi sentivo un gregario, né un subordinato, né un perdente. Tu eri superiore e basta. La maestra ti voleva bene (questa era la mia impressione) ma io non sentivo che a me fosse stato tolto qualcosa. Stavo semplicemente bene, con te e con gli altri, un po’ meno con me stesso che non riuscivo a sentirmi comodo nel nuovo ambiente modicano.

2. A questa immagine, di Gino Mariella che ripete a memoria la poesia quotidiana, si agganciano a grappoli altri ricordi. Il fatto che era l’anno scolastico 1947-48, ed io ero appena giunto da Scicli a Modica, dove mio padre aveva trasferito la sua attività di fotografo.

Il passaggio da Scicli a Modica era stato per me traumatico. Avevo perduto tutti i miei amici senza essere riuscito a farne di nuovi, ma soprattutto mi veniva duro accettare il fatto di non essere più il primo della classe, di non essere più il pupillo di una maestra, e questa perdita di affetti mi faceva sentire solo. Venendo a Modica era come se fossi diventato nessuno. Così, almeno, mi sentivo.

All’epoca – scusami la “disgressione” (diceva così, la signora Mellini) – non era ancora nata mia sorella Flaminia, e io ero figlio unico o, se si vuole, figlio solo, che conosce la solitudine.

Mia madre e mio padre avevano tempo solo per il lavoro che non mancava, grazie a Dio, ma io che avrei avuto tanto bisogno di attenzioni, li vedevo solo a pranzo e la domenica, quando li aiutavo asciugando, tagliando e sistemando fotografie nelle buste, anche se loro due restavano sempre rintanati nella camera oscura, e se mi serviva qualcosa, comunicavo con loro con la mediazione di un citofono che mio padre aveva fatto installare nella loro stanza di lavoro, oppure parlando a voce alta da dietro la porta (sempre chiusa) della camera obscura.

Mi sentivo orfano, ma soprattutto privo di affetto, di coccole si direbbe oggi. Era come se non avessi avuto una madre. Deprivato di un mio diritto. 

Mi sentii quasi un senso di colpa, però, quando, conoscendoti meglio, qualcuno mi disse che tu avevi perduto la madre; e giustificai meglio la maestra che si rivolgeva a te con una attenzione speciale, con l’affetto di una madre. 

Poi mi invitasti a casa tua, che era sul Corso Umberto. Una casa con scalette per salire al primo piano, stanzette di passaggio che si andavano allargando man mano che procedevi. Mi sembrò la casa delle bambole.

In questa casetta minuscola, ma linda, pulita, vissi un’altra indimenticabile esperienza: conobbi tua sorella, Iolanda, che era molto più grande di te. Apparve all’improvviso, mi salutò, e si rivolse a te con una dolcezza che io non avevo mai rilevato in una donna. E tu ti rivolgesti a lei (così mi sembrò) come un figlio ideale si rivolge a una madre ideale. Rapporti che non avevo mai registrato sino ad allora, e che nella mia vita non riscontrai mai più in altre persone.

In quella apparizione sentii giungere con lei (con tua sorella) un flusso di affetto, di amore, di bontà e di intelligenza che interagivano con te e che davano vita ad una sorta di comunione spirituale fra voi due, ma con tutto ciò, la casa mi sembrò un po’ vuota. 

Tutte quelle cose, colsi in un attimo. E capii che qualcuno ti aveva sostituito la madre con una donna diversa dalla mia. E mi sembrò bella anche nell’aspetto, tua sorella, o forse lo era davvero.

Quella apparizione, quel quadretto che era più di un idillio, è rimasto nella mia mente a farmi sentire la bellezza e la forza del “femminile”. E certamente quella volta ti invidiai quella sorella che trasmetteva sicurezza, dolcezza, rispetto, senso di responsabilità, accettazione della vita e del destino e, soprattutto, amore. Insomma, quella donna aveva quello che un uomo non poteva avere e forse non sarebbe riuscito a dare. In conclusione, di quella donna mi colpì la personalità al femminile.

Ma te la invidiai solo per poco, questa sorella che era tua e solo tua, perché capii subito che tu non avevi la madre e io non avrei potuto pretendere per me anche una sorella come la tua.

Da subito, quella tua casa, mi sembrò diversa da tutte le altre; mi sembrò un luogo santo, quasi fosse un tempio, quotidianamente benedetto da Qualcuno. E ancora oggi, quando passo dal corso Umberto e la vedo ristrutturata e dipinta di bianco, dico a me stesso che quello è il giusto colore di quella casa.

3. Dopo quell’anno tu scompari dalla mia memoria. Non mi ricordo di te alla quinta elementare, né alla prima media. Poi, qualcuno mi disse che eri andato in seminario e mi addolorai. Non ti vedevo seminarista, né prete. Immaginai che la scelta era dettata da altre necessità. Forse economiche. Poi apparisti al quarto ginnasio, dopo aver perduto un anno che nel frattempo avevo perduto anch’io, e il mio cuore si riempì di gioia. Mi sembrava che l’ordine del mondo fosse stato rispettato. Però ti percepii un poco triste, non mi sembravi più come quello di prima, e stranamente non sembravi molto impegnato nello studio, e questo mi faceva rammaricare. Al quarto ginnasio, i primi della classe erano Gianni Barone, Mario Spadaro, che ora traduce versioni greche in Paradiso, Giovanni Poidomani, e poi, forse tu, che eri sempre preparato, ma sul giusto.

Al quarto ginnasio tu studiavi molto poco, soprattutto pochissimo greco e niente latino, ma sapevi sempre tutto. Mi sembrava un miracolo. Però, ridevi al tuo solito, una risata particolare, razionale, educata ma sincera, specie quando parlavamo del nostro professore Licitra di educazione fisica e negli anni a seguire quando prendevamo in giro la professoressa di greco, la signora Mellini che spiegava la Venere di “Cinnìdo” (leggi Knido).  

In quella quarta ginnasiale ti rivedo con un pullover di lana bianca a strisce marrò (o viceversa) sempre pulito, ma sempre lo stesso, che tu portasti anche negli anni successivi. Questo è il mio ricordo. Ed era sempre lo stesso, quel pullover, e mi sembrava che si andasse accorciando nelle maniche mentre per l’età ti crescevano le braccia. Sinceramente mi faceva scrupolo il fatto che al tuo confronto io potessi avere molte più cose materiali di quanto non ne avessi tu.

Di questi anni del ginnasio, tu sei in una foto che io scattai nella palestra a tutta la classe. La scattai con la Rolleiflex di mio padre che ora tengo in una vetrina. La macchina fotografica era fissata sul cavalletto e usai l’autoscatto. In quella foto, tu sei in piedi, pensoso, di lato, col pullover di cui sopra, io sono malamente accovacciato su qualcosa, su una pietra, forse, dopo aver fatto la corsa per entrare anch’io nella foto.

4. Adesso, l’album dei ricordi registra un altro passaggio. Ora siamo al secondo Liceo, dove vivo una delle esperienze più forti della mia vita: l’impresa epica, indimenticabile (e direi sovrumana) realizzata da te, perché poteva essere realizzata da uno solo, che eri tu, e da nessun altro. Ma vediamo i fatti che la memoria dissolve e il ricordo amalgama.

Era appena cominciato l’anno scolastico 1956-57 o 57-58, non ricordo bene, quando ricevetti una telefonata da Graziella Modica, la sorella di Enza, la mia fidanzata di allora, la quale mi avanzò una proposta (stavo per dire “avance”). Mi disse che aveva pensato (ma, in realtà aveva già deciso) di presentarsi per gli esami di Stato per conseguire il Diploma Magistrale da privatista, continuando a frequentare da interna il secondo liceo e mi proponeva di fare la stessa cosa. Mi spiegò che ci sarebbe stato molto da studiare, che bisognava avere qualche professore privato per la matematica del magistrale che era diversa, che avremmo dovuto studiare psicologia e qualche altra materia. Condicio sine qua non per sostenere questi esami: bisognava essere promossi a giugno. A me, l’impresa, più che ardua, mi sembrò impossibile, perché a quel tempo i privatisti dovevano presentare agli esami tutto il programma dei quattro anni del Magistrale, e il programma dell’ultimo  anno del Magistrale era tutto nuovo, dal momento che non coincideva con quello del secondo Liceo. Io, invitato a partecipare, dissi sì, in parte perché mi sentii adulato per essere stato invitato, ma soprattutto perché non riuscivo mai a dire di no; ma – ricordo come fosse adesso -  pensai immediatamente di coinvolgere anche te nell’impresa e, sempre al telefono, lo dissi a Graziella che accolse con entusiasmo la proposta. Perciò ti telefonai subito dopo.

Qui la sorpresa! Non avevo cominciato a esporre il fatto e non avevo finito di proporti l’invito, che tu avevi già detto di sì. Razionale e intuitivo come sei, avevi capito che quella era una sfida che avresti potuto e voluto accettare. Una occasione ti veniva incontro e tu la coglievi al volo.

Così fissai un altro punto della tua personalità: il fatto che ti piacevano le sfide e ancora, che per te il sì è sì, e il no è no! E ogni impegno preso con te stesso e con gli altri andava rispettato sino in fondo. Questo eri, e questo sei ancora.

Così, ci incontrammo tutt’e tre, Graziella, tu ed io, per concordare alcune cose (l’acquisto di libri, soprattutto) e valutare le difficoltà; e fu proprio in quell’incontro che venne fuori per me la prima novità e difficoltà: per fare gli esami di Stato al Magistrale “bisognava fare il tirocinio”, cioè frequentare alcune classi elementari di pomeriggio, tre volte la settimana, e due ore per volta, senza fare assenze e per tutto l’anno. Al tempo veniva sottratto altro tempo!

In quel momento, e con quella novità, capii che io non avrei potuto farcela, non potevo déranger, diciamo squilibrare il mio pomeriggio sottraendo allo studio la parte migliore della giornata, per riuscire, poi, tornando a casa, a trovare ancora  tempo per seguire i programmi che i nostri professori svolgevano a marce forzate. Il secondo liceo era un anno fondamentale che non si poteva seguire al servizio di due padroni; nessuno avrebbe potuto farcela, nessuno poteva avere tanta energia e tenacia psicologica, mentale e fisica (per non dire intelligenza e memoria) per realizzare un progetto da sogno: studiare il programma di “cinque anni” e alla fine riuscire ad essere promossi comprimendo il tempo a poco più che nulla. La scuola di una volta non era quella di oggi! Capii allora che quella impresa non era assolutamente possibile per me, ma non poteva essere possibile per nessuno.

Fu solo per non mettere in crisi il vostro entusiasmo che partecipai alle prime due settimane di tirocinio, e comunque sino alla fine di ottobre, e subito sentii di avere squilibrato i miei pomeriggi di studi. Certo quelle poche lezioni di tirocinio mi fecero vedere e capire un mondo diverso; imparai tante cose. Ma, con rammarico mio e vostro, trascorse le prime due settimane,  alla fine di un tirocinio pomeridiano, all’uscita dalla scuola, vi spiegai la mia impossibilità a continuare per i motivi sopra detti, e mi defilai mortificato e con rammarico per essere venuto meno ad una parola data.

Ci fu da parte tua e di Graziella una punta di delusione mista a disappunto (che il vostro viso lasciò trasparire), che in verità durò meno di quanto avessi previsto, per dare spazio subito dopo ad una sincera comprensione nei miei confronti.

Il più convinto nell’impresa, a distanza di due o tre settimane, però, mi sembrasti solo tu, e capii che senza di me o di Graziella, tu avresti continuato senza titubanze, dubbi o tentennamenti, anche da solo; e se Graziella che era stata la promotrice dell’impresa continuò, poi, sino alla fine (lei con l’aiuto di qualche professore privato, tu studiando da solo), questo fu forse merito tuo.

Adesso, che ero uscito dal gruppo, per me c’era solo da assistere all’impresa dall’esterno, come uno che ama il calcio e va a vedere allo stadio la partita che giocano gli altri. Ma restavo dell’opinione, come lo sono ancora oggi, che quella impresa era impossibile. Ma eri tu a dimostrarmi, come sempre, che l’impossibile doveva potersi piegare a categoria del possibile.

5. Ma, la sorpresa, in quel secondo Liceo, fu un’altra. Da quando cominciasti a studiare da privatista, e il tempo avrebbe dovuto a rigore di logica mancarti proprio perché studiavi cento materie diverse per quegli esami di Maturità Magistrale, con mia sorpresa, cominciasti a diventare più bravo in classe, perfetto come quando eri alla quarta elementare; e anziché avere i soliti, scontati e comodi sei con qualche sette, cominciasti ad essere sempre preparatissimo, a  prendere gli otto e anche qualche nove. Ero incredulo. Non credevo ai miei occhi. Era come se la scommessa fatta con te stesso (ma io ero testimone esterno) ti avesse fatto venir fuori il meglio di te stesso. Mi sembravi come una Ferrari che anziché avere le solite quattro o cinque marce delle macchine normali ne avevi sette e forse qualcuna in più. In ogni caso sviluppavi un numero di cavalli mentali al di sopra della media. Ed io ero nella media.

Un giorno, passai da casa tua per farmi dare da te degli appunti di filosofia. Io ero nei guai perché non riuscivo a memorizzare il libro di testo, mentre tu avevi già svolto quella parte di programma! Ti trovai seduto al tavolo mentre studiavi. La scena è storica. Non perché stavi studiando storia, ma perché rilevai un’altra peculiarità del tuo carattere. Ecco il quadro: ti alzasti per prendere in un angolo gli appunti che ti avevo chiesto e ti sedesti di nuovo per studiare, mentre continuavi a parlare con me. Di fatto facevi tre cose diverse nello stesso momento: parlavi con me, leggevi il libro di storia e riscrivevi le cose importanti. Studiavi applicando il migliore dei metodi di studio: quello di trascrivere i concetti e fissarli per iscritto, ma allora non lo sapevo, e non lo avevo ancora capito. Ma, come facevi a studiare se parlavi con me? Quello che mi colpì, però, fu il tuo rapporto con il libro di storia: uno sguardo sdegnoso, concentrato, che era di superiorità, nei confronti della pagina del libro che stava sul tavolo alla tua sinistra; il mento appoggiato sul pugno del braccio sinistro, mentre con la destra scrivevi quello che ritenevi di trascrivere, con la tua grafia serena, chiara ed elegante su un quaderno. Mi fece impressione, ricordo, il fatto che il quaderno era tenuto fermo dal braccio che scriveva.

Capii che non potevi perdere tempo, ma tu, anche stavolta non mi toglievi niente, perché rispondevi alle mie parole e continuavi a conversare (mentre continuavi a scrivere).

Compresi esattamente che ce la stavi mettendo tutta, e che ti eri impegnato a vincere quella scommessa. Andai via salutandoti, mi vergognai un poco per avere chiesto la utilizzazione di appunti fatti da te, che tu avevi perché avevi già svolto quella parte di programma, e lungo il ritorno a casa allungavo il passo per cercare di non perdere tempo togliendolo allo studio. Cercavo di imitarti almeno in questo.

Quell’anno tu ed io non ci parlammo molto. Avevo l’impressione che tu venissi a scuola per riposarti. Capivo che tu studiavi molto, ma facesti pochissime assenze, forse due o tre giorni in tutto l’anno, e comunque, di meno di quanto non eri solito farne negli anni precedenti. In realtà, eri sempre lo stesso, nel carattere e nell’umore. Unica differenza che notai su di te fu nel viso. Mi sembrasti solo un po’ più pallido, un poco più magro.

6. Così, giunse la fine dell’anno di quel nostro secondo liceo classico. Tu fosti promosso con voti altissimi, e acquisivi il diritto[1] a sostenere gli esami da privatista per conseguire il Diploma di Maestro. Graziella Modica, invece, si trovò rimandata a settembre con cinque nel solo latino. La scuola di una volta era diversa, la pensavano giusta, e Tuzzu La Rosa, che non volle venire a compromessi con se stesso, in effetti distrusse una speranza. Come dire: summa justitia, summa injuria! Ed era (paradossalmente) ingiusta proprio per il suo amore  per la giustizia. Graziella, poverina, pianse molto e forse piange ancora al ricordo di quell’anno infausto. Tu, invece, ti presentasti agli esami da solo, e li superasti, e a casa tua dovresti avere il papiro di quella impresa che nessuno ha mai cantato e che forse neppure i tuoi figli potrebbero capire.

L’anno successivo, al terzo liceo, eri fra i banchi con noi, scherzoso come sempre, ma mi sembrò che il tuo impegno fosse scemato ancora un po’. Come un nobile, ricco e grasso, mentre noi studiavamo duro, tu, sereno, vivevi di rendita. Ora ti godevi il meritato riposo. Come sempre, comunque, sapevi tutto. Anche questa volta, come alla quarta elementare, la tua superiorità non offendeva nessuno. Io ti percepivo come sempre. Tu non avevi vinto su di me che mi ero defilato da quella impresa, ma avevi vinto per te e su di te. E tanto ti bastava.

7. Dopo la maturità liceale ti perdo di vista. Poi mi informo e so che sei a Roma. Hai vinto un concorso alla Ferrovie dello Stato o al Ministero, non ricordo. Insomma, avevi scelto di lavorare, o forse non avevi scelta. Il mio desiderio era di incontrarti, e ti venni a trovare nel posto di lavoro, in una stanza luminosissima, piena di luce perché una parete molto alta era tutta finestre.

Mi dicesti che facevi il segretario di un sindacalista, una persona che poi vidi e mi sembrò un uomo molto avvenente oltre che importante. In quella stanza, in quel momento, mi sentii scomodo, quasi con un senso di colpa nei tuoi confronti, perché io frequentavo l’università con i soldi di mio padre, mentre tu che avresti dovuto più di me avere il diritto di frequentare l’univer-sità facevi il segretario di qualcuno. Io non ti vedevo segretario di nessuno. Ma tu accettavi. Non recriminavi. Non ti lamentavi. Non invidiavi nessuno. Accettavi quello che la sorte ti dava con una rassegnazione unica, quasi con allegria. Perlomeno, così pensavo io. E quanto sopra, ritengo di poter affermare perché io ho conosciuto tante persone, e tutte hanno avuto sempre qualcosa di cui lamentarsi: della sorte, degli altri, del mondo, della politica. E fra questi ci sono sicuramente anch’io. Ma tu non hai mai parlato male con me di nessuno, e questo non è nella natura degli uomini e tanto meno dei modicani. In questo eri simile a mio padre. Persone rare, uniche.

Di quella visita ricordo che bussai a una porta, ti vidi seduto a un angolo davanti a una macchina da scrivere, mi sorridesti,  mi venisti incontro e insieme ci avvicinammo al tuo angolo di lavoro discutendo; ma, appena seduto alla tua scrivania, con molta discrezione cominciasti a infilare fogli nella macchina da scrivere e continuasti a lavorare. La scena era la stessa di quelle che già conoscevo: quella di quando studiavi a casa tua, leggendo, scrivendo e continuando a conversare con me. Io avrei voluto andar via, pensavo anche di disturbare, nel senso che interrompevo il tuo lavoro, ma tu mi esortasti a continuare la conversazione. E questa fu la scena. Tu avevi alla tua destra un mazzo di lettere alle quali dovevi rispondere, e in realtà leggevi, battevi sui tasti con due sole dita, ad una velocità incredibile (ma dove avevi imparato a scrivere a macchina, mi chiedevo!); nel mentre partecipavi alla conversazione parlando, scrivendo, leggendo, sfilando fogli quando la lettera era finita e girando pagine per iniziare a rispondere a un’altra lettera. Ricordo che mi avvicinai incredulo alla tua macchina da scrivere e ai fogli che avevi scritto per cercare di vedere con la coda dell’occhio, come san Tommaso se era vero o frutto di allucinazione la scena alla quale stavo assistendo. E notai che le lettere erano scritte sul serio con una impaginazione elegante, professionale. Questo sei stato tu da sempre. Lavoro, senso del dovere, precisione, perfezione, onestà.

8. Poi cambiasti reparto e lavoro, questa volta sotto la direzione di un capo che misurava il lavoro ai suoi dipendenti. Poche pratiche al giorno e il lavoro si accumulava. Alla tua velocità tu sbrigavi le tue cinque pratiche quotidiane in cinque minuti e poi stavi ad annoiarti tutto il giorno. Ma, anche in quell’ufficio venne l’estate, il dirigente andò in ferie e tu suggeristi ai tuoi colleghi di far trovare al capo il lavoro smaltito, finito, fatto, ritenendo di fargli una cosa gradita. Il mese di ferie volò, il capo ritornò, e visto il lavoro smaltito si incazzò, ti rimproverò, tornando a fissare la regola. Le pratiche da fare dovevano essere cinque al giorno! Questa volta – povero Gino Mariella - avevi sbagliato qualcosa. Mi raccontasti tu questa storia qualche tempo dopo e più che disappointed o amareggiato, mi sembrasti smarrito per il fatto che non eri riuscito a capire qualcosa degli uomini, della vita.

L’altra pagina del mio album di ricordi ti rivede quando abitavo al numero 65 di via della Frezza a Roma, e venivi a farmi visita. Ora sei vestito elegante. E’ inverno e indossi un cappotto spigato, forse anche questo a righe marroncine e bianche. Ma mi pungeva non poco percepirti lavoratore o segretario di qualcuno e senza laurea: proprio tu che ai miei occhi portavi in testa l’alloro della laurea.

Andavamo a cenare in una rosticceria in via del Corso, e una volta indugiammo non poco a guardare le belle gambe accavallate di una bella cassiera e io mi trovai a fare un commento che poi dimenticai e che tu mi hai richiamato alla memoria qualche tempo fa.

9. Ma il tempo passa, e di nuovo ci perdemmo di vista. Molti anni dopo che ero andato via da Roma ed ero già sposato (ma forse anche tu eri sposato) tornai a informarmi di te e venni a trovarti una estate, in una casa al mare, alla Filippa di Donnalucata, a sorpresa, questa volta. Un abbraccio, un sorriso, lo scambio di quattro parole. C’era mia moglie con me e rividi tua sorella.                

10. Un altro paio di volte ti venni a trovare in un ufficio alla Stazione Termini, forse quando venivo a Roma per concorsi. Dirigevi qualcosa. Gestivi appalti di treni andati in disuso e traghetti delle Ferrovie dello Stato da smantellare. La parola appalti mi fece pensare che l’ufficio avrebbe potuto essere poco pulito. Un luogo dove ci si poteva sporcare molto facilmente. Ma io pensai che Gino Mariella non avrebbe mai fatto nulla che avrebbe potuto macchiare la sua coscienza e non farlo dormire sereno di notte. Comunque, incrociai le dita e mi rivolsi a Chi ti ha protetto da sempre e vigila su di te.  

A quel tempo abitavi già a Via delle Cave, n. 4. Mi desti l’indirizzo e i numeri di telefono. Forse mi dicesti che ti eri laureato. Dico “forse” perché non sarebbe stato nel tuo carattere dire a qualcuno: “Mi sono laureato”, come non avrai mai detto a nessuno: “Io ho due diplomi di scuola superiore”. Discrezione, modestia, educazione. Sei sempre stato splendido ai miei occhi.

11. Quest’anno, infine, Gianni Barone in visita a casa mia suggerì: “Perché non telefoniamo a Gino Mariella!” Colsi al volo l’idea e ti telefonammo. La sorpresa per me fu quella di sentirti piangere dall’altra parte del telefono. Tua moglie stava male e  dicesti una frase che mi sconvolse. Dicesti: “Qualcuno mi pensa!” Una frase che alle mie orecchie arrivava assurda, quasi come un ronzio di mosche. Proprio a me che ti ho pensato sempre come a un modello di vita mi dicevi: “Qualcuno mi pensa!” Ma io non sono qualcuno. Io sono un testimone della tua vita e so io cosa dire di te a Qualcuno se Questi avrà bisogno di testimoni. Dirò che la vita per te è stata “rispetto” degli altri, del lavoro, amore, senso di responsabilità e del dovere, onestà. Parola che oggi non trovi più nei vocabolari, concetto che non pare possa ascriversi più a nessuno.

Io, ai miei alunni, non ho mai mancato di parlare di te, mio caro Gino Mariella, di un tale che quando era bambino era già adulto anche se ha custodito sempre un fanciullo dentro di lui.

In quella telefonata compresi la tua sofferenza. Capii, allora, ma lo avevo già capito nel passato, che tua moglie, per te è tutto: la madre che non hai avuto, tua sorella Iolanda che non era vicina. Capivo che tua moglie era stata il tuo tutto.

Di tua moglie, che io non conosco, mi avevi parlato già prima nel mezzo di qualche conversazione, e avevo sentito il profumo di lei senza vederla, come accade quando sei in un giardino e senti l’odore di un fiore senza vederlo. Capii che Lei era stata per te il porto dove avevi fatto riposare il tuo cuore, il tuo immenso bisogno del femminile e abbracciando Lei abbracciavi tutte le donne di cui avevi sentito il bisogno nella vita e che non avevi avuto. Doveva essere qualcosa di sublime, certo di diverso, questa donna, e tu, allora mi sembrasti felice, parlando di Lei. 

In quella telefonata capii ancora che nella vita avevi accettato tutto, ubbidendo alla legge spietata della necessità, ma ora non eri disposto ad accettare una ipotesi: che anche i tuoi figli, come te, potessero restare senza madre e tu senza l’affetto di un modello di moglie-sorella e madre. Per patire questa tremenda punizione dovresti aver commesso una colpa. Ma quale? Il diritto di questa società insegna che le punizioni si scontano se ci sono colpe. Ma un figlio, quale colpa ha commesso per non avere avuto una madre? Questo potresti chiederti. E qui non c’è spiegazione. Qui la logica è risucchiata dal mistero e riusciamo a stento a comprendere con la nostra piccola intelligenza che Dio è grande, e noi siamo parte di lui.

12. Ti voglio bene, mio carissimo Gino. Io non ho invidiato mai nessuno, ma ho solo ammirato alcune pochissime persone. Tu sei una di queste.

13. Questo è il ricordo che ho di te. E ora che hai aperto uno studio di avvocato mi confermo nell’idea che da sempre, a giro di vite e dando tempo al tempo, sei riuscito a realizzare i tuoi obiettivi, i tuoi sogni. Un augurio. Che tu e la tua famiglia possiate vivere sereni per ancora altri mille e poi ancora mille anni e che i tuoi figli possano capire veramente cosa hanno per padre. Un uomo. Un uomo eccezionale. Un uomo etico!

                                                       Gino Carbonaro


Ragusa/Roma 12 ottobre 2002     







P.S. L’11 settembre 2004, due anni dopo questa lettera, mi hai telefonato dalla “Filippa” e sei venuto a casa mia. Abbiamo pranzato insieme. Mi hai portato un regalo: i tuoi figli, Luca e Stefano, i tuoi gioielli. Dolcissimi, educatissimi, bellissimi, pieni di salute, intelligentissimi come il padre e di sicuro come la madre. Avete sommato le qualità di entrambi voi due e le avete moltiplicato in maniera esponenziale. Come sei fortunato sotto questo aspetto. Come siamo fortunati anche noi sotto questo aspetto. E tua sorella, la dolcezza personificata. Che bella giornata. Che bel regalo che mi hai fatto. Peccato! era l’11 settembre. Un grande giorno. Ti voglio bene Gino. Io non ho avuto un fratello. Mi capisci?  Ora, ti prego, quando parli con tua moglie, la sera, quando spegni la luce, dille di me.













[1] Era necessario essere promossi a giugno per poter sostenere gli esami di maturità magistrale. Ed era un principio illegittimo, perché agli esami di Stato  dovevi poi presentare tutto il programma dei quattro anni!  Oggi è diverso. Oggi si portano programmi e parti di programma non volto.