2019/02/07

STAGIONI di Silvia Cecchi





Silvia Cecchi

STAGIONI

Risultati immagini per CECCHI SILVIA MAGAZIN
                                                     
                                                                di Gino Carbonaro




Silvia buongiorno,


   Ho ricevuto solo oggi, l’atteso tuo libretto, “Stagioni”. Gli ho dato subito uno sguardo curioso, e intuisco che si tratta di un lavoro impegnato nella accezione classica che al sostantivo “impegno” dà l’esistenzialismo contemporaneo. Ma, ho capito anche che non si tratta di poesie da lèggere, ma da centellinare. Questo perché ogni concetto, ogni passaggio, spesso legato alla poesia ermetica, costringe il lettore a meditare, a riflettere sui messaggi che tu, da poetessa, proponi. Se è vero poi che in tutto ciò che si scrive, si riflette la nostra personalità, il nostro rapporto con la realtà, la nostra filosofia dell’esistere, va detto che a me interessa cogliere questo contenuto della tua poesia, e mi sono accorto in appresso che tu non fai eccezione alla regola.


    Alla lettura di queste poesie, dense di contenuti forti, colpisce la incisività graffiante dei concetti, delle parole, la volontà decisa di cogliere il messaggio delle cose, ma altresì l’equilibrio e la dolcezza di una forma che coinvolge il lettore, poesia che nutre e invita a meditare.


    Scriveva Catone, “Per nebulas scimus”, siamo circondati da una nebbia profonda, centrando un principio del nostro rapporto con uomini e cose. Di tutto cerchiamo spiegazioni, per comprendere il senso del nostro esistere, del nostro cammino in questo mondo. Capire per progettare. Ma, la tua poesia rileva la impossibilità di cogliere il tutto calato nello spazio e nel tempo.  Difatti, in apertura scrivi..


”Che vuoi che me ne faccia dell’eterno?”,


dell'immenso, della trascendenza. A te, cara Silvia, basta cogliere l’attimo, il frammento, l’effimero che contiene il tutto. Noi siamo esseri


“... gettati in questo mondo”.


E siamo al centro della problematica esistenziale. Questa è la percezione della realtà, quella che accetti, ed è filosofia che sostiene il tuo pensiero, che tu intendi come “Vox” che indaga nel deserto nebuloso che ci circonda.


    E della realtà? Possiamo conoscere solo quello che riusciamo a cogliere in un flash di momenti che si impongono alla nostra attenzione. Ed è allora che la conoscenza si trasforma in estatico godimento dei sensi, conoscenza che non può essere trasmessa con le parole, perché


“Tu  sai le cose
fin dove arriva il nome.”


Noi possiamo chiamare le cose per nome, come tu scrivi, ma in questo caso, la conoscenza ha il peso, la lunghezza e lo spessore delle parole usate. Il resto è nebbia (o il Nulla) che circonda la realtà visibile.  Paradossalmente, è solo lo sguardo che coglie


“... l’effimero sognare da sveglia”,


l’attimo fuggente, che accende una luce perché


“Tutto si perde, anche la luce
di bosco sospesa sulle foglie
anche il filo d’aria,
tesa da ramo a ramo.”


Ed è indagine sensitiva del pensiero, che viene colta in momenti eccezionali. Il banale che si fa sublime


“... quando un merlo, te  distratta,
si ferma sul ramo di maruga
tutto spini e fiori saporiti
ad ogni maggio che torna
davanti alla finestra aperta,”


... e ti fa perdere la cognizione del tempo, e ti fa sognare, godere, capire, forse, e non sai più dire

“Se sia passata un’ora, o giorni,
e quante volte
è sfiorita la robinia e rifiorita.”


Ed è esperienza forte sentire


“.. il gorgogliare del torrente,
gli stridi alti delle tàccole
e dei falchi, il vento che rúgghia (…)
Si perdono i nomi
Fontefredda Rivosasso Gretosecco
e più cammini e più si fa lontano
il ruvighìo di vite in fondovalle”.


E in tutto, la forma di una realtà che senti vivere in te, e non resta altro che una consapevolezza,


“..l’ignota meraviglia di essere stata".

Ed è chiusura che non poco fa riflettere sul senso di questa poesia intrisa di filosofia.
                                                                                                                                                                       Gino Carbonaro



P.S. Ho parlato della poesia di Silvia Cecchi, ma non mi sono soffermato a fare i miei complimenti ai bellissimi disegni del pittore Oliviero Gessaroli, opere che impreziosiscono il delizioso libretto. "Disegni", è scritto (con lodevole understatement) che interpretano l'atmosfera del libretto, ma che vivono nella sua forma figurativa con uguale forza e dignità, una bellezza unica, quella che poteva essere realizzata solo da un artista che sa cosa è la pittura, quale è la funzione dei colori, come si gestiscono i rapporti tonali, come si può cogliere e bloccare il senso del bello all'interno di uno spazio. Ancora i miei più vivi complimenti.   

      

2019/01/17

Michele Giardina Il ponte di Genova




Il ponte di Genova 
Michele Giardina

Pozzallo 16 gennaio 2019


PremessaIl 28 gennaio 1986 alle ore 11,36 uno shuttle spaziale  esplodeva pochi minuti dopo essere partito. La navicella spaziale imbarcava 5 uomini e 2 donne di equipaggio. Da Terra gli osservatori shoccati non credevano ai propri occhi. Una sociologa che aveva osservato la tragedia commentò: la tragedia che abbiamo appena notato riflette il disordine che esiste nei laboratori che hanno progettato e costruito lo shuttle. Ed era l'epigrafe che si poteva apporre sulla tomba di quei piloti sacrificati qualora ci fosse stata una tomba. La considerazione fatta dalla ignota sociologa sulla tragedia dello shuttle americano si adatta perfettamente  alla tragedia del Ponte di Genova. La causa della tragedia è da ricercare in un disordine che caratterizza la vita sociale italiana.

     Un mese fa, il nostro Michele Giardina aveva appena finito di presentare il suo ultimo libro

“Mal di mare”

quando, mi telefona per comunicarmi che aveva finito di scrivere un altro libro, e che lo avrebbe pubblicato entro gennaio del 2019. Si trattava di un dossier, titolato

“Il ponte di Genova”,
considerazioni sul “Ponte Morandi”

crollato il 14 agosto 2018. Disastro storico, che ha fatto registrare 43 morti, centinaia di feriti, danni per miliardi e disagi incredibili alla città di Genova.

      A questo punto, le mie considerazioni personali:

1.        La prima riflessione discendeva dalla relativa “prolificità” letteraria di questo scrittore., il quale mi fa leggere un suo libro con cui si chiude l’anno  2018, e ne ha già pronto un altro per il 2019.  

Io che qualche libro ho scritto, so che "un libro è un libro".
Un libro è come un ponte, per costruirlo ci vuole tempo, studio, materiale, attenzione, professionalità.

   Insomma, mi sono sorpreso, non poco, ma, siccome conosco il Michele Giardina scrittore, ho pensato che si potesse trattare del canto del Cigno. 
Tchaikovsky ne ha fatto un capolavoro.

2.        La seconda considerazione che però ho tenuto dentro di me, è stata quella di credere che questo tema (un ponte che crolla) non può interessare granché un lettore.  Dunque, un tema caro solo al sentire del giornalista, anche se le vere notizie sono sempre legate a una grande sventura: tsunami, terremoti e altro.

     Comunque, tenni per me le considerazioni, e ricevuto il libro che il mio amico mi inoltrò in  pdf, cominciai a leggerlo. Ma, mi accorsi quasi subito che mi sbagliavo. Perché? Mano a mano che andavo leggendo sentivo come un senso di vergogna. Mi accorgevo che l’argomento, importantissimo, era un tema che io tentavo di rimuovere. Difatti, queste notizie non belle entrano dentro di noi e scompigliano i meccanismi di difesa che il nostro inconscio crea attorno a noi per proteggere la nostra serenità.

     Gli eventi, tragici, sono come terremoti sociali e mentali, difficili da decifrare, che fanno male alla psiche. Sono terremoti sociali che subito si trasformano in terremoti mentali, psicologici, perché nessuno vuole ascoltare di  disastri e sapere delle digrazie altrui. Insomma, di fronte alle cose che fanno male, cerchiamo di difenderci con la tecnica dello struzzo.

     Ma, a leggere il libro di Michele Giardina, non è possibile fare gli struzzi. Lo scrittore ti acchiappa e ti costringe:

a.    A leggere i fatti,
b.    poi a riflettere, pensare, e trarre le necessarie considerazioni, dunque
c.     a meditare.

     Di fronte a questi eventi, la prima domanda che ognuno di noi si pone è ..

·      Ma come è potuto accadere?
·      Ma, non ci sono persone che controllano?
·      E non c’è nessuno che controlla i controllori?
·      Ma, chi gestisce il pacchetto delle autostrade?

   Ma, può accadere? che una famiglia (una qualsiasi famiglia di questo mondo) decide di andare al mare il giorno prima di ferragosto, il 14 agosto, in piena estate, per fare prendere un po’ di sole ai bambini e far respirare un po’ di aria iodata alla moglie, carica la macchina con ombrellone e altro, mette in moto, parte felice, entra in autostrada fermandosi prima per pagare il pedaggio, e dopo un poco si vede volare come un uccello per capire, senza averne colpa, come è l’inferno, prima di lasciare questa triste realtà, e giungere con tutta la famiglia nell’altro mondo.

     Ma, dove sono i responsabili, dove erano prima, in piena estate? Al mare? In vacanza? in Italia, all’estero, sotto gli ombrelloni? Nelle loro ville di lusso, a pranzo con il loro esercito di avvocati? Serviti da un altrettanto nutrito esercito di camerieri?

     A questo punto nello scrittore Michele Giardina  si sveglia il giornalista di razza (l’Uomo!) colui che per anni, giorno dopo giorno, ha potuto constatare  sul campo tutto ciò che in questa società ha bisogno di essere rilevato e corretto. Tutto ciò che non va.

     La sua voce di giornalista è stata sempre come un ruscello di acqua che scende impetuoso dalle montagne, ma adesso, di fronte a questo evento che è terremoto sociale, di fronte a un fiume che tracima, la notizia ha bisogno di un fiume o anche  di un oceano di parole. Di un libro intero!  Di un dossier che deve mettersi agli atti della storia, perché non si dimentichi. Ci accorgiamo tutt’ad un tratto di trovarci davanti a un libro di sociologia, di politica, di etica tradita, ma anche di giornalismo puro, e anche di filosofia, quando lo scrittore ci fa porre la domanda..

Ma, in che mondo viviamo?
    
      Insomma, “Il ponte di Genova” si rivela essere un libro con la “Elle” maiuscola, un libro che è un 
J’accuse

che parla di malcostume, di responsabilità, di possibili connivenze, di poteri occulti, di assassini (perché di omicidi si tratta per i 43 morti coinvolti nel crollo di un ponte) di colletti bianchi (intoccabili), di superficialità (imperdonabole), di burocrazia (insensibile), di menefreghismi, di manciugghia, cancrena, di incurabile cancro sociale, di amministrazione pubblica che esiste, ma non esiste, che invece di risolvere i problemi, (perché questo è il suo compito istituzionale) è lei  a rappresentare il vero problema di una società malata, che nessuno riesce a curare.

Burocrati (o burosauri) potenti,
inattaccabili, dal potere immenso.

     Insomma, questo  ultimo libro di Michele Giardina si configura come  Testamento di chi, dopo anni di lavoro sociale, come giornalista, torna a fotografare una realtà che non cambia, che ruota su se stessa. 
E pone l’ipotesi allarmante che il

Ponte Morandi

possa essere  il  simbolo di una Italia malata.

     Ponte attaccato dall’ossido di ferro e dalla Burocrazia anch’essa ossidata, inamovibile, pachidermica, anchilosata, che non ha fretta, che, non controllata da nessuno, dimentica i suoi doveri e li rimanda. E scopre il nostro scrittore che tutto in Italia e nella società, tutto è ponte, e il ponte è pur sempre un patto sociale che non deve mai dissaldarsi e peggio che mai, crollare. Un ponte unisce. Invece, il nostro Michele, elenca, a decine, le metafore di ponte crollati perché dissaldati nella loro struttura, a partire dalla tragedia del Vajont, Longarone, disastro mostruoso, con 1910 vittime, assassinate dalla superficialità e dagli interessi di irresponsabili personaggi che sono sfuggiti alla punizione. E ricorda la tragedia del Moby Prince. Due navi che si investono perché, messo il pilota automatico, i responsabili della nave (imperdonabile superficialità)  erano andati nel salone della nave per godersi la partita di calcio trasmessa in televisione. I passeggeri? Arsi vivi. Responsabilità? Nessuna responsabilità! “C’era la nebbia e le navi non si vedevano”. Ma, la vera la nebbia è quella che “qualcuno” vuole infilare nel nostro cervello per non farci vedere.

     Sono notizie, quelle che Michele Giardina elenca, notizie crude, che fanno male e costringono a dire:

Ma, in che mondo viviamo?

Interrogativi che si allargano a macchia d’olio.

     A questo punto il libro non interessa solo la sociologia o la politica, ma diventa, come si è detto, un libro di filosofia, in quanto si pone delle domande che attendono delle risposte.

La prima considerazione che fa Michele Giardina  è la seguente:

Le società poggiano sulla morale.

Anzi, tutto poggia sulla morale. Anche la religione. La famiglia, l’umanità tutta. E tutto dentro ognuno di noi deve poggiare su un solido programma morale.

Senza etica non esiste società,
esiste un aggregato umano  che non ha obiettivi sociali, ma egoismi.

     Anche questo libro nasce da una esigenza: dal bisogno di supportare 
la morale sociale spesso ferita.

     Ed elenca, il nostro Michele Giardina, una serie di uomini che  investono parte dei loro profitti per donazioni. Perché anche il capitalismo deve avere una sua etica.

Etica del Capitalismo

     Si tratta di grandi capitani di industria del passato e del presente. 
Si tratta di grandi filantropi.

           Qualcuno  potrebbe ricordare anche Schweizer, e lo stesso Nobel, ma il nostro Michele Giardina preferisce citare giustamente il mitico Andrew Carnegie, (Dunfermline, Scozia 1835 – Lenox, Massachussets, Stati Uniti,  1919) il primo storico filantropo, naturalizzato americano, il 5° uomo più ricco del mondo uno degli uomini più ricchi del mondo, che sovvenzionò fondò Università, Biblioteche, e regalò alla umanità Musei, Parchi.  Carnegie! Colui che sosteneva che non si può diventare ricchi senza arricchire gli altri.  E, il riferimento era fatto ad Adamo Smith, il primo grande storico ed economista,  altro scozzese.
    
     E poi, Bill Gates (1955) fondatore della Microsoft, il quale sostiene che un sistema sociale deve avere un forte senso dell’etica, e dona per questo e da anni, miliardi di dollari a organizzazioni umanitarie.

     Lo stesso vale per Armando Ortega, il proprietario di Zara,  e Mark Zuckeberg proprietario di FB, e così via, a dimostrare che è possibile far convivere gli utili e la morale.  Solo in questo caso la gioia del costruire è vera e totale.

Le mie impressioni sul Libro. Cosa mi ha dato?

Il libro mi ha fatto pensare. Ed è il più grande riconoscimento alla grandezza di un libro. Un libro deve far pensare. Non aggiungo altro.




2018/12/28

GOFFRILLER . Quintetto (ARCHI e Pianoforte)



Quintetto Goffriller

al Teatro Garibaldi di Modica
Dicembre 2017

                                             di Gino Carbonaro

Nanni (Cultrera) carissimo, grazie per questa proposta musicale. Mi riferisco al quintetto Goffriller.  Avevo capito a volo, alle prime note lanciate, che si trattava di un ensemble diverso, di-verso dagli altri che comunemente si ascoltano anche con piacere.  Qualcosa mi faceva capire che ci stavamo trovando davanti ad una compagine eccezionale. E così è stato!

Le note eseguite erano sempre delicatissime, controllate, dosate, tenute a freno, quasi suggerite, per esser consegnate al pubblico di spettatori come elementi preziosi.

Impressionante per me il fatto che Mozart e Schumann, due mostri sacri del nostro passato musicale, nelle loro mani sono diventati immensi. Le frasi musicali seguivano sfumature di colore capaci di evocare sensazioni incredibili.

Io non sapevo (non sapevo!) e forse non immaginavo, per esempio che Mozart fosse tre volte più grande di come da sempre avevo pensato io.

Grandissimo Mozart, per merito di una grandissima ensemble che mai dimostrava le enormi difficoltà tecniche e interpretative gestite sempre all'unisono perfetto.

E, cosa è accaduto alla fine con Oblivion di Astor Piazzolla, che non è composizione facile, contrariamente a come si può pensare. Oblivion è nato per bandoneon & ensemble, ma il Quintetto Goffriller lo ha riproposto con una originalità impensata. Arrangiamento? O  nuova interpretazione dei brani ad opera del Quintetto? In realtà, di Piazzolla, di Gardel (Por una cabeza), di Mozart e Schumann, i nostri eccezionali musicisti cercavano di cogliere il messaggio, la proposta musicale, la filosofia, la cultura, l'anima.

La loro preparazione tecnica (eccezionale) era solo un mezzo necessario per esprimere/interpretare/cogliere l’anima dei compositori.

Ma, forse sto dicendo che questo concerto è sicuramente uno dei più bei concerti che ho ascoltato nella mia vita.

Molti sono i musicisti che suonano bene, ma nessun gruppo musicale da me ascoltato in passato è riuscito a toccare il fondo della mia anima, a farmi sentire la potenza dei grandi compositori e soprattutto che cosa è la “vera” musica. Chiudo col dire che in questo concerto straordinario, quello che mi ha colpito maggiormente è la "Cultura" di tutti i componenti del gruppo. Cultura ripeto, in quanto "Tutti" erano consapevoli del fatto che la musica vera è il risultato di una magia costituita da rapporti sonori, intelligenza, sensibilità, che veicolano sensazioni, equilibri, armonie, sentimenti, strutture inspiegabili di suoni, che non è facile intuire, cogliere, ricreare e ricostruire facendoli passare dalle note riportate nello spartito alla realizzazione sonora che va intuita e capita.

Senza una consapevole cultura (musicale e non) che deve stare alla base di tutto, si può restare musicanti e mai essere musicisti, e non sarà possibile realizzare il sublime miracolo di questo indimenticabile concerto.
A fine concerto, tornando a casa, ripetevo ossessivamente: "Che grande concerto!", "Che grandi musicisti!" "Che fortuna che abbiamo avuto stasera".

Buona notte Nanni, buonanotte a quello (sto parlando di te) che da tempo considero uno dei motori della cultura Iblea e siciliana, mentre cerco di non dimenticare che la musica è la vera Religione di questo mondo, colei che rende fratelli uomini (e donne) di tutte le razze.      

Gino Carbonaro       

2018/12/20

TOTÒ STELLA un ricordo


Totò STELLA (-cometa) 



     2 luglio 2017. È andato via  Totò Stella.           
    
     Un uomo unico, diverso, irripetibile. 
Cultura, dolcezza, discrezione, sincerità, onestà intellettuale, accettazione della sofferenza, amore per il creato, per la natura, piante, animali, tutto accolto con una profondità di pensiero unico.  

     Era bello stare con lui. Bello sentirlo parlare, ascoltare le sue considerazioni, sempre profonde, puntuali, vere. 

     Io che ho letto Aut-Aut di Søren Kierkegaard, opera dedicata all'uomo etico, ho sempre ritenuto che Totò Stella fosse/era un uomo ETICO che avrebbe potuto venir fuori solo dal Vangelo dettato da Gesù. 

     Modestia estrema gli impediva ogni possibile velo di narcisismo. Mai mise in luce la sua poderosa cultura, le sue estese conoscenze. Mai parlò male di nessuno, mai usò violenza contro qualcuno.  

     La sua vita era pulita, candida, segnata da un forte equilibrio e da un senso di rispetto verso  l'uomo. Di qualsiasi condizione sociale, da qualunque parte del mondo fosse venuto. La sua filosofia era il dovere e il rispetto verso tutti.

     Oggi, 18 dicembre 2018, l’Istituto Magistrale G. B. Vico, dove insegnava, si è attivato per titolargli l'Aula Magna, per ricordare i meriti di questo uomo che ha lasciato il segno della sua bontà e del suo carattere in tutti coloro che lo hanno incontrato, ascoltato, apprezzato. 

     Io posso affermare  che il suo equilibrio ha inciso fortemente le nostre coscienze. Possiamo averlo come modello, ma non è facile imitarlo. Tarderà a nascere, se nascerà un uomo di tale spessore culturale e carisma, di tale dirittura morale.   

2018/12/17

Elogio della FISARMONICA



La mia fisarmonica
Una dichiarazione d'amore



      Da quando avevo 12 anni, la fisarmonica è stata la mia compagna, il conforto della mia vita. 

     Non è facile dire cosa abbia di diverso da tutti gli altri strumenti, ma quando apri il mantice e lo metti in tensione per esprimere il suono, ti accorgi che la fisarmonica ha un'anima. 

    Quel mantice è il polmone di uno strumento che respira, strumento che è vivo, a cui tu affidi i tuoi sentimenti, le tue sensazioni.  

    Parlo di mantice, perché la vita della fisarmonica (come quella degli umani)  è data dal respiro, cioè dai polmoni,  ed è nella pressione di questo polmone artificiale, nella delicata modularità del suono,  che tu puoi entrare in contatto con le parti più profonde e meno conosciute di te stesso. 

     La fisarmonica è  strumento che soffre, che piange, che sorride, strumento che ti prende e ti trasporta in un mondo altro. 

      Per anni, cosa da non credere, per anni ho ritenuto che la fisarmonica fosse lo strumento dei mendicanti, dei poveri, strumento che aveva alcunché di buffo con quel suo aprirsi e chiudersi  in modo strano, strumento che tutti ritenevano come un nato illegittimo nell'universo degli strumenti musicali.

     Fisarmonica!? Anche il nome è strano. Difatti, cosa vuol dire questa parola? Per questo, gli addetti ai lavori (i musicisti professionisti) l'hanno sempre guardata con distacco, quasi con la puzza al naso. Come qualcosa che avrebbe potuto stimolare il singhiozzo o il vomito. Qualcosa da cui tenersi alla larga. Ed è proprio da quella prima percezione non-positiva o pregiudizio, che la fisarmonica non si è ancora liberata,  ed io stesso, per decenni, mi sono ritenuto un "musicante" di bassa lega, proprio perché non avevo scelto di studiare arpa, violino, tromba, pianoforte, cioè, uno strumento nobile. 

     Poi, un giorno la illuminazione. Capii da solo che la fisarmonica era speciale per la delicatezza, finezza, morbidezza con cui mi consegnava i suoni. Era la fisarmonica la grande interprete dei Tanghi argentini, e cominciai ad abbracciare quel mio amore in modo diverso: il braccio sinistro si collegò meglio con la mia anima, e il rapporto, mentale e spirituale, cambiò, e finalmente venne la musica, quella vera. Questo credo di avere capito. 

      Mi sono accorto da solo, e dopo tanti anni, che lei, la Fisarmonica, era stata da sempre la mia fedele amica, e da allora la incontro quasi tutte le sere, la abbraccio con dolcezza per fare l'amore con lei. Poi vado a letto sereno.  

ALTRE CONSIDERAZIONI

Una amica mi invita a riflettere sul mio rapporto con la Fisarmonica, cioè con la musica. 
La mia personale impressione?  È quella di ritenere che io ho un rapporto particolare
con il suono. 
Un rapporto che per me ha tutte le connotazioni di una malattia. Quasi droga, quando non suono, di necessità, vado in astinenza.

Rapporto, che io considero un modo per cogliere la parte più profonda e
sconosciuta di me stesso. 

Non c’è per me nulla di più bello del suono che viene fuori dalla mia fisarmonica. Tu crei la frase musicale, la produci, la consegni allo spazio, all’aria, a chi ascolta è colui che si predispone a cogliere il messaggio (non-verbale) dei suoni. 

     Basti pensare che mai  ho voluto interpretare "Les feuilles mortes" e "Ne me quitte pas" a coloro che solitamente sono distratti. La mia musica? Per me ha qualcosa di sacro. Dunque la rispetto. Comunque, adesso vado a suonare, e pongo l’ipotesi che anche tu che leggi mi stia ascoltando.    
      
     Musica? Ponte d'amore che lega due persone, due anime, e annulla le distanze. La musica è la vera religione. È il linguaggio dell’uomo nel suo non lungo viaggio in questo universo. 

                                      Gino Carbonaro  


Come è nato il mio rapporto con la musica e dopo con la fisarmonica? 


    Il primo contatto con la musica? Un giradischi, anzi un grammofono, che mio padre aveva acquistato prima di partire per la guerra. Era musica in casa. Bastava montare un disco di vinile 78 giri, marca "La voce del padrone", quindi girare varie volte una manovella per mettere il moto il piatto, e piano piano da una sorta di trombone veniva fuori la voce del padrone, la registrazione di una canzone.      
     C'erano canti, musica e quant'altro nei dischi di corredo al grammofono. E io? Ascoltavo e vivevo la musica. Un giorno, però, venne nello studio un violinista, voleva farsi riprendere (lui e il violino) per ricordo. Mia madre  colse l'occasione per scattare una fotografia anche a me, bambino di pochi anni. Va detto ancora che mio padre, grande amante della musica, si era fatta scattare  una foto con una fisarmonica. Era una bella foto, mantice aperto, mio padre sorridente, ed era foto che io guardavo spesso, anche perché era incorniciata ed esposta sul tavolo dove facevo i compiti. Ma non basta. C'era, a pochi metri dalla mia/nostra casa di Via Mormino Penna n. 48 a Scicli, la Chiesa di Santa Teresa, chiusa, ma non sconsacrata,  la cui chiave era in possesso di Donna Peppa, la vecchietta che mi adorava. Spesso apriva la Chiesa per qualche motivo, e allora, noi bambini che giocavamo fuori,  entravamo incuriositi. Donna Peppa ci lasciava fare e noi ci divertivamo a salire la scala a chiocciola per arrivare nel campanile, senza avere la autorizzazione a suonare le campane. Però, a metà della scaletta serpeggiante, che ci portava verso la cupola, dormicchiava, impassibile, coperto di polvere,  ragnatele, e cacatine di gechi e di topi, un organo. Quello sì, si poteva suonare, e Pinuccio, il mio amico del cuore e io provavamo a farlo suonare. Pinuccio pompava l'argano  e io come per suonare battevo i tasti coperti di polvere e ragnatele, mentre il suono veniva fuori miagolando, e  insieme gustavamo la magia di quel suono strumentale e strano. Non era musica, ma era intervento di bambini su qualcosa di sconosciuto. Una gioia, un divertimento. Una esperienza indicibile quel suono con cui parlava a noi uno strumento con il suo linguaggio sconosciuto.


*     *     *

   Ma c'era un'altra storia con la musica. La racconto.  

      Abitava nei dintorni della mia casa una famiglia di mendicanti che tutte le mattine passava nella piazzetta antistante la Chiesa di Santa Teresa. La cosa curiosa? La prima ad apparire seduta su un piccolo carro trainato da una cane bianco peloso e sporco era la matriarca, una donna senza gambe seduta su un carrettino, che procedeva tenendo in mano le redini che giungevano sulla bocca del cane. Subito dopo seguiva un vecchio,  certamente il marito, e ancora  dopo  il giovane figlio barcollante, filiforme, una sorta di asparago umano,  che abbracciava e faceva gracchiare una piccolissima fisarmonica, che stava quasi incollata al petto. Il ricordo di quello strumento rimase scolpito nella mia memoria. 


*      *       *
Altro rapporto con la musica

      Erano i primi degli anni Quaranta.  All'epoca mio padre era in guerra, ma la sorpresa per me fu quando tornando dalla guerra, il mio genitore portò con sé a braccio  un piccolo mobiletto di legno che io non avevo mai visto e che imparai a chiamare Radio. Radio che fu sistemata sul comodino accanto al letto e fu collegata con una serie di fili di metallo a loro volta agganciati nei tubi dell'acqua, che servivano come antenne per ricevere meglio le "onde" sonore.  Fu per mezzo di questa radiolina che per la prima volta ascoltai la musica interpretata e trasmessa da chissà chi. Per me quell'ascolto fu un miracolo, una novità, una cosa bella. Credo di avere ascoltato anche una bellissima canzone della zona balcanica. Così decisi di pensare dopo tanti anni.

     Sempre parlando di musica e canti, devo aggiungere  che la mia stanza da letto aveva una piccola finestra che si apriva sulla strada principale (era la via Mormino Penna al n. 48)  dove in piena notte passavano i carri, mentre i carrettieri cantavano le struggenti canzoni siciliane. Io ascoltavo la musica, il canto, senza capire le parole. Però, quando per caso mi svegliavo e mi facevo accarezzare l'animo da quei canti,  le mie guance si rigavano di lacrime.   Ritengo sia avvenuto così l'imprinting musicale su di me bambino. 
     Difatti, in seguito, la musica popolare siciliana diventò la mia musica. 


*     *      *
      Tanto premesso, aggiungo ancora che il mio primo strumento musicale fu il tamburo

Storia del Tamburo (manca)


      A questa premessa va aggiunto ancora questo. Quando avevo poco più di  11 anni (ora da Scicli, mio padre si era trasferito a Modica), tutti i lunedì si presentava nello studio un giovane barbiere per consegnare un rullino di negativi , che ritirava stampati il lunedì successivo, quando consegnava un altro rullino.       Dalle foto che ritirava, si capiva che oltre che barbiere era un fisarmonicista. Fisarmonica che io conoscevo per averla vista a mio padre (nella foto) e al mendicante che tutte le mattine passava da Via Mormino Penna. 
     
     All'improvviso, senza capire da dove mi fosse venuto, io, poco più alto di un metro e venti, avvicinai le mie mani al suo braccio, gli tirai la camicia, e mentre si girava per guardarmi gli chiesi se aveva intenzione di insegnarmi la fisarmonica. Gino Livia (si chiamava così) mi guardò dall'alto in basso, fece i suoi calcoli, e mi rispose: "Sì!" ... e  procuratosi un foglio di carta  scrisse il nome del libro che avrei dovuto studiare. Si chiamava "Bona", un classico libro di solfeggio. La lezione sarebbe cominciata il lunedì successivo.  

     Da quel momento (e per sei mesi) fu solo solfeggio: semibreve, minima, croma, biscroma, semibiscroma: una sofferenza inaudita per me che, studente di scuola media, in una scuola complicata e crudele, non trovavo il tempo per studiare. Difatti non fui mai bravo nel solfeggio e lo feci inalberare spesso, e non poco. Però, fu questa la partenza. In ogni caso,  quando il destino volle, il Maestro decise finalmente di cominciare lo studio della fisarmonica e ne fu acquistata  una con i tasti ridotti, per dita di me bambino, e si partì con lo  studio di uno strumento che da subito sentii come parte di me: tastiera e tasti a destra, bottoniera a sinistra, mantice al centro. Prime semplici composizioni. 

     Al cominciare, lo studio della fisarmonica, mi sentii respirare. Mi innamorai subito dello strumento e cominciai a studiare e impegnarmi  con passione. Però, dopo altri otto mesi di studio di fisarmonica, il mio maestro decise si emigrare in Venezuela, a Buenos Ayres, per aprire lì un più redditizio salone di barbiere, e mi lasciò con quello che mi aveva insegnato. In verità non  era poco, se da allora continuai da solo, senza maestro, da semplice autodidatta. 

     Col tempo, col tempo, ho scoperto tante cose dello strumento, e, forse, della fisarmonica ho capito altre cose, che il mio amato maestro non arrivò a insegnarmi. 

     Ora, che ne ho ottanta di anni, posso dire che la fisarmonica è stata la mia fedele compagna da più di mezzo secolo. Ora ho deciso! La porterò con me nell'aldilà, e suonerò sulle nuvole per rallegrare gli angeli. Spero solo che il sogno si possa realizzare.