Dr Distefano: Gino Carbonaro ha curato la
prefazione del libro della signora Rosa Agolino, a lui poniamo alcune domande.
Di cosa tratta il libro?
Di cosa tratta il libro?
Il libro “Rosa, la mia vita” è un
“memoriale”, cioè libro di ricordi, una testimonianza di ciò che è stata la
vita di questa donna, che nel suo ultimo filetto di Luna (a quasi novant’anni)
riesce a realizzare un sogno che teneva nel cassetto, quello di raccontare
alcuni eventi della sua vita, per consegnare a figli e nipoti (e ora anche a
tutti noi) un documento scritto di suo pugno, nel suo dialetto, che è quello di
Scicli.
Biografia? Proprio così. La signora Rosa,
racconta la sua vita e ci fa sapere che alla nascita, era molto brutta, con la
pelle scura come quella di una négara (negra), al punto che sua madre non
voleva farla vedere a coloro che venivano per farle visita. Subito dopo
racconta della culla , a naca a bbientu”, che allora si costruiva sopra il
letto matrimoniale sostenuta da due corde, E sua nonna e sua madre ne costruirono
una e la montarono per lei accanto alla “tannura” per riscaldare la
bambina che era nata a fine gennaio del 1927, quindi in pieno inverno.
Passa poi a raccontare eventi della sua
infanzia, e siamo al suo primo giorno di scuola quando accompagnata dalla madre si
presenta alla maestra, che non la fa entrare in classe perché…? Perché è senza
scarpe, scalza dunque, e senza grembiule, e con il vestitino rattoppato. Ma,
ecco cosa scrive la nostra Rusina:
“Ma matri mi purtau a scola scausa e cu na vistinedda tutta
aripizzata, però pulita. Appena mi vitta a maestra, ci rissa: “ Figghia mia,
raccussi nun ma puozzu accittari. Scausa! Almenu ci vuogghiu i causetti”.
Indecorosa povertà che la Maestra vorrebbe
esorcizzare invitando la madre (e la bambina) a tornare il giorno dopo. Ché
almeno venga con un paio di calze! L’evento fa riflettere tutti noi che viviamo
in queste epoche di grande sperpero e di grande confusione.
Il libro racconta ancora della fanciullezza e
della “giovinezza” della nostra protagonista, i lavori fatti a soli nove anni
nel ruolo di “criata” nelle famiglie abbienti, i lavori fatti ancora in
campagna a raccogliere carrube e olive facendo parte della “çiurma dei
raccoglitori”. E racconta ancora come a soli quindici anni, in una di
queste occasioni, aveva conosciuto quello che sarà suo marito, “Memmu
Trovatu, detto ‘u Sutturi”. Importante l’uso del soprannome, perché
nei tempi andati le persone venivano riconosciute solo con il sorpannome: Trovato
ne esistevano tanti, ma “Sutturi” ce ne era uno solo. Con lui rimase
“fidanzata” per cinque anni, tenendo i
contatti solo con gli occhi, da lontano, inviandosi messaggi solo per
mezzo degli amici.
Leggendo questo libretto, capiremo come si
svolgeva un fidanzamento, a quei tempi tenuto nascosto e segretissismo, e
sapremo ancora come si svolgeva il matrimonio dei poveri in Chiesa: il
matrimonio della nostra Rusina che indossava un vestito bianco sì, ma fatto
con la seta di un paracadute. E soprattutto senza anelli, perché non avevano i
soldi per acquistarne uno. E continuando ancora, ormai lavoratrice
all’interno dei grandi magazzini che selezionavano prodotti agricoli, iscritta
al partito comunista e alla CGIL, parteciperà attivamente agli scioperi contro
i padroni, che non intendevano pagare i contributi. Una sorta di Maria
Occhipinti sciclitana.
Quello che colpisce di più in questo piccolo
libro è la povertà, e soprattutto la “accettazione” della povertà e delle
sventure. Povertà endemica. Una “lotta continua” quotidiana, contro i
bisogni. Necessità assoluta di adattarsi alla realtà. Fra tutte le cose fa
impressione la guerra che i questi poveri improtetti socialmente erano
costretti a combattere quotidianamente contro lo spettro della fame. Fame e
sofferenze sono i motivi ricorrenti del libro. Vediamo insieme
alcuni passaggi:
- “Aviemma a travagghiari ppi forza. N’aviemma a dari ri viersu,
macari chiddi ra naca. Stapiennu a casa muriemmu tutti ri fami”.
- Havia nov’anni. Nun ci vulia stari a fari a criata. Ma,
a casa c’era fami.
- Stu travagghiu u sicutai a fari finu a 14 anni. Nun mi
piacia, ma avia fari pi forza. Pirchì a casa c’era fami nivara.
- Mi ravunu cincu liri o misi e ddui munnia di
frummientu, però, ma matri cu sti rui munnia ri frummientu m’havia a ddari
u pani ppi tuttu u misi e binievunu tri cuddureddi a simana pi tutta
a famigghia. Nta sta famigghia unni travagghiava comu criata a nov’anni mi
facieuno lavari i stissi linzola miei, ma facìa pacienzia perchì se nun ci
vulia stari, a casa c’era fami nivara.
- Era na simana ri Natali, na simana ri friddu ca
stapiemmu muriennu tutti, ma p’amuri ri uscari sordi, faciemmu pacienzia
tutti.
Gino,
scusa, ma non aveva un padre la nostra Rusina, e la madre non andava a
lavorare?
La madre, come scrive Rusina, era sempri “prena e figgliata, e novi figghi fìcia”,
famiglia piena di figli che la madre non avrebbe potuto portare con sé sul
posto di lavoro. Né avrebbe avuto a chi lasciare tutti questi
bambini. Il padre, c’era, ma solo per l’anagrafe - aggiunge lei -. Era un
grande lavoratore, ma quando la sera tornava a casa, era sempre “mpacchiatu”,
cioè ubriaco. Spendeva a vino i soldi guadagnati nella sua giornata di lavoro.
In altre parole, non si curava dei figli, né della famiglia.” Diamo
ancora la parola alla scrittrice:
- Magginativi chi miseria aviemmu nta casa. E ma patri ca
s’arricugghia sempri ’mbriacu, ca ni inchiemmu i panzi sulu che
barzelletti ca cuntava, ca chissi i sapia cumminari.
- Niavitri, tutta a famigghia parieumu ri luttu, tranni
ma patri ca s’arricugghia sempri mpacchiatu (ubriaco) e a matina sinni jia
sempri a travagghiari. Menu mali c’haviemmu a ma nannu, u patri ri ma
matri, ca nun ni lassava, né notti, né gghiuornu, e tutti misi a
munzieddu, pirchì a casa era picciridda.
Povertà? potremmo dire miseria?
La parola “miseria” ha linguisticamente
sfumature diverse. La miseria porta con sé il concetto di sofferenza, e
soprattutto di sventura, di infelicità, di squallore che chiama in causa
il concetto di tragedia. Nel termine “miseria” è compreso il sentimento di
compassione. Rusina e la sua famiglia non chiedono compassione. Paradossalmente,
suscitano ammirazione.
Questa famiglia non è misera, anzi, è costituita
invece da veri guerrieri della vita, personaggi potenti nella loro capacità di
reagire alle sventure, alla sorte, al destino. Sono personaggi che “accettano”
tutto, e si adattano a tutto. Che sopravvivono con niente. E nel
sopravvivere, nella loro decisa determinazione a sopravvivere, risultano
vincitori.
Con tutto ciò,
ci sono nel libro momenti in cui senti che la sventura ha il colore della
tragedia. C’è un evento che non manca di commuovere il lettore. Ecco cosa
racconta la nostra “Rusina” ed è documento sconosciuto di microstoria .
- Na ssi jiorna a na vicinedda i casa ci va mora
‘n-picciriddu ra stissa età ri ma frati. E siccuomu cci murìu ri ruminica,
nun-havia comu vistillu e vosa ssiri “accumutati” i robbi ri ma frati e
nni rissa: “Appena puozzu, ti ci cattu”.
Si evince che il bambino morto non aveva i
“robbi”, e la madre non voleva sotterrarlo nudo. Ed è vero che a quei
tempi i bambini era possibile incontrarli completamente nudi per strada.
Ma, per capire da dove discende il concetto di
prestito “re robbi” è necessario con-legare il tutto con una storia
collaterale, che la narratrice ci racconta. Rusina aveva un fratellino che si
era ammalato di enterocolite, che a quei tempi nessuno avrebbe potuto curare
non essendo stata scoperta la penicillina. Tant’è che da otto chilogrammi che
pesava all’età di un anno, si era ridotto a un “ruotolu”. Ruotulu era la misura
siciliana che corrispondeva a 800 grammi. Cadaverino vivente che stentava a
morire. Dunque, i “robbi” che aveva non gli stavano più bene
addosso. Per questo, la “vicinedda” di casa chiedeva il prestito che poi prometteva
di restituire.
Va rilevato l’uso
del diminutivo “vicinedda ri casa” per indicare la vicina, che sente di potersi
rivolgere alla madre di Rusina per vestire il bambino morto. Richiesta che
viene esaudita, perché “a ddi tiempi” ne
vaneddi ierumu comu parienti”, e si aiutavano per come potevano. E poi c’era
una promessa che sarebbe stata mantenuta: “Appena puozzu, ti ci cattu”.
Gino, scusa se ti interrompo, ma ci sono Autori, poeti conosciuti che hanno parlato/descritto questi momenti tragici di un popolo di cui nessuno parla?
governato in Italia. La madre disperata perché non ha nulla da
dare, si rivolge alla Vergine der Pianto Addolorata, si rivolge ai santi e si
esprime con queste parole che ne mettono in luce lo strazio:
La famijja poverella
Quete creature mie stateve quete
Si fiji, zitti, che mommò viè ttata (papà).
Oh, Vergine del Pianto Addolorata
Provedeteme voi che lo potete.
Nò, viscere mie care, nun piagnete,
Nun me fate murì cussì accorata
Lui quarche cosa l’averà abbuscata
e pijeremo er pane… e magnerete.
Si capissevo er bene che vve vojio,
Che dichi Peppe? Nun voi sta a lo scuro?
Fijio, com’ho da fa si nun c’è ojjo?
E tu Llalla che hai? Povera Lalla,
Hai freddo? Ebbè, nnun méttete llì ar muro
Viè in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla.
Giuseppe
Gioacchino Belli
Roma, 1826
settembre 1835
settembre 1835
Qui, il discorso ci porterebbe
lontano, ma è certo che i quattro cavalieri dell’Apocalisse si accanivano con i
poveri.
I Cavalieri dell’Apocalisse non guardano in
faccia nessuno, e certo, oltre alla fame c’erano altre sventure, malattie
che a quei tempi non si potevano curare, tifo, malaria che fino a
settant’anni fa erano endemici in Sicilia. E la madre di Rusina si
sbatteva la testa al muro mormorando: “Ma comu hagghia a-ffari si sordi
nunn’hagghiu.
Si racconta dunque della povertà di una delle
tante famiglie povere di un’epoca oggi lontana, e degli éscamotage cui dovevano
ricorrere per racimolare quel pezzo di pane quotidiano, che ci fa capire il
perché questa richiesta faccia parte di una preghiera, l’unica che Gesù ha
consegnato ai suoi seguaci, nella quale è detto “Dacci oggi il nostro pane
quotidiano”.
Nel libro “Rusina, la mia vita” si evince
che ogni personaggio è parte di una struttura che è la famiglia, nella quale
“uno è per tutti e tutti erano per uno”. Nel senso che si aiutavano, cercavano
di sostenersi reciprocamente.
Memoriale, dunque, ma soprattutto scrigno di
informazioni e notizie importantissime, che la “Storia ufficiale”, quella con
la “S” maiuscola, ignora, non considera, non tramanda.
Ma, quale era in passato la
forza contrattuale del popolo minuto nei confronti dei datori di lavoro?
La forza contrattuale della povera gente nei
confronti di latifondisti, benestanti, manomorta della Chiesa, era “zero”.
Basti pensare che erano i ricchi a fissare il prezzo per una giornata di lavoro
di contadini, curatoli, vaccari, carrettieri, raccoglitori di carrube, olive,
mandorle. E la giornata non aveva orario. Si lavorava dall’alba al tramonto del
sole. E per essere sul posto di lavoro all’alba, i lavoratori erano obbligati
ad alzarsi al buio e a recarsi a piedi sul posto di lavoro.
“Si partìa ra casa che setti matinati (per dire, prestissimo)
e a sira si turnava cu tririci parmi ri scuru” (per dire, buio pesto).
(p. 31)
Qui, Rusina riferisce di se stessa, ma in altra
parte del libro, la nostra scrittrice riporta la storia di un “pattu” di lavoro
fatto da “don Pippinu u Bagghiuòlu“, storico factotum (uomunu
ri firucia) del cavaliere Bonelli di Scicli, che aveva il palazzo (’u
palazzu) in via Mormino Penna, accanto alla chiesa di San Michele di fronte
al palazzo del Barone Spadaro.
Lui, Memmu, disoccupato, ma ormai sposato
con Rusina, si presenta, “co tascu nta manu”, al
potente Peppinu Bagghiuolu che gestiva i beni della famiglia Bonelli:
“U salutau, sabbenarica, ci rissa ca vulia travagghiari, sapia ca
circava n-carrittiieri, si parraru, Don Pippinu u Bagghiuolu su purtau nta
carretteria ppi faricci virri u carrettu e a mula, e ci rissa: “Chistu èni u
carrettu, chisti su l’armigghi (bardatura, finimenti), e cca c’è ’a
mula. I patti su’ chisti: 4 tummana e dui munnia ri frummientu, 500 liri
o misi, ”notti e gghiuornu”. E siamo ai primi anni dopo la seconda
guerra mondiale. Non siamo alla preistoria.
L’incredibile, per noi che viviamo in questi
giorni dorati, protetti da mille diritti, è il fatto che il carrettiere e la
mula, addetti al trasporto di carrube, frumento, frasche, paglia e
quant’altro, lavoravano in continuazione, notte e giorno. Il lavoro non
aveva pausa. Al carrettiere non era concesso dormire nel suo letto. Era
consentito passare da casa sua una volta ogni 15 giorni “pi canciarisi i
robbi”. Il carrettiere poteva appisolarsi sul carro quando la mula aveva
imparato la strada. Ma, anche l’animale aveva i suoi guai, perché gli “armiggi”
di cuoio e senza imbottitura, non venivano mai tolti, né di giorno, né di
notte, tranne quando le ferite (i crosti) sulla pelle dell’animale si
suppuravano”.
Questi “patti” (leonini) venivano applicati ai
carrettieri, e ricordano epoche di passata schiavitù, pervenute fino a noi
dalla notte dei tempi. E non vengono riportati dalla Storia ufficiale.
In ogni caso, la remunerazione per contadini,
caprai, vaccari, carrettieri, era appena sufficiente per sfamare il lavoratore,
non la famiglia del lavoratore. E va ricordato che nei mesi invernali, e fuori
dal periodo della mietitura e della raccolta di olive, carrube o mandorle, non
c’era lavoro per nessuno. Ed era proprio nei mesi invernali che i poveri
soffrivano non solo per il freddo, ma anche per la fame.
Quanto racconta la signora Rusina, è stato raccontato
a chi scrive, dallo stesso signor Trovato, il marito di Rusina, in una
amichevole conversazione sul suo passato. E aggiungeva, sempre amaramente,
parlando della sua esperienza di giovane pecoraio a Munzuvili (contrada di
Scicli):
“Nun c’era né notti né ghiuornu. Sempri mali vistuti, e sempri
vagnati, e puoi a notti si facìa ‘n-fuosso nta pagghia ppi cauriarini.. e i
robbi nun si canciavunu mai arattu ca ni carievunu ri n-cuoddu”.
Per quanto riguarda la
paglia, come mezzo che sostituiva il materasso (anch’esso riempito di paglia)
vedi Vincenzo Rabito nel suo “Terra matta”.
Però, nel libro c’è spazio per altre testimonianze, molto interessanti per noi? Curiosa la notizia dove candidamente parlando di un suo nonno, Rusina ci dice che era figlio di un prete.
Va sottolineato il candore di Rusina nel dire
che suo nonno Vitturinu, ”chiddu ca nni facìa ri
patri”, era figghiu di preti. E la storia, altrettanto semplice era che la
madre di suo nonno, andando in chiesa, “forse che era nata una simpatia con
questo prete” che si chiamava Don Giuorgi ed era modicano, e ricìa a missa a
Scicli.
“E, comu fu e comu nun fu, a sta mamma ri ma nannu a misa nginta,
e a ddi tiempi nunn’è ca ri sti cosi si ni parrava. Ntantu nasciu stu
picciriddu. Idda ca era schetta a cu-è c’avìa circari p’aiutu? A nuddu. E su
criscìu sula, senza patri”. Stu preti fìcia tuttu a chiddu ca siminau e partiu.
Allura chi succiriu? Ca misa nginta a n’autra (picciotta). A stissa cosa. E fu
masculu macari, e senza patri. Però, crisciennu, sti picciriddi erunu frati.
Tutti-rui ro preti.
Qui, la nostra Rusina rivolge la sua attenzione
su un fatto di cui nessuno parla. Una volta alcuni preti non erano vocati alla
castità, e accadeva anche che i bambini illegittimi venissero portati
nottetempo alla “ruota”, e lì gli veniva attribuito un nome e un cognome, che
poteva essere “Beato” (perché figlio di prete) o, più comunemente “Trovato”, a
Scicli, “Esposito” a Napoli, perché era stato “trovato”, abbandonato, e così
via. Spesso si trattava di figli di nobili, altre volte di preti o di monache. Ma,
bisogna leggere la storia proprio così come la racconta Rusina. Perché, il
prete don Giuorgi, da buon padre, tiene rapporti quasi normali con i figli,
privilegiando però solo uno dei due. E questo non era Vittorino.
10. Decima domanda: Quando
avverrà il riscatto?
Il riscatto avverrà subito dopo la seconda
guerra mondiale, dopo il 1945, quando il popolino scassinò la sede del
“Dopolavoro dei Cavalieri”. Un circolo dove i nobili (i
puorci ruossi, erano stati battezzati) trascorrevano il loro tempo, s-parlando
di tutto e giocando a carte”. Un simbolo negativo per il popolo. Una sorta di
piccola odiata Bastiglia. Il locale
era “arredato con affreschi, lampadari, specchi, divani, poltrone, era
un sogno, e puoi c’era una sveglia che era uno spettacolo. A tuttu chistu,
quannu ci scassarru, addivintau ca a-ristruggierru. E infatti a spacciarru. ca
ci ficinu l’uffici e divintau sintacatu dei lavoratori. Allura, p’addivintari
noscia ci fuorru magari arrestati e si ficiunu a galera, tranni unu ca ci
scappau e ma matri u rifuggiau na casa nostra, e u tinna no sularu pi uottu
jorna.Pirchì passannu tri gghiorna, nun lu putievunu arristari e ccussi si
iavitau a jalera. Allora furono formati i partiti. Tannu erunu tri: democrazia
cristiana, socialista e comunista. (…) A tuttu chistu (...) u partitu comunista
era ’u partitu dei lavoratori e chiddi ca ni rapierru l’uocchi pe diritti… ca
prima ri spursarini mancu si nni parrava, pirchì ai datori di lavoro se ci nni
parraunu di fuogghi incaggi ni licenziavunu.”
E continua la nostra Rusina raccontando delle
lotte sindacali combattute con i datori di lavori, di scioperi e astensioni dal
lavoro, per avere pagato lo straordinario. Scioperi che lei stessa organizzava
appoggiandosi ad una sindacalista, donna carismatica, che era Carmilina a
Tignusa.
Rusina racconta come se i
fatti del passato non le appartenessero più. Il distacco è impressionante e
ammirevole.
Proprio così! Rusina racconta mettendo nero su
bianco su fogli di misura diversa, ma è felice, come colei che si è salvata da
un naufragio in mare. Oggi rivede il passato. Racconta delle sue tre figlie,
tutte sposate che l’hanno arricchita di tanti nipoti che stravedono per lei.
Nipoti che ormai sposati, l’hanno fatta diventare trisavola. Felice perché con
il loro onesto lavoro lei e suo marito hanno potuto acquistare una piccola casa
di proprietà a Scicli in via Dalia n. ,
e un’altra bellissima, anche se modesta casa hanno potuto costruire in
campagna, dietro l’ospedale di Scicli, a “Licuzzia”. Felice, perché è
circondata da amici che la adorano e pendono dalle sue labbra quando lei
racconta le sue storie. Felice ancora perché ha contribuito a tener su insieme
alla sua adorata Maria Teresa Spanò (a professoressa) il
gruppo “Energia & Simpatia” dove lei può realizzare la passione della sua
vita, che è il canto.
Il canto? Questo è un
punto importante della sua vita.
E’ un momento importantissimo della sua vita.
Rusina aveva una bella voce e ha sempre cantato e gioito con il canto. Cantava
da piccola quando tutte le sere raccoglieva sotto il lampione della sua
stradetta i bambini della zona e li tratteneva cantando e organizzando finti
spettacoli di bambini. Questo perché, come scrive lei stessa: “Iu ieri ’na
capa”. Era una organizzatrice. Ma, avevano scoperto l’importanza del suo canto
anche i datori di lavori. E quando lei lavorava nei magazzini dove si
selezionava la frutta, a lei sola era consentito cantare per tenere alto lo
spirito dei lavoratori. Cantava circondata dal religioso silenzio degli altri
lavoratori. Questa sua passione per il canto è stata la sua fortuna, il
conforto della sua vita e quello che riusciva ad addolcire le amarezze della
sua non facile esistenza.
E’ possibile vedere un rapporto fra questo libretto di Rusina e “Terra Matta” di Vincenzo Rabito?
Rapporto? Ci sono molti punti in contatto, anche se fra i due ci
sono ventinove anni di differenza. Rabito è nato nel 1899, Rusina nel 1927. Ma,
per quanto riguarda la situazione sociale dei lavoratori non era cambiato
nulla. Nei trent’anni di differenza non era accaduta nessuna evoluzione
sociale. I poveri combattevano la loro guerra quotidiana contro la fame
nell’Ottocento, e lo stesso era ancora fra le due guerre mondiali. E se anche
qualcosa era cambiato sotto il fascismo, i cambiamenti non erano stati avvertiti
dai poveri in questa periferia d’Italia. Dunque, sia Vincenzo Rabito sia Rusina
sono soggetti “alfa” per intelligenza, ma socialmente sono proprio elementi che
la sociologia definisca “Omega”. Dunque, ultimi nella scala sociale di quel
tempo
Gino Carbonaro
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