Essere Cava di Nino Barone
"Essere Cava", ultima opera di Nino Barone, è un libro importante,
scritto con una prosa cristallina, chiarissima, coinvolgente, unica, che pone
Nino Barone nel novero degli scrittori in assoluto più significativi della
storia letteraria della Sicilia.
"Essere Cava" è
diviso in tre parti, diverse nel tema e nel tono. La prima, intitolata Essere Cava, comprende gli anni della
giovinezza dello scrittore. La seconda parte, Riflessioni di un moderato, tratta gli anni della maturità e della sua
militanza politica, con una appendice di “considerazioni” varie. La terza parte La voce del cuore, ricordi di situazioni e persone care.
L’apertura del libro è stupenda. Il modello è manzoniano. Anche il riferimento alle cave che
unendosi formano una “ypsilon” sembra ricordare il grande scrittore lombardo,
ma è solo una impressione. In realtà, la descrizione, in Essere Cava è più moderna, agile, intensa, ricca di colore,
sentita, e, mi consenta il paragone con la pittura, ricorda l’affresco, più che
l’olio.
Ma è proprio l’apertura che dà il “la”
all’opera. Qui si descrive Modica come una sorta di nicchia ecologica: ambiente
naturale (cave e colline circostanti) forse
unico nel suo genere, nel cui interno (si
pensi agli aggrottati) si è adattato a vivere un popolo, che proprio da qui
ha sviluppato una sua peculiare identità psicologica e culturale.
La similitudine che vede
un tutt’uno fra natura e uomini è stupenda: dalla descrizione dell’ambiente
naturale, alle abitudini umane, rappresentate dalla passeggiata nel Corso e
dalla gente che sente il bisogno di parlare, comunicare con gli altri e di
sentirsi ascoltata.
L’analogia con la natura è chiara: come le
acque defluiscono nella cava mescolandosi e combinandosi, così gli abitanti di
queste colline scendono a valle, in quella Cava, ora serpente d’asfalto, per
incontrarsi, intrecciarsi fra di loro, scambiarsi idee e progetti, per
autoalimentarsi, vivificarsi e lievitare insieme quelle idee e quei progetti che
si fanno cultura di un popolo.
Poi, a sorpresa, viene inserito il concetto di limite. Quel Corso, che rievoca la Agorà greca, che è stata l’utero all’interno del quale sono stati
messi a dimora i semi della civiltà forse più grande della Terra; quel Corso -
dicevamo - anche per il modicano è utero, dove le informazioni convergono, si
amalgamo, e si ridistribuiscono. Spazio chiuso che conforta e protegge, ma che
può, altresì, diventare un limite.
Chi è vissuto a Modica, come me, temeva
l’ora del tramonto, quando, giù dal Corso si vedeva scomparire il Sole dietro
la collina della Giganta, e avrebbe voluto essere come un fiore, per allungare
lo stelo (il collo) verso l’alto per
non perdere nessun attimo di luce che scompariva.
Da qui, anche per tutti gli habitué della Cava, era forte
l’aspirazione a superare il limite, in tutti i campi: desiderio di parlare,
approfondire, chiarire, scoprire, tenersi informati, socializzare, partecipare (nel senso che l’etimo insegna) di
essere parte degli altri, nella consapevolezza di una identità peculiare:
quella che molti hanno inteso come modicanità; ma altresì volontà di essere
migliori nel lavoro, nella crescita sociale, nel progresso, ed è qui che si
rileva il superamento del limite. Come è possibile vedere, si tratta di un
concetto forte.
La
giovinezza, il fascismo, la guerra
Subito dopo, il libro
entra nella storia. In parte personale, in parte italiana. Qui il documento
diventa ancora più interessante. Il valore è dato dalla testimonianza diretta
di uno scrittore che non ha letto sui libri quello che racconta. Forse si è
stanchi di leggere cose scritte con materiali di riporto, e anche qui ritorna
il concetto di freschezza, come chi con le prime acque d’autunno raccoglie erba
fresca sui campi e la offre agli amici così come è, sana e nutriente.
Da questo momento, chi legge è affascinato dal racconto, non riesce a
lasciare la pagina e a chiudere il libro. Così procede l’affresco sul Fascismo
visto dalla periferia, non dal centro; da un’ottica che è quella del giovane studente universitario; anche questa, prospettiva è sincera, ingenua, leale;
testimonianza non facilmente riscontrabile nei libri di storia.
E poi, gli usi di una epoca che non è più:
il "Sabato Fascista", l’Università, la vita militare, la guerra. Tutto fresco,
genuino, senza orpelli, senza vanagloria, senza narcisismi, che non possono
trovare posto in un diario (perché di
diario si tratta) scritto con uno scopo preciso: lasciare un testamento
spirituale e culturale ai tre figli: Uccio, Eugenio e Alessandra.
Testamento come documento, ma anche come
fatto di arte bellissima. Se, da un punto di vista letterario, è stupendo il
capitolo di apertura “Essere Cava”, è poesia il racconto
intitolato “Un cane”. Qui il mio
ricordo corre a “Niente di nuovo sul Fronte Occidentale”, a quel passaggio dove
l’Autore descrive cavalli feriti che fuggivano, terrorizzati, calpestando le
budella che fuoriuscivano dalla loro pancia. È la tragedia, che nella guerra
coinvolge i deboli e gli innocenti.
Qui, è stupenda la descrizione del cane
morente: “Cadde di schianto e si stirò
mugolando. Lentamente, quasi con compostezza, si dispose a morire. Un piccolo
filo rosso di sangue scendeva dall’orecchio, giù per il nero, smunto viso, si
raggrumava adagio e senza fretta all’angolo della sua bocca, colorando
stranamente di rosso i suoi lunghi denti bianchi. Gli occhi però rimasero
ostinatamente aperti, senza rimprovero e senza rancore, solo freddi e lontani,
quasi resi opachi da una luce nuova e violenta, da un’altra luce”.
Io dico che questa è poesia grande e della
migliore, e mi riferisco all’intero racconto (p. 49-52).
Poi, ricomincia la cronaca, e si descrive
come in una certa classe sociale avvenivano i fidanzamenti. Si tratta di un
documento di usi e consuetudini che non tornano più e che sono sconosciuti alle
nuove generazioni, che potrebbero non capire la dinamica di quei corteggiamenti
amorosi. Insomma, documento fondamentale, importante, non solo per i suoi
figli, ma forse, e soprattutto, per i suoi nipoti.
Procedendo, il lettore si trova davanti ad una sorta di appendice titolata “Cronaca minore”. È quella che tratta l’ingresso in politica dell’Autore, ma è
anche momento propedeutico alla seconda parte dell’opera.
Le riflessioni di un moderato
Con “Le
riflessioni di un moderato” l’opera cambia materia e tono. Più che di un
diario, che vede come protagonista unico lo scrittore e destinatari i figli, il
lavoro si divide fra cronaca e storia, con analisi, e soprattutto giudizi di
valore, che collegano la piccola città di Modica e i suoi eventi alla più ampia
storia italiana degli ultimi cinquant’anni.
Nelle Riflessioni,
l’impegno dello scrittore è un
altro: soprattutto quello di capire come si genera una crisi politica e
generazionale da un impianto politico sostanzialmente onesto nelle intenzioni
dei fondatori dei partiti politici e della Democrazia Cristiana in particolare.
E si chiede altresì il perché di “…tante
ombre: violenza, sessualità sfrenata, corsa all’egoismo e al materialismo,
crollo della religiosità tradizionale, allentamento dei vincoli familiari e
soprattutto, mali nuovi e tremendi: terrorismo e droga!”
E subito trova
pronta una prima subitanea risposta, secondo cui …la radice del male sta nell’egoismo, nella ricerca affannosa del
guicciardiniano “suo particulare” che è diventata norma prima di questa nostra
società”. Certamente una crisi di
tale entità, come è quella italiana di questi ultimi decenni, non può avere una
sola causa. Da questa premessa discende la ricerca delle componenti e dei
responsabili della crisi.
L’ottica è la stessa che ha caratterizzato
la prima parte, e vede lo scrittore come osservatore privilegiato, un po’ nella
veste di storico, in altri momenti nella veste di moralista, di filosofo, di
notaio della storia, di avvocato difensore di se stesso, del suo operato come
uomo politico e del suo partito, sempre fortemente amareggiato per non essere
riuscito, lui e gli altri responsabili (in
parte) della cosa pubblica ad arginare l’arrivismo e la corruzione che ha
inquinato la società italiana e con essa la amministrazione modicana.
Mafia, bustarelle, corruzione, affannosa
ricerca di miliardi da parte dei partiti, sono cause fondamentali del degrado
nel quale si trova a vivere la società italiana. Ed è su questo punto che si
registra la sconfitta della intera classe politica.
In questa seconda parte, lo scrittore è
più partecipe ai fatti, meno distaccato di quanto non fosse stato nella prima
parte, e segue il fluire degli eventi con vigile attenzione e partecipazione,
interpretandoli sempre dal suo punto di vista: quello di un uomo corretto e fedele
alle sue idee; uomo che ha dato se stesso per la sua città e per il suo partito
e vede ora tutto distrutto da un uragano, per il quale non si riesce a trovare
la causa. Tanto lavoro per raccogliere altro che un pugno di foglie secche.
Le colpe? Di tutti e di nessuno. Leggi
errate come la Bucalossi
che fa sviluppare l’abusivismo edilizio. La Riforma sanitaria che crea un carrozzone
burocratico costoso, quanto inefficiente; la creazione di un esercito di
funzionari pubblici e di partito, di imprenditori parassiti e impreparati, di
Enti pubblici grandi e piccoli che redistribuiscono senza logica flussi non
controllati di denaro pubblico. E poi ancora impunità, inamovibilità di una
massa di gente interessata solo ad arricchirsi a spese dei contribuenti, mafia.
L’origine degli scandali di quest’ultimo decennio – conclude l’Autore –
discende in gran parte da qui.
Le analisi? Tutte importanti, per
conoscere come un addetto ai lavori ha vissuto e interpretato uno squarcio di
storia locale.
Ha
sicuramente fatto un bel regali ai suoi figli e ai suoi nipoti, ma anche a noi
tutti, che possiamo avere un punto di riferimento forte sulla storia che ha
visto la Cava di
Modica, e uno che qui ha trascorso quasi tutta la sua vita.
Gino Carbonaro
Ragusa/Modica, novembre 2004
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