2019/03/14

HILDEGARD VON BINGEN



Santa, ma donna

HILDEGARD VON BINGEN


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Il lato femminile
della religione

                                                           di Gino Carbonaro

    Monaca. Tedesca. Scrittrice. Fondatrice di conventi. Vissuta nel XII sec.. Hildegard von Bingen (1098-1179), decima figlia di Mechtilde e Hildebert von Vendersheim, chiusa in convento quando aveva solo otto anni, passa alla storia come musicista, e subito dopo come scrittrice, predicatrice, e primo medico omeopata. Di fatto, è colei che nel 1141 (167 anni prima di Dante Alighieri) scrive “Sci Vias”, un trattato dal contenuto filosofico-teologico, il cui fine era quello di intimorire la umanità traviata, facendo conoscere in anticipo ai peccatori le sofferenze che avrebbero subito nell’aldilà.     

    Atto dovuto? Mettere a confronto l’Inferno di Dante con “Sci Vias” (Conosci la via della salvezza). In questa sua opera,  immaginando una visione infernale, Hildegard scrive:

“Mi ritrovai in un luogo arido, immerso nell’oscurità, zeppo di insetti parassiti./ Qui, venivano punite le anime di coloro che in vita non avevano avuto rispetto della legge di Dio./ Spiriti maligni le spingevano di qua e di là con fruste di fuoco gridando:/ “Sciagurati .. perché avete trasgredito la legge dell’Altissimo?”

Ed è scrittura potente, che richiama quei passi dell’Inferno dantesco che recitano:   

“Questi sciaurati, che mai non fuor vivi/ erano ignudi, stimolati molto/ da mosconi e da vespe ch’eran ivi (...)/ Elle rigavan lor di sangue il volto/ che mischiato di lagrime, a’ lor piedi/ da fastidiosi vermi era ricolto”.

    Dal confronto, fra la scrittrice tedesca e il poeta italiano, si potrebbe ipotizzare che Dante abbia potuto conoscere il lavoro della nostra monaca. Opera scritta in latino. Lingua ufficiale del tempo. Ed è paragone che ha un valore storico a tutto vantaggio di Hildegard von Bingen.


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                                                            Hildegard in preghiera

    Ma, la fama di questa Donna poliedrica, è giunta a noi soprattutto come musicista. Enfant prodige. Genio. Sin da piccola oblata nel convento di Disibodenberg, nei pressi di Wiesbaden, la quale gioiva nell’ingentilire le preghiere, salmodiate all’unisono (secondo il dettato dei canti gregoriani, recto tono), modificandole con dolci melismi. Musica di Dio fu definita al suo tempo, per la bellezza con cui la preghiera veniva offerta all’Altissimo.

    E, si tratta di composizioni che rappresentano la prima forma di evoluzione musicale, e anticipano di secoli il canto polifonico di Claudio Monteverdi. E, non va dimenticato che si tratta della prima donna (forse la sola a tutt’oggi) compositrice nella storia della grande musica europea.


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                                                     Hildegard von Bingen (1097-1179)

   Dopo il bene dell’anima e dello spirito, Hildegard rivolge la sua attenzione al mondo fisico, allo studio della Natura, pubblicando la prima storica “Enciclopedia del Sapere Universale” (Phisica, aut Liber simplicis medicinae), dove vengono inventariate 230 erbe “officinalis”, ma anche alberi, animali, serpenti, vermi, pesci dei fiumi e dei mari, uccelli, pietre, e quant’altro.

   Ma, la si ricorda ancora come donna-guaritrice-omeopata, dunque medico e dietologa. E, nella descrizione delle funzioni del corpo umano è proprio lei, monaca e donna, che parla del sesso, sostenendo che “l’uomo non deve avere soltanto desideri che si rivolgono al cielo, ma anche di appagare le necessità della carne”,  affermando altresì, in pieno medioevo, che il sesso è delizia.


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    Ecco come descrive la sessualità femminile nel Codice (da lei miniato) “Causae et curae”:

“Quando la donna fa l’amore con un uomo, sentendo nel cervello un senso di calore che porta alla gioia dei sensi, trasmette il piacere di quella delizia (sic!) durante l’atto, e stimola l’emissione del seme dell’uomo. E quando il seme è caduto nel suo “luogo naturale”,  quell’impetuoso calore discende dal cervello della donna, e attira il seme e lo trattiene. E presto, gli organi sessuali della donna si contraggono, e tutte le parti che sono pronte ad aprirsi durante il periodo mestruale, adesso si chiudono, nello stesso modo in cui un uomo forte può tenere qualcosa in pugno”.

    Dietro questa descrizione della sessualità femminile, c’è una libertà mentale sconosciuta nel Medioevo (e nei tempi a venire). Libertà di una Donna che è stata capace di leggere il corpo umano in modo nuovo, senza timore di tabù  e senza soggiacere a quei pregiudizi che ingessavano la cultura del tempo. La forma mentis è quella di un medico/a, distaccata osservatrice dei fenomeni umani, descrizione (quella della sessualità femminile) che qualcuno considerò “una pagina di storia contemporanea scritta da una monaca nel XII sec”. Affermazione vera, che invita a riflettere.


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    Ma, la Chiesa? Ci si chiede?
Ai suoi tempi, Hildegard von Bingen fu protetta dal Papa Eugenio III (1145-1153) che nell’opera “Sci vias”, rilevò la strada possibile per una rigenerazione morale della Chiesa del tempo, allora minata dalla corruzione (simonia, nepotismo e quant’altro). Dopo la sua morte, però, sui suoi lavori fu calata la coltre del silenzio. Di fatto, molti originali delle sue opere non esistono più.

    Solo da due decenni, Hildegard  è stata ufficialmente riesumata da due papi stranieri. Nel 1998  (800/imo anniversario della morte) papa Giovanni Paolo II la ricorda con l’appellativo di “Sibilla del Reno”, in riferimento al fatto che dopo i 70 anni Hildegard scelse di predicare, e, sul modello di Gesù, denunziò pubblicamente la corruzione dei prelati e della società del tempo nelle prediche che tenne in affollatissime Chiese di città renane. E l’attacco è socio-politico. Quello di una Donna dalla personalità potente.

    E finalmente, il 7 ottobre 2012, Benedetto XVI, il papa tedesco Ratzinger, la proclama Santa e Dottore della Chiesa Universale. Riconoscimento ufficiale che giunge dopo 921 anni dalla nascita della grande badessa tedesca.


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   Ma, va ancora ricordato che,  nella esortazione apostolica, “Amoris Laetitia”, pubblicata l’8 aprile 2016, papa Francesco comunica urbis et orbis che il sesso è una meraviglioso dono di Dio (!). E, sconfessando il passato della Chiesa fa sapere che il sesso è un dono per gli sposi, non un peccato consentito.

    Il confronto corre immediato a Hildegard von Bingen, che nel suo “Causae et curae”, parlando del diritto-dovere al rapporto sessuale, aveva già affermato che amore-e-sesso sono espressione di armonia divina, e perciò creati da Dio, e non sono frutto di peccato.   

    E siamo arrivati al punto!?

C’è voluto circa un millennio, perché un Pontefice, massimo esponente della cultura cattolica, potesse esternare un concetto che era stato già proclamato da una Donna, monaca, genio al femminile, che nel pieno della oscurità medievale, aveva avuto una mente così luminosa da anticipare nove secoli prima, il pensiero della Chiesa.

Ed era solo una Donna! Si è detto.
Il suo nome? Hildegard von Bingen.      
        
                                                       Gino Carbonaro

Articolo Pubblicato

 Sul quotidiano "La Sicilia"
pagina culturale
13 marzo 2019

2019/02/07

STAGIONI di Silvia Cecchi





Silvia Cecchi

STAGIONI

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                                                                di Gino Carbonaro




Silvia buongiorno,


   Ho ricevuto solo oggi, l’atteso tuo libretto, “Stagioni”. Gli ho dato subito uno sguardo curioso, e intuisco che si tratta di un lavoro impegnato nella accezione classica che al sostantivo “impegno” dà l’esistenzialismo contemporaneo. Ma, ho capito anche che non si tratta di poesie da lèggere, ma da centellinare. Questo perché ogni concetto, ogni passaggio, spesso legato alla poesia ermetica, costringe il lettore a meditare, a riflettere sui messaggi che tu, da poetessa, proponi. Se è vero poi che in tutto ciò che si scrive, si riflette la nostra personalità, il nostro rapporto con la realtà, la nostra filosofia dell’esistere, va detto che a me interessa cogliere questo contenuto della tua poesia, e mi sono accorto in appresso che tu non fai eccezione alla regola.


    Alla lettura di queste poesie, dense di contenuti forti, colpisce la incisività graffiante dei concetti, delle parole, la volontà decisa di cogliere il messaggio delle cose, ma altresì l’equilibrio e la dolcezza di una forma che coinvolge il lettore, poesia che nutre e invita a meditare.


    Scriveva Catone, “Per nebulas scimus”, siamo circondati da una nebbia profonda, centrando un principio del nostro rapporto con uomini e cose. Di tutto cerchiamo spiegazioni, per comprendere il senso del nostro esistere, del nostro cammino in questo mondo. Capire per progettare. Ma, la tua poesia rileva la impossibilità di cogliere il tutto calato nello spazio e nel tempo.  Difatti, in apertura scrivi..


”Che vuoi che me ne faccia dell’eterno?”,


dell'immenso, della trascendenza. A te, cara Silvia, basta cogliere l’attimo, il frammento, l’effimero che contiene il tutto. Noi siamo esseri


“... gettati in questo mondo”.


E siamo al centro della problematica esistenziale. Questa è la percezione della realtà, quella che accetti, ed è filosofia che sostiene il tuo pensiero, che tu intendi come “Vox” che indaga nel deserto nebuloso che ci circonda.


    E della realtà? Possiamo conoscere solo quello che riusciamo a cogliere in un flash di momenti che si impongono alla nostra attenzione. Ed è allora che la conoscenza si trasforma in estatico godimento dei sensi, conoscenza che non può essere trasmessa con le parole, perché


“Tu  sai le cose
fin dove arriva il nome.”


Noi possiamo chiamare le cose per nome, come tu scrivi, ma in questo caso, la conoscenza ha il peso, la lunghezza e lo spessore delle parole usate. Il resto è nebbia (o il Nulla) che circonda la realtà visibile.  Paradossalmente, è solo lo sguardo che coglie


“... l’effimero sognare da sveglia”,


l’attimo fuggente, che accende una luce perché


“Tutto si perde, anche la luce
di bosco sospesa sulle foglie
anche il filo d’aria,
tesa da ramo a ramo.”


Ed è indagine sensitiva del pensiero, che viene colta in momenti eccezionali. Il banale che si fa sublime


“... quando un merlo, te  distratta,
si ferma sul ramo di maruga
tutto spini e fiori saporiti
ad ogni maggio che torna
davanti alla finestra aperta,”


... e ti fa perdere la cognizione del tempo, e ti fa sognare, godere, capire, forse, e non sai più dire

“Se sia passata un’ora, o giorni,
e quante volte
è sfiorita la robinia e rifiorita.”


Ed è esperienza forte sentire


“.. il gorgogliare del torrente,
gli stridi alti delle tàccole
e dei falchi, il vento che rúgghia (…)
Si perdono i nomi
Fontefredda Rivosasso Gretosecco
e più cammini e più si fa lontano
il ruvighìo di vite in fondovalle”.


E in tutto, la forma di una realtà che senti vivere in te, e non resta altro che una consapevolezza,


“..l’ignota meraviglia di essere stata".

Ed è chiusura che non poco fa riflettere sul senso di questa poesia intrisa di filosofia.
                                                                                                                                                                       Gino Carbonaro



P.S. Ho parlato della poesia di Silvia Cecchi, ma non mi sono soffermato a fare i miei complimenti ai bellissimi disegni del pittore Oliviero Gessaroli, opere che impreziosiscono il delizioso libretto. "Disegni", è scritto (con lodevole understatement) che interpretano l'atmosfera del libretto, ma che vivono nella sua forma figurativa con uguale forza e dignità, una bellezza unica, quella che poteva essere realizzata solo da un artista che sa cosa è la pittura, quale è la funzione dei colori, come si gestiscono i rapporti tonali, come si può cogliere e bloccare il senso del bello all'interno di uno spazio. Ancora i miei più vivi complimenti.   

      

2019/01/17

Michele Giardina Il ponte di Genova




Il ponte di Genova 
Michele Giardina

Pozzallo 16 gennaio 2019


PremessaIl 28 gennaio 1986 alle ore 11,36 uno shuttle spaziale  esplodeva pochi minuti dopo essere partito. La navicella spaziale imbarcava 5 uomini e 2 donne di equipaggio. Da Terra gli osservatori shoccati non credevano ai propri occhi. Una sociologa che aveva osservato la tragedia commentò: la tragedia che abbiamo appena notato riflette il disordine che esiste nei laboratori che hanno progettato e costruito lo shuttle. Ed era l'epigrafe che si poteva apporre sulla tomba di quei piloti sacrificati qualora ci fosse stata una tomba. La considerazione fatta dalla ignota sociologa sulla tragedia dello shuttle americano si adatta perfettamente  alla tragedia del Ponte di Genova. La causa della tragedia è da ricercare in un disordine che caratterizza la vita sociale italiana.

     Un mese fa, il nostro Michele Giardina aveva appena finito di presentare il suo ultimo libro

“Mal di mare”

quando, mi telefona per comunicarmi che aveva finito di scrivere un altro libro, e che lo avrebbe pubblicato entro gennaio del 2019. Si trattava di un dossier, titolato

“Il ponte di Genova”,
considerazioni sul “Ponte Morandi”

crollato il 14 agosto 2018. Disastro storico, che ha fatto registrare 43 morti, centinaia di feriti, danni per miliardi e disagi incredibili alla città di Genova.

      A questo punto, le mie considerazioni personali:

1.        La prima riflessione discendeva dalla relativa “prolificità” letteraria di questo scrittore., il quale mi fa leggere un suo libro con cui si chiude l’anno  2018, e ne ha già pronto un altro per il 2019.  

Io che qualche libro ho scritto, so che "un libro è un libro".
Un libro è come un ponte, per costruirlo ci vuole tempo, studio, materiale, attenzione, professionalità.

   Insomma, mi sono sorpreso, non poco, ma, siccome conosco il Michele Giardina scrittore, ho pensato che si potesse trattare del canto del Cigno. 
Tchaikovsky ne ha fatto un capolavoro.

2.        La seconda considerazione che però ho tenuto dentro di me, è stata quella di credere che questo tema (un ponte che crolla) non può interessare granché un lettore.  Dunque, un tema caro solo al sentire del giornalista, anche se le vere notizie sono sempre legate a una grande sventura: tsunami, terremoti e altro.

     Comunque, tenni per me le considerazioni, e ricevuto il libro che il mio amico mi inoltrò in  pdf, cominciai a leggerlo. Ma, mi accorsi quasi subito che mi sbagliavo. Perché? Mano a mano che andavo leggendo sentivo come un senso di vergogna. Mi accorgevo che l’argomento, importantissimo, era un tema che io tentavo di rimuovere. Difatti, queste notizie non belle entrano dentro di noi e scompigliano i meccanismi di difesa che il nostro inconscio crea attorno a noi per proteggere la nostra serenità.

     Gli eventi, tragici, sono come terremoti sociali e mentali, difficili da decifrare, che fanno male alla psiche. Sono terremoti sociali che subito si trasformano in terremoti mentali, psicologici, perché nessuno vuole ascoltare di  disastri e sapere delle digrazie altrui. Insomma, di fronte alle cose che fanno male, cerchiamo di difenderci con la tecnica dello struzzo.

     Ma, a leggere il libro di Michele Giardina, non è possibile fare gli struzzi. Lo scrittore ti acchiappa e ti costringe:

a.    A leggere i fatti,
b.    poi a riflettere, pensare, e trarre le necessarie considerazioni, dunque
c.     a meditare.

     Di fronte a questi eventi, la prima domanda che ognuno di noi si pone è ..

·      Ma come è potuto accadere?
·      Ma, non ci sono persone che controllano?
·      E non c’è nessuno che controlla i controllori?
·      Ma, chi gestisce il pacchetto delle autostrade?

   Ma, può accadere? che una famiglia (una qualsiasi famiglia di questo mondo) decide di andare al mare il giorno prima di ferragosto, il 14 agosto, in piena estate, per fare prendere un po’ di sole ai bambini e far respirare un po’ di aria iodata alla moglie, carica la macchina con ombrellone e altro, mette in moto, parte felice, entra in autostrada fermandosi prima per pagare il pedaggio, e dopo un poco si vede volare come un uccello per capire, senza averne colpa, come è l’inferno, prima di lasciare questa triste realtà, e giungere con tutta la famiglia nell’altro mondo.

     Ma, dove sono i responsabili, dove erano prima, in piena estate? Al mare? In vacanza? in Italia, all’estero, sotto gli ombrelloni? Nelle loro ville di lusso, a pranzo con il loro esercito di avvocati? Serviti da un altrettanto nutrito esercito di camerieri?

     A questo punto nello scrittore Michele Giardina  si sveglia il giornalista di razza (l’Uomo!) colui che per anni, giorno dopo giorno, ha potuto constatare  sul campo tutto ciò che in questa società ha bisogno di essere rilevato e corretto. Tutto ciò che non va.

     La sua voce di giornalista è stata sempre come un ruscello di acqua che scende impetuoso dalle montagne, ma adesso, di fronte a questo evento che è terremoto sociale, di fronte a un fiume che tracima, la notizia ha bisogno di un fiume o anche  di un oceano di parole. Di un libro intero!  Di un dossier che deve mettersi agli atti della storia, perché non si dimentichi. Ci accorgiamo tutt’ad un tratto di trovarci davanti a un libro di sociologia, di politica, di etica tradita, ma anche di giornalismo puro, e anche di filosofia, quando lo scrittore ci fa porre la domanda..

Ma, in che mondo viviamo?
    
      Insomma, “Il ponte di Genova” si rivela essere un libro con la “Elle” maiuscola, un libro che è un 
J’accuse

che parla di malcostume, di responsabilità, di possibili connivenze, di poteri occulti, di assassini (perché di omicidi si tratta per i 43 morti coinvolti nel crollo di un ponte) di colletti bianchi (intoccabili), di superficialità (imperdonabole), di burocrazia (insensibile), di menefreghismi, di manciugghia, cancrena, di incurabile cancro sociale, di amministrazione pubblica che esiste, ma non esiste, che invece di risolvere i problemi, (perché questo è il suo compito istituzionale) è lei  a rappresentare il vero problema di una società malata, che nessuno riesce a curare.

Burocrati (o burosauri) potenti,
inattaccabili, dal potere immenso.

     Insomma, questo  ultimo libro di Michele Giardina si configura come  Testamento di chi, dopo anni di lavoro sociale, come giornalista, torna a fotografare una realtà che non cambia, che ruota su se stessa. 
E pone l’ipotesi allarmante che il

Ponte Morandi

possa essere  il  simbolo di una Italia malata.

     Ponte attaccato dall’ossido di ferro e dalla Burocrazia anch’essa ossidata, inamovibile, pachidermica, anchilosata, che non ha fretta, che, non controllata da nessuno, dimentica i suoi doveri e li rimanda. E scopre il nostro scrittore che tutto in Italia e nella società, tutto è ponte, e il ponte è pur sempre un patto sociale che non deve mai dissaldarsi e peggio che mai, crollare. Un ponte unisce. Invece, il nostro Michele, elenca, a decine, le metafore di ponte crollati perché dissaldati nella loro struttura, a partire dalla tragedia del Vajont, Longarone, disastro mostruoso, con 1910 vittime, assassinate dalla superficialità e dagli interessi di irresponsabili personaggi che sono sfuggiti alla punizione. E ricorda la tragedia del Moby Prince. Due navi che si investono perché, messo il pilota automatico, i responsabili della nave (imperdonabile superficialità)  erano andati nel salone della nave per godersi la partita di calcio trasmessa in televisione. I passeggeri? Arsi vivi. Responsabilità? Nessuna responsabilità! “C’era la nebbia e le navi non si vedevano”. Ma, la vera la nebbia è quella che “qualcuno” vuole infilare nel nostro cervello per non farci vedere.

     Sono notizie, quelle che Michele Giardina elenca, notizie crude, che fanno male e costringono a dire:

Ma, in che mondo viviamo?

Interrogativi che si allargano a macchia d’olio.

     A questo punto il libro non interessa solo la sociologia o la politica, ma diventa, come si è detto, un libro di filosofia, in quanto si pone delle domande che attendono delle risposte.

La prima considerazione che fa Michele Giardina  è la seguente:

Le società poggiano sulla morale.

Anzi, tutto poggia sulla morale. Anche la religione. La famiglia, l’umanità tutta. E tutto dentro ognuno di noi deve poggiare su un solido programma morale.

Senza etica non esiste società,
esiste un aggregato umano  che non ha obiettivi sociali, ma egoismi.

     Anche questo libro nasce da una esigenza: dal bisogno di supportare 
la morale sociale spesso ferita.

     Ed elenca, il nostro Michele Giardina, una serie di uomini che  investono parte dei loro profitti per donazioni. Perché anche il capitalismo deve avere una sua etica.

Etica del Capitalismo

     Si tratta di grandi capitani di industria del passato e del presente. 
Si tratta di grandi filantropi.

           Qualcuno  potrebbe ricordare anche Schweizer, e lo stesso Nobel, ma il nostro Michele Giardina preferisce citare giustamente il mitico Andrew Carnegie, (Dunfermline, Scozia 1835 – Lenox, Massachussets, Stati Uniti,  1919) il primo storico filantropo, naturalizzato americano, il 5° uomo più ricco del mondo uno degli uomini più ricchi del mondo, che sovvenzionò fondò Università, Biblioteche, e regalò alla umanità Musei, Parchi.  Carnegie! Colui che sosteneva che non si può diventare ricchi senza arricchire gli altri.  E, il riferimento era fatto ad Adamo Smith, il primo grande storico ed economista,  altro scozzese.
    
     E poi, Bill Gates (1955) fondatore della Microsoft, il quale sostiene che un sistema sociale deve avere un forte senso dell’etica, e dona per questo e da anni, miliardi di dollari a organizzazioni umanitarie.

     Lo stesso vale per Armando Ortega, il proprietario di Zara,  e Mark Zuckeberg proprietario di FB, e così via, a dimostrare che è possibile far convivere gli utili e la morale.  Solo in questo caso la gioia del costruire è vera e totale.

Le mie impressioni sul Libro. Cosa mi ha dato?

Il libro mi ha fatto pensare. Ed è il più grande riconoscimento alla grandezza di un libro. Un libro deve far pensare. Non aggiungo altro.