2012/02/14

Onorevoli Stipendi Diritto Democrazia

Diritto e Costituzione

                                                     VOX CLAMANS IN DESERTO!

Stipendi & Democrazia



E’ legale (o morale?) che 
Deputati al Parlamento nazionale 
e alla Regione Sicilia 
possano quantificare 
per se stessi stipendi e privilegi?
Tempo addietro avevo avuto l’idea di far circolare opinioni e impressioni con il sistema ET (e.mail/tam-tam) considerando che televisioni e giornali ci raccontano quello che vogliono, controllati da chi detiene (democraticamente) il potere.
   Ma, è chiaro che chi ha già posseduto tre televisioni (in Italia!) e ne ha controllate altre due (almeno), poteva far cantare all’unisono le lodi dei Signori e Padroni di questa Telenovela Italiana.
Qualcuno gridava al “regime” e affermava che la democrazia era andata a “quel” paese, sostituita dal dirigismo  politico. 
Altri hanno confrontato l’Italia all’America Latina e hanno notato che noi Italiani abbiamo la libertà di pensiero e tanto ci basta.  D’altro canto, come saggiamente declamava la buonanima di Mussolini: “La libertà non esiste! Esistono le libertà!” (Discorso al Parlamento 1923)


Il concetto di Democrazia

       Eppure, la Democrazia (si scrive con la maiuscola) è un concetto di filosofia del diritto la cui scoperta segna una delle tappe fondamentali della civiltà.
Il principio, che è interfaccia della Giustizia, è stato scoperto dai Greci già cinque secoli a. C.
L’etimo indica che democrazia si ha quando il potere (kratìa) della cosa pubblica è pa-ri-ta-ria-men-te nelle mani di tutti i cittadini del “démos” (δήμος = collettività).
      Per i Greci la democrazia si realizzava nel rispetto di tre principi fondamentali:

1.      la Isotimìa (ísos = uguale + timìa = stima, valore) per la quale tutti i cittadini avevano lo stesso valore senza distinzione di casta, nascita, cultura, ricchezza; e pertanto riconosceva a tutti libertà di opinione. 
                   Dalla isotimia  discendeva la
2.     Isogorìa, [1]che è l’uguale diritto a prendere la parola nei luoghi dove si dibattevano problemi di tutti; diritto a far conoscere la propria opinione, il proprio punto di vista. Dalla isotimia discendeva ancora la   
3.      Isonomìa (ísos = uguale + nómos = legge) uguaglianza       di tutti i cittadini (eletti ed elettori) di  fronte alla legge.

Nell’attuale regime politico, i principi che svuotano la democrazia di significato sono il primo, il secondo e il terzo. Ma, parliamo della isogorìa, dal momento che è stata è stata chiamata in causa nel citato e.mail. 

Diritto di parola e clessìdra

    I Greci avevano capito che se un cittadino ha diritto di parlare, deve altresì avere a disposizione lo stesso tempo degli altri. E in Grecia, lo strumento usato per gestire il tempo a disposizione di chi parlava era la clessìdra.
   Socrate, accusato di corruzione, si difese davanti a tutti tenendo conto della clessidra: tanto tempo era concesso a lui per esporre le sue ragioni, altrettanto al suo avversario-accusatore. Non pare sia stato privilegiato dai giudici, dal momento che veniva rispettata la isotimia e la isonomia.
Anche Pericle, che pure fu artefice della Grecia classica, colpevole di essere diventato “troppo potente e accentratore” fu condannato (solo per questo) all’ostracismo,[2] ma solo dopo un pubblico dibattito, che prevedeva per l’appunto l’uso della clessidra. 
La Grecia classica coniugava democrazia e giustizia. Né pare che Socrate e Pericle avessero il monopolio di televisioni e di mass-media.
      Da ciò discende che, Democrazia e giustizia, nella accezione classica del termine, ci saranno in Italia quando ogni cittadino avrà a sua disposizione n.5 (léggasi cinque) televisioni  pro capite e qualche decina di testate giornalistiche nazionali per far sentire agli altri con altrettanto spazio e altrettanta forza le sue ragioni.[3]
         Se  tanto non è possibile, non c'è democrazia. E se non c’è democrazia, c’è demagogia, cioè un governo che è democrazia nella forma ma non nella sostanza; oppure c’è una timocrazia (sono ancora i Greci a fornirci  il concetto) che è potere nelle mani di una ristretta corporazione di persone che si autostimano, che ritengono di valere di più degli altri (τιμη = valore, stima), che sono ricchissimi, e si fanno carico di gestire non solo i propri soldi, ma anche quelli degli altri.
   Come si manifesta una timocrazia ce lo insegna la Televisione: atteggiamento paternalistico, sorridente, con pacche alle spalle, "sicumera" soprattutto, calma (che è la virtù dei porti!), zucchero e miele ai bordi del bicchiere per fare deglutire l’amaro delle medicine o l’eventuale olio di ricino: insomma,  prepotenza ed arroganza confezionata con eleganza. Lo stile innanzitutto!

Panem et circenses

            I  Romani, grandi maestri del diritto, da cui discende la eletta famiglia degli itali(di)oti, sapevano che alla plebaglia non bisognava far mancare “panem et circenses”: elargizioni di frumento gratuito (per evitare gli assalti ai forni) e spettacoli, tanti spettacoli, al Colosseo e ovunque.
Oggi, quella lezione non è andata perduta. Questi governi non faranno mancare il pane quotidiano a nessuno: ma, soprattutto, non ci faranno mancare il nostro spettacolo (televisivo) quotidiano e serotino a reti unificate, perché tutti si possa credere che esiste l’onestà, che i ladri vengono perseguiti (nei film), che la giustizia esiste ed è uguale per tutti, anche per gli Onorevoli (!) Deputati, e che il nostro è come scriveva il filosofo Leibniz – il migliore dei mondi possibili. Tutte le notti, le famiglie italiane dormiranno serene sognando romantiche telenovelas.

Aumenti degli stipendi

    Ora, qualche anima inquieta cerca di denunziare all’opinione pubblica una sottrazione indebita, che si guarda bene dal definire furto, perché il furto, è risaputo, si realizza quando si entra in banca “dall’esterno” impugnando una pistola e ci si appropria dell’altrui denaro; mentre è risaputo che stipendi e relativi aumenti di stipendio dei nostri Deputati vengono non sottratti ma “detratti” dal bilancio quindi “vo-ta-ti” "democraticamente" dal Parlamento riunito in seduta plenaria, e vengono infine ratificati dal Presidente della Repubblica. E ogni decisione parlamentare è Legge dello Stato, che sancisce la legalità della detrazione numerica di “fondi” (fondi, si dice, con soft eufemismo); fondi  che non sono più del contribuente, ma appartengono allo Stato, cioè a chi li gestisce. Si tratta, pertanto, di sottrazione debita, cioè dovuta, e come "atto dovuto" questi fondi  vengono girati, in una sorta di partita di giro da un conto stagnante a un altro corrente. Nessuno deve poter dire che ci sia stato un raggiro e quindi un furto, anche perché  l’operazione è stata votata da "tutti" e fatta alla luce del sole, mentre i furti si fanno di notte e di nascosto. Con i soldi si vive bene, ci si veste bene, ci si compra uno yacht o una Ferrari,  e solo così si può passare per persone per bene da cui il termine "perbenismo".
Ma è giusto che sia così. I Romani dicevano: "Assem habeas, assem valeas!" Possiedi una lira? Vali una lira!!

I due Parlamenti italiani

Se ogni causa provoca un effetto, l’aumento degli stipendi parlamentari riesce a creare in Italia due Parlamenti anziché uno.
Il primo è il Parla-mento, dove si parla al vento, con sede a Roma; l’altro è il Par-lamento, nel quale si riconosce a tutti pari diritto al lamento, e del quale fanno parte tutti i cittadini che vogliono lamentare qualcosa. Il Par-lamento ha sede ovunque ci sia un gruppo superiore a due persone che sente il bisogno di lamentarsi. Con due Par-lamenti la democrazia è garantita!
Possiamo cominciare subito con la prima lamentela? Gridare allo scandalo per questa classe politica che non sembra avere scrupoli e coscienza di niente. Classe politica che essendo stata votata democraticamente da tutti noi, riflette la società che l’ha eletta. Noi votiamo i deputati che ci fanno comodo.
Classe politica composta da aristocratici, da coloro che sono migliori (άριστοι = migliore), che hanno qualcosa in “più” degli altri: difatti sono più eleganti, più belli, più profumati, più mascherati, più organizzati, più senza scrupoli, e dunque con più diritto degli altri  a governare, proprio come vuole legge di Madre-Natura. Nella giungla ha diritto di sopravvivere il più forte. Nell'oceano, pesce mangia pesce. Fra gli umani, il puù forte ha di più e fagocita il più piccolo. La Giustizia dei tribunali serve.. a misurare l'ingiustizia! 

Referendum. Perché?


Con questa classe politica non valgono i referendum che qualcuno intende proporre:
1°. perché i cittadini amareggiati andrebbero al mare o in montagna piuttosto che andare a votare (tutti ricordiamo i suggerimenti di Craxi);
2°. perché il risultato dei referendum (abrogativi) semmai facessero registrare una cosiddetta vittoria, potrebbero essere rispettati nella forma, ma facilmente disattesi nella sostanza (vedi la sorte del referendum sul finanziamento dei partiti);
3°. non si vede perché la Corte Costituzionale dovrebbe cassare oggi o domani i privilegi dei parlamentari, se non l’ha fatto ieri. Non è forse palese la incostituzionalità di decreti e leggi che sanciscono i privilegi denunziati nelle email?

Stipendi dei Deputati

L’aumento degli stipendi parlamentari è un falso problema: lo scandalo, a monte, è costituito dai Parlamentari che decidono essi stessi e per se stessi le loro remunerazioni. Ed è prova che in Italia vige il diritto della forza, non la forza del diritto, né la morale.

Costituzione

 I privilegi sono  tantissimi. Primo fra tutti l’immunità parlamentare che discende di peso dall’assolutismo regio. Re assoluti  e dittatori si sono da sempre ritenuti fuori e al disopra delle leggi, che però essi impongono agli altri. Ed è proprio contro abusi e privilegi che è scoppiata la Rivoluzione Francese. I nostri patrioti dell’Ottocento  chiedevano indipendenza dallo straniero, ma soprattutto  ladozione di uno Statuto.
Lo Statuto, poi detto Costituzione, era un contratto sociale che i sudditi di allora volevano far accettare ai sovrani per adottare il principio che tutti (sovrani compresi) dovevano sottostare alle stesse leggi e le leggi non potevano discriminare la popolazione.
E, sempre la Costituzione sanciva la divisione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario sulla base di quanto dettato nel Settecento da Montesquieu nella sua opera intitolata Ésprit de lois (Lo spirito delle leggi).
Quanto sopra per sottolineare il principio che, chi fa le leggi non deve controllare la loro applicazione, e chi giudica non può essere nominato da chi detiene il potere legislativo. Le tre sfere devono essere indipendenti ed autonome. Quanto sopra per evitare che le leggi potessero favorire una sola classe sociale a scapito di altri cittadini. La Costituzione[4] detta questi principi e le leggi votate non possono disattendere la Costituzione.

I privilegiati


In Italia, invece, si adotta il  privilegio del “tu non sai chi sono io!”  E anche sul significato del termine privilegio ci illumina l’etimo. Privilegio deriva da privus-legis, e privilegiati  erano nel Medioevo coloro che erano esonerati dal sottostare alle leggi.
Privilegi erano accordati agli eroi e ai condottieri che avevano acquisito un merito nei confronti della collettività: aver vinto una battaglia, per esempio.
Ma, è chiaro che ogni forma di privilegio cozza con la Costituzione, e se il privilegio è decretato per legge, la legge è incostituzionale. E il nostro pensiero corre ai privilegi che concordano e si accordano i nostri Onorevoli Deputati per meriti che essi stessi ritengono di avere acquisito nei confronti dei contribuenti e nell’esercizio della loro funzione.
Uno dei meriti? Forse il riferimento va al debito pubblico vertiginoso di duemilioniquattrocentomila miliardi, dovuto a spese votate senza copertura e tutte avallate dai nostri Presidenti della repubblica, Pertini compreso.
Questo, perché re, imperatori, dittatori, e ora anche i deputati si sono sempre ritenuti al di sopra delle Leggi, che essi stessi promulgano.
L’immunità parlamentare è, ripetiamo forma di privilegio, più importante dell’aumento di stipendio. 
Un referendum per testare la volontà degli elettori è proposto da idealisti i quali credono che il potere reale è ancora nel popolo che vota i referendum, mentre il potere è stato da sempre di chi detiene il potere. E non è una tautologia. Il popolo coltiva le lattughe, altri mangiano l’insalata!
Ma, d’altro canto cosa sarebbe il potere se non se ne approfittasse?

            Sarebbe bello scoprire a quale sindacato sono iscritti questi deputati e come fanno ad avere stipendi di tale entità senza usare l’arma dello sciopero. E sarebbe altresì salutare conoscere come si comportano gli altri Stati per decidere stipendi ed aumenti di stipendio dei loro deputati.
            In Svizzera, per esempio, è palese che per aumentare gli stipendi dei deputati è necessario consultare con un referendum i cittadini che lì, beati loro, sono i veri detentori del potere,  e chi paga le tasse si considera ancora il vero datore di lavoro dei deputati parlamentari.
            Oscar Luigi Scalfaro, emerito Presidente della Repubblica, esortava gli Italiani (sostantivo maiuscolo) a stringere la cinghia perché l’Italia doveva entrare in Europa e gli Italiani dovevamo contribuire al risanamento del debito “pubblico”; e lo diceva proprio Lui che incassava secco e netto un miliardo (e più) all'anno di stipendio.
            Questa è la strada, anzi l'autostrada senza guard-rail, nella quale procediamo. La classe politica che dovrebbe risolvere i problemi dei cittadini è diventata il vero problema degli Italiani. Ai cittadini non resta altro che parlarne: per loro esiste il Par-lamento, e non è poco.
  
                                               Gino Carbonaro
    
  

Stipendi e Privilegi

di Deputati Parlamentari


Sull'Espresso di qualche settimana fa è riportato che i Parlamentari hanno votato un ritocco di Euro 2.200.000 (in più) al loro stipendio che passa a Euro 37.086.079 circa. La mozione (votata all'unanimità e "senza astenuti") è stata camuffata in modo da non risultare nei verbali ufficiali.
Ma, se questi sono gli aumenti, cerchiamo di capire come vanno gli stipendi e gli annessi privilegi per i nostri rappresentanti al Parlamento. Queste alcune informazioni utili:

Stipendio  lordo  ……………Euro 37.086.079 al mese
Stipendio netto   ……………Euro  19.325.396 al mese
Portaborse          ………………Euro  7.804.232 al mese
                                     (generalmente parente o familiare)
Rimborso spese affitto    sino a     Euro 5.621.690 al mese
Telefoni  (cellulare compreso)  fino Euro 6.000.000 annue 
Tessere cinema e teatri             … m      gratis
Tessere autobus e metropolitana …….    gratis
Francobolli   …………………………………    rimborso spese
Pedaggi autostrade         ………………………………   gratis
Piscine e palestre     ……………………………  rimborso spese
Ferrovie e aerei di Stato     .………………….. gratis
Cliniche ………………………………………………. gratis
Assicurazioni sulla vita  ……………………  gratis
Autoblu con autista     ………………………...  gratis
Spese Ristoranti  e public relations   ..… rimborso spese

Nel 1999 deputati e senatori hanno “mangiato” e brindato alla salute dei contribuenti per  miliardi  2.850.000  di lire.

 Indennità di carica   ………  da £ 650.000 a £. 12.500.000
Rimborso spese elettorali    (pro capite)…£ 200.000.000
In violazione alla legge sul finanziamento ai partiti, e solo per chi è stato eletto.
Contributo per chi fonda un giornale sino a  £ 50.000.000
Scorta per personaggi insigni. E ancora,
Pensione “a vita” dopo 35 mesi di presenza (o assenza) in Parlamento, mentre i concittadini ricevono la pensione “solo” se portano a termine 35 anni di contribuzioni.
Trattamento di fine rapporto, miliardaria, se il servizio supera le tre legislature.
In cambio per quanto sopra, la classe politica ha causato al paese un danno economico di Euro 2.446.000. 
(leggasi: duemilioniquattrocentoquaranta-seimila miliardi!) che gravano sulle s-palle del contribuente italiano.   

Da tener presente che


Ogni Decreto-Legge e decisione parlamentare per quanto sopra sono sempre ratificati dal Presidente della Repubblica, quale notaio garante di quanto avviene in Parlamento.

La “sola” Camera dei Deputati
costa al Contribuente

Euro 4. 289.  (miliardi!) al minuto
Euro 257. 398.  all’ora
Euro 6. 177. 553.  al giorno
Eurio 2. 254. 806. 845 all’anno

Spese correnti
il cui conto è approssimato per difetto
  
Far circolare se ritenete...
!


Ragusa 13 marzo 2002


                                                                       
[1] Agorà è la piazza dove si riunivano i Greci.

[2]  Ostracismo: era forma di consultazione popolare. Il popolo incideva la sua decisione su un óstracon, cioè su un coccio di conchiglia.
[3] I Latini dicevano:"Dictum unius, dictum nullius": chi parla usando la sua propria voce è come se non avesse parlato.

[4] La Costituzione, Statuto o legge fondamentale dello Stato sancisce i principi fondamentali cui deve sottostare il Parlamento nella emanazione delle leggi. In tutte le Costituzioni il principio fondamentale sancisce l’uguaglianza di cittadini. Nessuna legge può essere discriminante. Il Governo e Parlamento non possono proporre e votare una legge che non tiene conto di questo principio. Aumenti di stipendio per una categoria e non per un’altra possono essere incostituzionali. Lo stesso dicasi per la legge che prevede il rimborso spese elettorali solo per il Parlamentare che è stato eletto.

2012/02/06

Salvatore Fratantonio, pittore


Salvatore Fratantonio
Testimonianza inedita
di un periodo romano





Salvatore Fratantonio


                                                    di Gino Carbonaro 


Un incontro fortuito

     Ho conosciuto Salvatore Frantantonio a Roma, nei primi degli anni Sessanta. Eravamo poco più che ventenni: lui pittore, io studente universitario.

     L’occasione del nostro incontro era stata casuale. Durante le vacanze di Natale, poco prima di partire per Roma, la madre di Salvatore mi chiese di portare un pacchetto al figlio che si trovava nella capitale. Era consuetudine a quei tempi mandare un “presente” ai parenti, quando si veniva a sapere che un conoscente si metteva in viaggio.

    Tornato a Roma, gli telefonai. Salvatore non era in casa, ma la signora che rispose al telefono mi disse che sarebbe rientrato in serata. Colsi l’occasione, e mi recai in Via delle Fontanelle, al numero che mi fu detto. Fui ricevuto proprio da Salvatore, che non conoscevo ancora. Mi accolse in una sala da pranzo piccolissima, compressa da mobili antichi e scuri. Gli consegnai il pacchetto che lui non aprì. Fuori era già buio e sul tavolo quadrato pendeva una lampada di pochi watt che metteva angoscia. Io ero imbarazzato. Ritengo lo fosse anche Salvatore. Fortunatamente, la conversazione scivolò sulla pittura, anche perché sul tavolo c’erano dei fogli di carta da disegno schizzati. Parlammo del più e del meno. Fra le altre cose mi disse che era a Roma perché riteneva che l’ambiente romano avrebbe potuto offrirgli gli stimoli necessari per la sua crescita culturale e artistica. Mi confessò ancora che era senza lavoro, e la padrona di casa voleva sfrattarlo.

     Dalla confessione capii che questo giovane era terribilmente solo con i suoi problemi, e che non poteva far conto sui suoi genitori, sicuramente non ricchi, e comunque non in grado di aiutarlo economicamente. Infine mi colpì non poco, che questo ragazzo non metteva assolutamente in conto di ritornare a Modica.

     Tenacia, caparbietà, incoscienza? Forse, consapevolezza delle sue forze, e capacità di fare progetti a lunghissimo termine, fidando solo su se stesso. Questo, in un giovane poco più che ventenne.

     Con una punta di amarezza, quasi senso di colpa, capii di essere fortunato; dietro di me, sentivo la presenza dei miei genitori con la loro forza economica. Prima di quella sera, non avevo mai pensato che potessero esistere personalità così determinate come quella di Salvatore Fratantonio. Mi convinsi che questo giovane apparteneva ad un’altra categoria di persone: improtette ma libere, e principalmente forti, perché capaci di cavalcare avversità e incertezze della vita, e soprattutto, capaci di realizzare se stessi fidando solo su se stessi, senza fare affidamento su altri.

     Nei suoi confronti, mi sentii come un uccello in gabbia, che qualcuno riforniva amorevolmente di acqua e mangime in abbondanza, con l’unico compito di cantare; e mi resi convinto che se i miei genitori non avessero messo cibo nel mio recinto dorato, non sarei stato capace di sopravvivere.

     Questo è il “la” di quel mio primo incontro con Salvatore Frantantonio. Il resto sarà solo conferma di quanto avevo intuito.      

     Da quella discussione uscii pensieroso, e soprattutto arricchito. Certamente non potevo immaginare che negli anni a venire quel giovane provinciale, solitario e parco di parole, avrebbe potuto costruirsi una carriera di pittore e, con essa, un nome.

     Intanto, la serata si era messa male: ventosa, fredda, con raffiche di pioggia a intermittenza. Erano i primi di un gennaio, che preannunziava uno degli inverni più rigidi di quegli anni.

In via della Frezza

     Qualche settimana dopo, a sorpresa, Salvatore venne a trovarmi in Via della Frezza n. 62.  Mi disse che non aveva dove andare. La padrona di casa, che lui soprannominerà “l’Arpìa”, perché lo tormentava con pressanti richieste del dovuto, lo aveva chiuso fuori di casa e non voleva dargli le valigie.

     Non mi chiese prestito di denaro, solo di poter essere alloggiato nella casa, che io avevo appena preso in affitto,  sempre in via della Frezza, al n. 65, ma non avevo cominciato ancora ad abitare.
    
    Si trattava di un vecchio appartamento, certamente medievale, di una decina di stanze, disabitato da decenni: muri rotti e finestre mancanti, sporco da non dirsi, privo di corrente elettrica. Ma per noi, quella dimensione da bohèmienne, era sinonimo di libertà, e ci stava benissimo. Salvatore la soprannominò subito “la casa degli spiriti”, una pennellata che coglieva l’anima del tutto. E non aveva torto, se si pensa che in seguito passammo più di una settimana muovendoci di sera alla tenue luce di una candela, che spesso si spegneva a causa degli spifferi.

     Le freddi correnti d’aria e le porte che sbattevano, là dove c’erano, facevano da cornice a quell’inverno terribile. Prendemmo il coraggio a due mani e decidemmo di trasferirci subito in quella spettrale e indimenticabile topaia. Acquistammo scope e sacchi di plastica per dare una ripulita a un paio di stanze, io scelsi la prima, Salvatore scelse quella che si trovava alla fine di un lunghissimo e buio corridoio, e come ci fu detto in seguito poggiava sopra lo studio romano dello scultore Canova; ma, la sera calò presto e ci adagiammo su due reti senza materasso per passare quella notte lunga e fredda. La mattina dopo eravamo entrambi anchilosati, infreddoliti e frastornati. Dall’unico rubinetto che c’era in cucina, usciva un filo di acqua gelata.

     Il giorno dopo, telefonai a un mio compagno di università. Gli chiesi se conosceva qualcuno che potesse dare un lavoro al mio amico acquisito. La risposta non si fece attendere. Con gioia e sorpresa ci fu detto che una ditta di Frascati cercava un pittore-imbianchino. Ci fu dato l’indirizzo. Salvatore accettò il lavoro serenamente, confortato dal fatto che, se non altro, avrebbe continuato a usare pennelli e colori.

     Da allora la nostra vita trascorse quasi di routine. Lui partiva al mattino presto, mentre io dormivo, e tornava nel pomeriggio inoltrato, quasi sempre al buio. Io restavo sui libri tutto il giorno, e l’aspettavo con ansia, perché al suo ritorno era obiettivo concordato da entrambi visitare le gallerie d’arte del centro per tenerci informati sulle novità.

     Via della Frezza era nel cuore della Roma antica, fra via di Ripetta e via del Corso; fra Piazza Augusto imperatore e via Canova; a due passi da piazza di Spagna, da Piazza del Popolo, via del Babbuino, via Margutta, dalla Barcaccia, da Trinità dei Monti; tutte strade e luoghi pieni di vita, di storia e di arte, dove era possibile aggiornarsi su quello che offriva il mercato della pittura.

    Percorrendo le strade fra una galleria e un’altra, le nostre conversazioni vertevano su quanto avevamo visto quella sera. Poi lentamente, nei nostri discorsi entrarono di diritto concetti di estetica: cosa è l’arte? Cosa bisognava intendere per contenuto e cosa era la forma? Se l’arte era solo forma? Se c’era un rapporto fra pittura e musica? Se di necessità la pittura doveva imitare la natura, oppure no? Qual era la differenza fra arte rinascimentale e arte orientale? E così via.

     Forse, allora, non ne avevamo coscienza, ma la nostra era una scuola peripatetica in senso vero. Conversazioni creative, dove poco o nulla era attinto dai libri, e alle quali Salvatore partecipava con una attenzione incredibile e con osservazioni acutissime. Non perdeva nulla, registrava tutto e richiamava gli argomenti per approfondirli, anche dopo settimane.

     Lentamente, il nostro piccolo sodalizio di visitatori accaniti di mostre e musei si allargò, e all’appuntamento serale si aggiunsero altri giovani pittori come Marco Kamm, oggi architetto e pittore romano, Lino Tardìa, Beppe Guzzi, Salvatore Provino e, in seguito, anche il prof. Rodolfo Cristina, che aveva chiesto di abitare con noi in via della Frezza.
  
Pittori del dopoguerra
   
    Cristina era un maestro nella accezione classica del termine. Conoscitore della storia dell’arte, materia che insegnava a scuola; restauratore di quadri antichi; pittore forte, che aveva un solo limite: quello di dipingere cedendo non di rado a modelli allotri: dal francese Cézanne a Carrà, da Ardengo Soffici a Rosai, De Pisis, Sironi. Per il resto realizzava opere interessanti, che dimostravano anche la sua capacità creativa.

     Alla nostra crescita culturale, servirono i suoi contributi,  i suoi apprezzamenti, le sue sottili analisi critiche ed estetiche, soprattutto quando spiegava dal suo punto di vista le opere che ci trovavamo davanti. Particolare attenzione veniva rivolta a De Chirico, che all’epoca abitava un attico prospiciente la scalinata di trinità dei Monti ed esponeva alla “Barcaccia”, dai fratelli Russo; ma c’erano ancora le opere di Alberto Trevisan, Eliano Fantuzzi, Tomea, Omiccioli, Monachesi, Mafai, Morandi, Rosai; e lo stesso Guttuso, Ennio Calabria e Piero Guccione che esponevano alla “Nuova Pesa”.
          
     Situazione originale - questo scambio di impressioni e di contributi culturali - che ci diede la insperata possibilità di vivere proprio sul campo una esperienza di arte, di critica e di pittura di altissimo rilievo. Personalmente devo molto a quegli incontri, a quelle discussioni, spesso accanite, se in seguito alcuni di noi presero le distanze da chi si dichiarava nemico di tutti gli astrattismi. Ma, è chiaro che quelle conversazioni servirono non solo a me, ma anche a Salvatore Fratantonio, se solo si guarda il percorso pittorico dallo stesso raggiunto in seguito, e se si pensa che, al di là di questi incontri, Salvatore, fortemente caricato, restava tutto il tempo chiuso nella sua stanza a dipingere sino a notte fonda, rubando ore preziose al sonno.
  
Il ristorante “Da Peppino”, in via dei Greci
  
     Ma, nella mia memoria restano altri episodi di quegli anni. Le cene conviviali “Da Peppino” in via dei Greci, dove ci si ritrovava ancora insieme tutte le sere poco prima di mezzanotte. Lì, in quello storico ritrovo letteralmente tappezzato di quadri, era possibile incontrare tutti i giovani artisti che facevano capo a via Margutta. Lì, Salvatore era il pittore prediletto dal proprietario e dalla signora Maria. Erano sempre loro che chiudevano un occhio quando il giovane pittore non poteva pagare la cena, e furono loro i primi acquirenti dei suoi quadri, per non dire che Peppino lasciava spesso, sbadatamente, il pacchetto di sigarette sul tavolo, accanto al piatto di spaghetti di Salvatore.

      Ora, il ristorante “Da Peppino” in via dei Greci, non c’è più.  Peppino e la sua felliniana signora se ne sono andati; ma, non c’è più neanche il palazzo di via della Frezza 65, così come è scritto nella nostra memoria. I proprietari lo hanno completamente restaurato e ristrutturato, cambiandone la destinazione d’uso.   

Simbolismo metafisico

     A questo periodo risale la prima mostra di Salvatore al quarto piano di via del Babbuino, nella Galleria di una nobile signora siciliana amante dell’arte e dei bei giovani. Quella sera arrivammo puntuali e solidali tutti gli amici. Presente anche il professor Renato Civello, modicano. Ma a quella prima vennero anche Eliano Fantuzzi, altro sponsor di Salvatore, e il vecchio Omiccioli, che a quei piani alti arrivò col sopraffiato.

     Presente a quella “Prima” fu pure il critico Franco Mieli, che aveva presentato il catalogo e che alla inaugurazione fissò dei concetti fondamentali dell’arte di Salvatore; la definì pittura che prendendo le mosse dal realismo romano risolve il tutto in una sorta di “simbolismo metafisico”. Delle sue opere – così disse - lo colpivano le atmosfere surreali, all’interno delle quali si libravano figure e soggetti densi di significato. Lo colpivano ancora il silenzio, il senso dell’infinito e la solitudine ontologica dei suoi paesaggi, sempre calati in una atmosfera di sogno. L’arte – disse ancora Franco Mieli - rimanda certamente a significati che il pittore suggerisce e che il fruitore deve percepire. Senza queste premesse, non c’è creazione, e ogni forma artistica è vuota. A quelle parole il pensiero di qualcuno tornò alle opere di Trevisan, il surrealista per eccellenza di questo periodo romano, mentre qualcun altro rivide la lezione di De Chirico. Oggi, a distanza di tanti anni, tornando alle opere di Fratantonio ritengo che il famoso critico romano avesse colto nel segno. Forse avrebbe dovuto aggiungere il concetto di forza che tiene in tensione l’arte di Salvatore. Il carrubo che resiste alle intemperie di una terra ingrata ne è il simbolo.      

      Ma, quella sera, la sorpresa fu un’altra: la presenza di Peppino e della signora Maria, vestiti da cerimonia e felici di essere presenti. Non venivano da lontano. Via dei Greci era a poco più di cento metri. Ma la loro presenza sostituiva magnificamente quella dei nostri genitori. Ed era commovente. 

Poi, qualcuno andò fuori e tornò con qualche bottiglia di spumante. Brindammo felici, all’arte, alla nostra giovinezza, alla fortuna, all’amicizia, al nostro futuro.    

Quella vita romana durò qualche anno. Poi, dopo la laurea, io tornai a Modica, Salvatore dopo altre mostre, si trasferì a Milano. Da allora non ci siamo più incontrati se non nel ricordo di una esperienza comune e di una stima profonda e reciproca.

                                             Gino Carbonaro


Ragusa, luglio 2005


2012/01/31

Mamuthones Mamoiada Rito Arcaico Carnevale

Barbagia


Rito dei Mamuthones 
nella Barbagia 

                                                                                                                di Gino Carbonaro


 A Mamoiada, piccolo centro della Barbagia, posto su un altopiano tra i monti di Orgòsolo, Fonni e il monte Gonare, 
a Carnevale fanno la loro apparizione i Mamuthones.
Il rito arcaico e spettacolare, unico nel suo genere, oggi si svolge in gruppo e richiama lo schema dei Lupercali romani. 
Le maschere sono nere, terribili. 
Il rito  esorcistico-propiziatorio.





Mamuthones
di Mamoiada

     I preparativi per il Carnevale cominciano nel giorno della festa di S. Antonio Abate, [1] ma i Mamuthones entrano in scena nel pomeriggio del martedì grasso. In quel giorno, i protagonisti, seguiti da un corteo di amici e curiosi si recano nella Casa della vestizione, che un tempo si trovava fuori dall’abitato. Lì vengono aperte le casse dove sono custoditi i costumi e, assistiti da aiutanti, danno inizio al rito sacrale della vestizione, indossando i campanacci, mentre rifanno le prove dei passi, che il gruppo dovrà eseguire in perfetto sincronismo.
    
L’abbigliamento del Mamuthones comprende

-          Sa bisera, la terribile maschera nera di legno di castagno, oggetto apotropaico per eccellenza.
-          Sa mastruca, un giaccone di montone nero senza maniche che viene indossato rovesciato.
-          Su mucadore ’e tibet, un fazzoletto di donna nero messo in testa, annodato sotto il mento.
-          Un numero enorme di campanacci di pecore e di mucche di ogni genere e misura, legati fra di loro da corde di cuoio, che verranno caricate sulle spalle del Mamuthones.
-          Una collana di piccoli sonagli  attorno al collo.


    Quando tutti sono pronti, i Mamuthones si dispongono fuori della casa e, diretti da un coordinatore che detta il tempo, si muovono con passo cadenzato, battendo con forza i piedi per terra, facendo nel contempo sussultare sincronicamente i campanacci con decisi contraccolpi delle spalle. L’avanzare del gruppo è faticoso, il rumore provocato è lugubre, la performance  evoca riti arcaici.

    A un momento non previsto, i Mamuthones compiono tre forti sussulti dei campanacci seguiti dal rumore della sonagliera. È adesso che il gruppo cambia il passo del piede, da destro a sinistro e viceversa.
Da qualche tempo, i Mamuthones sono preceduti da un numero imprecisato di Issohadores,[2]  figure simboliche senza maschera sul viso, che indossano un costume molto bello: camicia bianca, gilè rosso, pantaloni di orbace [3] nero alla zuava, stivaletti, berretto con nastri colorati e uno scialle femminile di seta attorno alla cintura.


Issohadores


     Gli Issohadores avanzano in modo elegante, ruotando e lanciando la soca verso il pubblico: chi verrà preso sarà costretto ad offrire qualcosa, quando, a cerimonia ultimata, i protagonisti si recheranno a bere al bar. Così vuole la tradizione.   

     Sino ad oggi, nessuno ha saputo dare una convincente interpretazione dell’evento: c’è chi dice che i Mamuthones sono diavoli (da Maimones = diavolo, in sardo); c’è chi fa discendere il loro nome dai Moros, i nemici che i Sardi sconfissero agli inizi del IX sec; e chi collega l’evento ai 3000 africani inviati nel IV sec. in Sardegna da Genserico.

     Al di fuori di queste ipotesi, nessuno può dire perché il rito seguiva questa procedura e adottava questo vestiario.

     A noi sorge naturale il confronto con fra il rito dei Lupercali e quello dei Mamuthones.

     I Mamuthones, si vestivano fuori dell’abitato, da dove, poi, si avviavano verso il villaggio, percorrendo i vicoli, entrando all’interno delle abitazioni, sempre scuotendo in modo lugubre, monotono, ossessivo i 36 campanacci cad., che portano sulle spalle, e sempre accolti con atteggiamento festoso da quanti li incontrano .

Alla fine, i Mamuthones si riuniscono in una trattoria dove qualcuno li aiuta a deporre maschera e campanacci. E' lì che li attende il ristoro, una cena abbondante preparata a base di fave e lardo, annaffiata da non poco vino, e sempre accompagnata da gioia e risate.

- I passi dei Mamuthones [4] sono forti, determinati, come vuole un rito arcaico ed esorcistico. Disturba non poco rilevare che oggi i passi vengono fatti con l’eleganza di chi è solito praticare le discoteche.











[1] Tre settimane prima del martedì grasso (!)
[2] Isoccadores: sono i portatori di soca, la fune che, come il lazo dei cow boy, viene fatto ruotare e lanciata per catturare animali, ma qui si cerca simbolicamente di acchiappare i mali.
[3] Orbace: Orbace: stoffa di lana tessuta a mano, tipica della Sardegna, dove è usata per i costumi regionali. Divenuta stoffa tipica delle uniformi fasciste, il termine diventò, con connotazioni spesso negative, sinonimo di divisa.
[4]  Etimologicamente, il termine Mamuthones contiene la radice Mah, presente in ogni parola che ricorda qualcosa di grande, potente e anche terribile: Ma-estro, ma-re, ma-mma, ma-le, ma-mmona, ma-mmuth, ma-ni, ma-fia, Mani-thouh, ecc.

2012/01/24

La Punizione di Salvatore Scalia

Dalla cronaca alla letteratura

                          La Punizione

Nel maggio del 1976, a Catania, quattro ragazzi fra i dodici e i tredici anni scippano una anziana signora, che cadendo si frattura un braccio. Senza saperlo, i ragazzi hanno derubato la madre di un potente capomafia. L'affronto subito dalla "famiglia" è enorme. I ragazzi scompariranno nel nulla. Il libro ricostruisce quella storia di ordinaria follia. Salvatore Scalia crea un'opera di grande valore letterario.      

     In questo libro è favoloso l’impianto. Le chiavi di lettura. Tantissime. Qualcuno potrebbe pensare che il racconto procede secondo uno schema cinematografico, che ricorda la sceneggiatura: mosaico di specchi che insieme e lentamente fanno emergere la struttura dell’opera. Altri, potrebbero essere colpiti dalla qualità della scrittura, che procede forte, magmatica, ipnotica, tale da ricordare l’eruzione di un vulcano, che sino alla fine non perde mai la sua energia, il suo fascino, il suo mistero. Altri, ancora, un sociologo per esempio, potrebbe considerare il libro sotto il profilo sociologico, documento di una sottocultura di confine in una città della Sicilia, evento sociologico importantissimo. Uno psicologo, potrebbe rilevare nel racconto la bellezze delle analisi introspettive dei suoi protagonisti: vedi la dinamica dei bambini prigionieri nella stalla, vittime inconsapevole di una logica brutale. Uno storico potrebbe cercare di segnare l’impossibile confine fra cronaca e microstoria. Un giudice di tribunale, potrebbe rilevare come è di fatto impossibile applicare la giustizia senza le prove. Chi ama le cose belle potrebbe affermare, giustamente, di trovarsi davanti a un’opera d’arte nel senso più profondo della parola. Arte classica per l’equilibrio, la distanza, l’armonia con cui procede il racconto, dove la scena successiva e conseguenza logica della precedente, dove non registri mai uno stridore, uno iato fra il prima e il dopo, una caduta di tensione, un narcisismo.
    Ma se in questa sede sono consentite le analogie e le classificazioni letterarie, a partire dal titolo, La Punizione, va riportata al novero delle tragedie, alla stregua di tutte le grandi opere che, dal passato ad oggi, sono state scritte e portate in scena per diventare esempio di riflessione all’umanità.
    La Tragedia attiene sempre alla religione e alla filosofia. Le domande, i grandi interrogativi che sottendono all’impalcatura de La Punizione sono ancora la ricerca del senso della vita, del senso delle nostre azioni, per cercare di capire chi siamo, dove andiamo, e il lettore non può che leggere una sottile denunzia sociale. Ma, denunzia contro chi? Contro la isterica aggressività di madri abbandonate dai mariti e abbrutite dalla miseria? Contro il deragliamento di giovani scippatori spinti al furto per scommessa e per  necessità? Contro la belluinità di uomini senza anima, che non possono avere scrupoli proprio perché non hanno una coscienza. O denunzia contro un Dio che si nasconde lontano al di là delle galassie? Perché, Dio è chiamato in causa ne La Punizione, ed è un Dio che sembra affiorare di tanto in tanto, come un pallido raggio di luce fra nuvole che appannano i cieli invernali. Così, le considerazioni di Nitto, il mostro che in una notte senza Luna, osservando le stelle cerca di chiarire a se stesso il senso delle cose: il perché la sua "mammuzza" aveva dovuto tanto soffrire per colpa di quattro ragazzacci. Ed è, quello di Nitto, una sorta di ritiro purificatore nell’orto di Getsemani, prima del grande sacrificio. La ricerca di un consenso da parte del grande, forse unico responsabile delle cose.
     Contenuto e forma de La punizione attengono alla tragedia. Lo rivela il Prologo, che introduce, come nelle tragedie greche, il tema assurdo, allucinante, tragico: la follia degli umani. Lo rivela ancora il fatto che gli eventi, denunziati nella cavea di un ipotetico teatro scavato nella pietra, non trovano una risposta. Lo dimostra la presenza periodica del coro, vedi la gente che al mercato commenta l’aggressione fatta ad una povera donna. Lo confermano tasselli di frasi raccolte per costruire il vaniloquio di luoghi comuni (p.33). E poi la rabbia, la temuta vendetta, la necessaria punizione. Per riportare l’ordine nelle cose. Temi classici della tragedia greca di stampo euripideo, ma senza la denunzia, che il tragico greco rivolge agli Dei. Così, ne La punizione, in questa opera che ha la configurazione di una perizia psichiatrica di una società folle, senti la tragedia della vita. L’imminenza di una sciagura. Vedi il bellissimo “Rientro a casa” (p.36), dove tutti sembrano essere soggetti a una legge sconosciuta, dove le terribili sanzioni vengono non dalla "gente", ma da un demone sconosciuto, da una forza oscura, dove la colpa chiama colpa e il sangue chiama sangue per placare una giustizia cosmica, punitrice. 
     Ma quando la Úbris fiorisce, c’è l’accecamento (Áte) da cui si raccoglie larga messe di lacrime. Anche qui, gli uomini prendono parte al loro destino, ma non lo determinano. L’atmosfera del racconto è tragica, ad ogni passo che scorre, fluido lucido chiaro, come se di ogni cosa fosse possibile sapere tutto, mentre in realtà nessuno sa niente. 
    E anche qui, ne La punizione, è visibile il rapporto tra colpa e pena, e la necessità di conformarsi a una sorta di ordine cosmico. 
     L’azione degli uomini, determinata da una pulsione dettata dalle parti più oscure dell’Es, è sempre razionalizzata dai protagonisti. Ma, noi sappiamo che non è razionale. Così, tutto prosegue secondo una logica fatalistica che ripropone senza volerlo la Týche dei Greci, l’accaduto che accade perché deve accadere. 
     Ed è così che La punizione di Salvatore Scalia diventa opera grande: di filosofia, di sociologia, di politica, ma soprattutto opera d’arte e di pensiero, di cronaca e di storia. Protagonisti dell’opera? Tutti e nessuno. L’Autore? Non si vede. Non c’è. Lui non partecipa, non giudica. Lui riporta semplicemente i fatti, realizzando così il suo grande amore per la cronaca, per la scrittura, per la verità, per l’arte.

                                                                       Gino Carbonaro
Ragusa, 26 aprile ’06 

                                          


 

In memoria di Francesco Veneziano

Francesco Veneziano  
Elogio funebre

La vita è un miracolo.
La morte è un mistero.
La morte di un giovane è una tragedia
Per la quale chiediamo le ragioni.

Vogliamo capire perché un fulmine deve colpire una casa
dove ci sono persone che si prodigano per il bene degli altri.
Vogliamo capire perché coloro che fanno bene  devono ricevere in cambio il più crudele dei mali.

Non può essere un conforto per Maria Teresa, la madre di Francesco, sapere che lei porta il nome di un’altra madre che ha perduto un figlio della stessa età: non è conforto per il padre Giuseppe, sapere che porta il nome del padre di Gesù Cristo.

Quel Lunedì, alle tre e mezzo di notte, Francesco si recava al lavoro senza sapere che stava camminando sulla strada del suo Calvario.

Ma la strada del Calvario è quella che porta in Paradiso,
proprio vicino al cuore di Dio, dove vengono accolte le anime dei più buoni, dei più sensibili, dei più affettuosi, dei più amati da tutti gli amici.

Ora Francesco è pianto da tutti.
Lo piange la madre inconsolabile, il padre, il fratello Emanuele, la zia Silvana e le sue cugine. Lo piangono gli amici. Lo piange tutta la città di Scicli, perché Scicli è una grande famiglia e oggi è morto un nobile figlio di questa città.
Noi tutti, non lo dimenticheremo mai.

Ora vi farò ascoltare un canto di dolore, quasi una preghiera, che un giorno Francesco mi aveva sentito suonare, e per questo mi aveva detto con la sua voce particolare: “Ginu, u sai, sta canzuna mi piaçi, a sunasti bona, occu bbota m’ha ffari sentiri attorna”. 
Non pensavo che gliel’avrei fatta riascoltare in questa occasione.    


 
                                                                  Gino Carbonaro

Aforisma, fra il dubbio e la ragione


Elogio dell'Aforisma 
Concetto un po’ grottesco, un po’ folle, un po' geniale, spesso mascherato e sempre  portatore di una estrosità carica di amarezza e di follia


   L’aforisma è un pensiero sintetico, un concetto che coglie un rapporto impensato fra due eventi, e suggerisce verità nuove, non previste, anche se implicite al concetto che l'aforisma presenta.

   Caratteristica dell'aforisma è l'estrema brevità.  Un'idea fulminea che scuote e libera un pensiero e fa luce, sia pure per poco, su qualcosa. Poi, a distanza di tempo, arriva il tuono delle possibili considerazioni, o anche una fragorosa risata. Alla fine? Tutto torna come prima.

   Il termine deriva dal greco aphorìzein, è lo stesso da cui si fa derivare la parola orizzonte, e indica ancora un concetto chiuso all'interno di un limite, seppure capace di andare al di là dell'orizzonte concettuale che lo circoscrive.

   Aforisma è definizione incisiva, ma anche sferzante, modo per scuotere chi legge, per esortarlo a considerare meglio cose, eventi, uomini. Con l'aforisma è come osservare la realtà dal buco della serratura (anche l'osservazione è limitata) senza che la visione concettuale possa essere disturbata dalla interferenza di altri fatti, oggetti, eventi.

   Aforisma è una microstruttura logica, in sé completa, che esplora atomi di realtà, frammenti di verità: punti di vista per osservare la realtà da angolazioni diverse.

   L’aforisma non va confuso con la massima, né con il detto, il motto, l'adagio, né tanto meno col proverbio,  con i quali ha in comune la brevità, ma non la funzione.

   L'aforisma, non ha finalità pedagogico-morali, come la massima e il proverbio. Non presume la scoperta di verità assolute, eterne, oracolari. Non si rivolge all'uomo per correggerlo o migliorarlo, ma solo per introdurlo nell'affascinante mondo del pensiero e delle parole, per insinuare il seme del dubbio nelle sue rassicuranti e pretestuose  certezze. Lo scopo, semmai ne ha uno, è quello di far dubitare, di far ri-flettere (nel senso etimologico della parole). Flettere nel senso di piegare la realtà, che lo specchio della mente restituisce come informazione di ritorno sotto un aspetto inconsueto.

   L'aforisma esorta ad essere cauti nei giudizi, a riconsiderare gli anonimi "si-dice-che", a intercettare la presenza dell’infìdo e rassicurante luogo comune, che si annida, anguis in herba,  dappertutto, e addormenta le coscienze, quasi offesa all'intelligenza e alla libertà del pensiero.

   E ancora, l'aforisma tenta di schernire la verità ufficiale, insinuando il sospetto che possano esistere più verità: la mia, la tua, la sua, la nostra, senza con ciò escludere l'esistenza di una verità univoca ed assoluta. Ma se quest'ultima esiste, ed è possibile che esista, è anche vero che la stanno ancora cercando.

   L’aforisma distrugge i feticci e privilegia il paradosso, mentre fa uso di sillogismi extra-vaganti, ma solo per farsi beffe  della  logica.

   Il concetto cui vuole pervenire l’aforisma è che, anche la logica, la prima delle scienze ‘cosiddette’ esatte, è a rigor di logica ‘non-sempre-logica’.

   Eppure è sulla logica che fondiamo i valori e diamo un senso alla vita e decidiamo le nostre scelte e assumiamo le nostre responsabilità: morali, legali, religiose. Ed è servendosi della logica, che gli uomini fondano società, progettano il futuro, sottoscrivono accordi, segnano con precisione il confine fra bene e male, giusto e sbagliato, lecito e illecito, legale e illegale.

   Con tutto ciò, l'aforisma non rinunzia a rifare il trucco alla realtà svuotandola del significato che le attribuisce la conoscenza ufficiale. Tanto si verifica ribaltando i punti di vista, creando collegamenti neuronali nuovi e invitando ad esaminare la possibilità che "l'unica certezza (semmai ce n'è una) è che ci sono molti dubbi";  e l'unica verità, sempre che ne debba esistere una, è che “solo le menzogne sono vere”.

   E scivoliamo nel paradosso, in questo assurdo figlio naturale della logica, che dice il vero della realtà, che è sempre doppia, dionisiaca, indefinibile. Ma pochi sembrano prendere in considerazione il paradosso, che, di norma, viene sdegnosamente ripudiato da molte delle scienze ufficiali. 

   Al contrario, l'aforisma  fa suo il trasgressivo paradosso, e all'occasione ne diventa la voce, facendosi carico di scoprire analogie impensate, nessi logici nascosti, come quello (un esempio) che lega il genio e il folle, che, a suo dire,  hanno qualcosa in comune: difatti, entrambi seguono percorsi ‘logici’ diversi, imprevedibili.  

   Questo è l’aforisma: concetto un po’ grottesco, un po’ folle, un po' geniale, spesso mascherato e sempre  portatore di una estrosità carica di amarezza e follia.

                                          Gino Carbonaro