2019/07/02

La Poetessa di Silvia Cecchi


Dalla scatola delle fotografie di famiglia
La Poetessa 

di Silvia Cecchi


     Mio padre era fotografo, mia madre anche. Io lo ero di sponda. Figlio d’arte. E, capitava spesso di vedere un bel tramonto, un bel panorama e si cercava subito da bravi fotografi di bloccarne la bellezza con uno scatto. Si pensava di poter  afferrare l’aria, l’ineffabile, bloccare in eterno quella indescrivibile bellezza che a sorpresa ti offre la Natura. Ma, era delusione quando, sviluppato il rullino e stampata la foto, si guardava il risultato su un rettangolo di carta al bromuro d’argento. L’atmosfera non c’era. L’incanto neppure. L’immagine riportata era lontana dal vero. Una delusione.
     La stessa percezione di allora, lo stesso timore ho avuto quando davanti al mio computer ho creduto di poter consegnare a un potenziale lettore, ad una attenta lettrice,  il contenuto, ma soprattutto la bellezza di questo libro titolato “La Poetessa” dalla scatola delle poesie di famiglia, di Silvia Cecchi. 
     A leggere, da subito, ho capito di trovarmi davanti a qualcosa di nuovo, di originale, di intrigante, ma soprattutto di bello. Pensieri che si srotolano come su un elegante tappeto su cui il lettore, la lettrice incedono lentamente per gustare la bellezza di quel de-scrivere, profondità di un contenuto che sa leggere nell’animo di una Donna, poesia soprattutto ad ogni momento. Lettura. Che all’inizio ti incuriosisce, poi ti affascina, quindi ti prende.


Il contenuto del libro:  poesia e filosofia

    Si tratta di un racconto nel quale una Donna, “La Poetessa” (io narrante), rovistando tra le fotografie di famiglia all’interno di una scatola,  rievoca il suo passato, parlando a mezza voce. Monologo di chi parla con se stessa per ricordare esperienze tristi e meno tristi della sua vita.  Lettura di una realtà depositata nella memoria. 
       
     Dentro questo lungo racconto (o romanzo?) c’è il tutto della protagonista, che poi è la scrittrice, Silvia Cecchi, con il suo amore per la scrittura, con la sua cultura (fuori del comune) la sua filosofia della vita, la sua lettura della realtà con il suo inestricabile aggrovigliato inspiegabile labirinto, e le sue pene e i suoi dolori. Come pure la necessità umana di resistere, sopportare, tener duro. Necessità di accettare le traversie, per non lasciarsi travolgere dalle tempeste che ci colgono a sorpresa e ci trovano incapaci di opporre una resistenza. Perché nella vita ...

“Querce bisogna essere. Ben radicate sulla terra”

Ed è necessità restare sulla scena fino al gran finale, quando per ognuno di noi, la nostra storia sarà finita,  e si chiuderà il sipario.

        Da questo romanzo, che è storia di un’anima, si evince che la vita procede su due livelli: da una parte poggia sul reale (la vita), con le sue necessità, il suo improrogabile inesorabile destino, dall’altra riposa sulla 

“Beata levità dei sogni, e dei desideri dimenticati (...) 


supportati da una fantasia che lievita la realtà e la fermenta. Fantasia che è il lievito del nostro esistere, del nostro futuro, dei nostri progetti sognati.   

Fantasie rare, come le apparizioni, 
che nascono sempre 
come un prolungamento 
delle cose reali, concrete, di tutti i giorni.

    E la delusione? Quella si ha quando il sogno scoppia e si frantuma come bolla di sapone. Quando ci si accorge che

             “La vita duole dentro come un viscere freddo 
                           sul banco del pescivendolo”. 
                                “Quando ognuno di noi 
                          va incontro al proprio evento”.

“Quando viene da gridargli in faccia
a quel despota di un Destino”.

“Quando non si conosce abbastanza 
il male del mondo,
il fondo freddo di tutte le cose.” 

“Dolore che segna l’anima
che non è fatta per sopportare 
certi accadimenti, 
o si rompe a freddo
come la lastrina di ghiaccio 
quando sbrini il frigorifero 
o si rompe nella brace del dolore.

     Ed è allora che il lettore si accorge che il libro non appartiene alla categoria dei racconti ameni: leggi e metti da parte. Ma, si tratta di opera che ti obbliga a riflettere, meditare, per sorbire lentamente i messaggi impliciti, attenuati dalla sensibilità della scrittrice, che ti dicono come tutto nel libro vive all’insegna dell’arte, della eleganza formale, come pure di una filosofia soft, appena appena cennata, ma reale, vera, profonda. Perché? 

“La vita è un prolungamento delle cose reali, un grumo d’universo bisecato da rette metafisiche, in cui, uno spazio reale si interseca con uno spazio surreale” (...) e, conforto al tutto è il silenzio che puoi ascoltare (...) se ci si mette a singhiozzare in un angolo, non vista da nessuno..”.  

    Tante sono le chiavi di lettura del libro che consegniamo al lettore. Si pensi che la scrittrice cita in apertura Clarissa Pinkòla Estès, e il suo “Donne che corrono coi lupi”. E il fatto che protagoniste del libro sono due donne che vivono in un universo dove la cultura è quella dettata dal maschio. E la vita di una Donna è sempre segnata dal volere degli uomini.    
     
    Per chiudere, sentiamo doveroso leggere insieme il finale del libro e godere la bellezza descrittiva della nostra scrittrice, per valutare la forza, la bellezza, la intrinseca poesia del romanzo.

     “Un bel giorno le mille foglie della quercia si faranno piccole e scure, tante e gremite come un nugolo di storni di passo che siano calati sui rami tutti insieme. E un altro giorno, allo stesso modo, tutte insieme si libreranno nel cielo, e la quercia resterà lì, brulla con i suoi rami spogli”.      

E ancora, la chiusura finale:

“C’era nell’aria un respiro lieve … La vecchietta smemorata stava tornando per la via di casa, con la neve che le cancellava i passi, e l’ombra una volta davanti, una volta di dietro. L’attirò una luce, un canto come un coro di voci. Erano gli angeli - pensò - finalmente gli angeli. Oppure i suonatori che venivano a prenderla e l’avrebbero portata in un altro paese, ancora più lontano, dove c’è un’altra fiera, un altro mercato, altri boschi, altre strade… 

E allora... 

La poetessa non ci sarà più. Ci sarà solo il suo quaderno incompiuto. E, un quaderno incompiuto prima o poi trova sempre chi lo continuerà, finché il lettore un giorno lontano più non saprà distinguere se in esso vi sia una sola vita, o due, o chissà quante … unite. 

Postilla: Il libro sembra scritto a quattro mani. Come se la scrittrice Silvia Cecchi riferisse la storia vera di Anna Teresa Albanesi, poetessa, che nella sua vita non mancò mai di bloccare con una poesia tutte le esperienze della sua vita, e poco prima di lasciarci raccontò questa storia alla scrittrice. Interessante la confessione della “Poetessa” che della sua poesia dice:

     Sapere di avere salvato al caso qualcosa, di averla trattenuta dal franamento dei giorni, di averla messa dentro a parole che restano sul foglio di carta, che a pronunciarle hanno persino un suono (...)  

Ed è uno scopo nobile, anche quando si mette a dimora l’idea che quei fogli di carta 

“Dovessero servire solo 
a fare i denti buoni ai topi, 
che roderanno le mie parole in soffitta”.    

Ma, si sa che il tutto è un escamotage per scavare all’interno dell’anima, tentare di scoprire il senso del nostro esistere, il perché della vita e della morte, e ricordare con la poesia i segni lasciati dentro di noi dalla vita.                                            
                                         Gino Carbonaro             

          

     

Nessun commento:

Posta un commento

Puoi cambiare questo messaggio sotto Impostazioni > Commenti