GINO
Biografia per il dr. Belluardo
Ragusa, luglio 2004
Chi scrive è Giorgio Carbonaro, detto Gino, nato a Scicli, il 31 dicembre del 1938.
Mio padre e mia madre erano fotografi, prima a Scicli, in via Mormino Penna n. 48, nella casa dove sono nato, poi, dal febbraio 1947, a Modica, dove la mia famiglia si è trasferita, al Vico Giallongo 9. A Modica, allora considerato centro di studi, ho seguito le scuole: elementari a partire dalla quarta, poi le medie e il Liceo-Ginnasio “Tomaso Campailla”.
Traumi infantili? nessuno sino all’aprile 1947, quando in seguito al trasferimento a Modica, i miei genitori decisero di farmi concludere l’anno scolastico a Scicli, lasciandomi con la nonna materna. Nel complesso di trattò di un tre mesi, forse quattro, che per me furono duri. Mia nonna viveva sola[1], in un quartiere lontano dal mio. Di fatto perdevo il mio unico compagno di giochi senza trovarne di nuovi.
Mia nonna era una donna spiritualmente povera. L’unica cosa dolce che mi ricordo di lei era la cura che aveva per una pianta di gelsomino che non dimenticava mai di annaffiare tutti i pomeriggi. Altri interessi? Quando il Sole girava ritagliando una fetta d’ombra sulla strada, mia nonna trasportava una sedia al balcone e si sedeva a guardare la gente che passava. Così trascorreva il tempo in quei lunghi e afosi pomeriggi che per me non passavano mai. A quel tempo non c’erano televisioni, né telefoni, mio padre e mia madre non avevano ancora acquistato una automobile. Così, pur essendo Modica a poco meno di otto chilometri da Scicli, in realtà era come se fossi stato abbandonato in un luogo lontanissimo: distanza psicologica, non spaziale.
A sorpresa, poi, un pomeriggio di un giorno che doveva essere di giugno, quando le scuole erano già chiuse, vidi apparire a sorpresa mia madre vestita elegante accompagnata da una amica, una donna che non avevo mai visto, e mi fece capire che dovevamo andare a Modica. Così, come ero vestito, dopo aver salutato mia nonna, ci avviammo a piedi come si usava allora verso la stazione ferroviaria. Lungo il cammino, mia madre continuò la conversazione con la sua amica. Io li seguivo senza particolare entusiasmo. Poi, ricordo, salimmo su un treno vuoto. Io giocavo con una pistola che mi aveva portato in regalo mia madre, ma che poi dimenticai sul treno. È questa la mia prima grave dimenticanza.
A Modica, nel vicolo dove era la casa che avrei dovuto abitare per anni, c’era un gruppo di ragazzi della mia stessa età che giocava ai cow-boy. Qualcuno teneva in mano una pistola giocattolo. Fu allora che mi accorsi di avere dimenticata la mia sul treno. Cercai di incrociare lo sguardo di qualcuno di questi ragazzi, ma nessuno si accorse di me. Non ero uno di loro e non sarei stato mai uno di loro, neanche in anni successivi quando mio padre mi comprò un pallone che mi avrebbe dovuto consentire una forza contrattuale nei loro confronti.
La novità che trovai a Modica era la seguente: mio padre era diventato il fotografo per antonomasia. Il lavoro non mancava, e dopo la guerra e le disoccupazioni e la fame, non era possibile rifiutare il lavoro che era sinonimo di cibo e di vita. A Modica, persi la speranza di avere la disponibilità di mio padre. A Scicli, quando era tornato dalla guerra, mio padre trovava il tempo per dipingere e io mi sedevo accanto a lui, e trovava il tempo per costruirmi dei giocattoli. Una volta mi aveva costruito una piccola automobile di legno con le piccole ruote che aveva fatto tornire a un amico; un’altra volta mi costruì un aereo di legno, a misura di bambino, dentro il quale mi infilavo io stesso e pedalando al suo interno, riuscivo a muovermi.
A Modica, l’unico momento in cui vedevo i miei genitori era a pranzo. Ma, mio padre usciva dalla camera oscura solo quando la “pasta” [2] era a tavola, quando mia madre gridava nella scala: “Pippinu”, lui staccava dal lavoro e usciva dalla “camera obscura” . Dopo pranzo mio padre andava a riposarsi un poco, mia madre scendeva giù nel laboratorio, mentre mia cugina lavava i piatti. Questa mia cugina era stata accolta in casa per non lasciarmi solo - diceva mia madre - in verità, per togliere una bocca alla tavola della sorella di mia madre, la zia Rosalia, il cui marito, barbiere, non riusciva a sbarcare il lunario. All’epoca i contadini pagavano tutto una volta l’anno e in natura (forma arcaica di baratto), cioè dando qualche sacco di frumento al barbiere, ma solo al momento del raccolto. Ma, l’inflazione era galoppante, e il frumento che riceveva in cambio del suo lavoro bastava a stento per far mangiare una sola persona.
A Modica, già dal primo anno di scuola, mi mancò il mio unico compagno di giochi, Pinuccio Barone, e dissi a mia madre che volevo tornare a Scicli. Il motivo per cui volevo il mio ritorno al passato era anche un altro. A Scicli avevo un compagno, e a scuola ero il primo della classe. A Modica, invece, trovai difficoltà a fare amicizie, mentre nella mia nuova classe, la Maestra Bellassai, aveva già i suoi prediletti, che fra l’altro non erano veramente secondi a nessuno. La bravura di un alunno era valutata dalla capacità di ripetere le poesie senza una titubanza oltre che dalla capacità di calcolo matematico. Ma, io a Modica cominciai a perdere la memoria. Non ero più in grado di ripetere una poesia a voce alta senza bloccarmi almeno tre volte.
Il mio ricordo di quel periodo modicano è associato al freddo e alla solitudine. Tornando indietro nel tempo, mi sembra di vivere come in un sogno. Ricordo il vuoto delle stanze in quella, per me, grande casa dove trascorrevo lunghissimi pomeriggi, da solo. Ho già detto che i miei genitori erano quasi sempre in camera oscura. Sento ancora il freddo di una casa non riscaldata, dove le imposte non chiudevano bene e lasciavano passare spifferi terribili. Perciò il freddo era anche reale, non solo psicologico.
I miei genitori appartenevano a famiglie povere che non conoscevano il lusso. Appartenevano, più che a una società, a un grande clan, dove si viveva con lo stesso vestito tutto l’anno (per non dire, tutta la vita), dove si sconosceva il bagno (e l’igiene) e se uno possedeva un cappotto, lo esibiva con orgoglio nelle giornate di freddo, così come oggi fanno le donne che possiedono la pelliccia.
Ma io, venendo da Scicli, non avevo cappotto. Avevo un maglione di lana di pecora che mi pungeva terribilmente, ma non mi riscaldava, anche perché si restringeva sempre più quando a fine stagione si lavava, nel mentre che le mie braccia allungavano. Ma, il mio era soprattutto un freddo psicologico: il non essere riscaldato da mia madre che conosceva di necessità solo il lavoro e non trovava tempo per me. O forse, mia madre aveva qualcosa di sua madre: la incapacità di dimostrarmi l’affetto che riscalda.
Di certo, però, mia madre mi voleva bene, ma non me lo esternava, non me lo faceva capire. Spesso, scherzando mi chiamava:“Scimmiuni”, scimmione, scimpanzè. E questo durò sino a quando le feci notare che il mio nome era Gino e non doveva chiamarmi con nessun altro nome. Ricordo. E fu meraviglia per me, che nei miei confronti non usò mai più quell’appellativo, che però rimase dentro di me come scolpito, al punto che da grande, quando mi recavo a visitare un giardino zoologico, rimanevo tante volte davanti a una gabbia di scimpanzé e di orang-utang senza capire perché, ma soprattutto avendo pietà per la loro condizione di prigionieri, vilipesi e mortificati nella loro dignità. E ricordo ancora che un orang-utang stanco di sentirsi guardato da me, mi scagliò uno sputo mirato alla perfezione al centro della mia faccia.
Alla prima media, ora avevo undici anni, andavo male in tutte le materie. Studiavo, a memoria, come mi era stato insegnato, ma nella mente non rimaneva nulla, e perciò non riuscivo ad avere nessuna sufficienza. Ricordo che tutte le mattine mi recavo a scuola incrociando le dita e pregando un santo diverso al giorno promettendogli chissà cosa se mi fosse venuto incontro per non farmi interrogare. Diventai anche superstizioso, e se il giorno prima non ero stato interrogato cercavo di uscire di casa con lo stesso piede e cercavo di fare lo stesso identico percorso del giorno prima, salutando allo stesso modo le persone. Ma quando, i professori pronunziavano a voce alta il nome “Carbonaro” per essere interrogato, io mi sentivo svenire. La scuola fu per me un terrore.
Al primo trimestre, di quella prima media, tutti i voti furono negativi. In seguito a questo risultato, trovai il coraggio di dire a mio padre che non volevo continuare ad andare a scuola. Mio padre, mi ascoltò, e poi, senza fare problemi, mi disse: “Non vuoi andare a scuola? Non ci fa niente. Se vuoi, puoi lavorare con me”. In un attimo mio padre era riuscito a liberarmi da un incubo. Capii che mi ero prostrato per qualcosa che non ne valeva la pena. Mio padre diede la risposta giusta senza saperlo. Ma lui, grande artigiano genialoide aveva imparato tutto da solo, senza aiuto di maestri e di scuole. Per cui non riusciva a capire il valore del latino o della grammatica.
Quel giorno e gli altri ancora continuai ad andare a scuola con una tensione e considerazione diversa. Mi sentii protetto da mio padre che indirettamente mi proteggeva dai lupi. Mi sentii più forte, più deciso. Dopo qualche giorno dissi a mia madre che avevo bisogno di lezioni private. Mia madre mi autorizzò a cercare io stesso un professore, perché lei non aveva tempo. Mi informai, ed ebbi la fortuna di incontrare un professore che aveva una scuola privata parallela a quella pubblica con una classe fatta di altri ragazzi bisognosi, e con l’affetto, la comprensione, la simpatia di questo professore privato riuscii ad essere promosso a giugno. Il mio professore di lettere di scuola Media, considerò un miracolo il mio miglioramento scolastico. Questo perché all’inizio dell’anno mi aveva già pre-classificato tra i futuri bocciati.
L’anno successivo, nacque mia sorella Flaminia. Era il 23 febbraio del 1951. La situazione psicologica migliorò un pochino, perché acquisii un certo senso di responsabilità nei confronti di una bambina che considerai sempre, più come figlia che come sorella, e mai riuscii ad adombrarmi quando mio padre cominciò a stravedere per questa sorella al punto da dire che la piccola era la sua preferita. In realtà, mio padre voleva bene da morire anche a me, ma per la femminuccia aveva un debole che non nascondeva. Io, però, volevo così tanto bene a mio padre che riuscii sempre a non adombrarmi per questo, e a sorriderci sopra e a perdonarlo per questa sua confessata debolezza che non toglieva nulla a me.
Però, la scuola era sempre pesante per me. Così avevo fatto tesoro di una considerazione: mi ero accorto, difatti, che di mattina imparavo meglio le cose da studiare, così presi l’abitudine di andare a letto alle otto di sera e di puntare la sveglia alle quattro del mattino, dedicando poi un’ora allo studio di ogni materia sempre restando a letto e se c’era freddo, riuscivo a stare coperto tenendo il libro di sbieco. C’è da dire che i miei genitori erano già alzati dalle tre di notte per scendere nella camera oscura, ma io non li sentivo e non vedevo nessuno sino alle otto, quando mia madre mi portava un uovo da mandare giù con un po’ di caffè. Allora mi alzavo, mi preparavo velocemente da solo, mi facevo sempre da solo una inzuppatina di latte che mandavo giù con difficoltà e partivo per la scuola che, fortunatamente, si trovava a meno di duecento metri da casa nostra. A scuola andavo un po’ più preparato, ma la stanchezza era tanta: di pomeriggio a scuola privata, di mattina quattro ore di studio a letto, sotto le coperte, poi a scuola pubblica, dove, verso mezzogiorno crollavo per la stanchezza. Diciamo che spesso venivo richiamato dai compagni quando poggiavo la testa sul banco.
Crescevo, ma mangiavo poco. Non avevo appetito. Diventai magrissimo e per anni mi sentii sempre debole. Era forma di anoressia che mi seguì per molti anni, o forse era l’inizio del diabete che mi ha accompagnato per tutta la vita, mentre sempre più visibilmente non riuscivo a gestire bene la memoria.
Alla scuola media si studiavano i poemi omerici, o, per meglio dire, si dovevano imparare a memoria pagine intere di epica: un giorno sessanta versi, un altro giorno una ottantina; il sabato, poi “siccome c’era la domenica nel mezzo” si raddoppiavano i versi da imparare a memoria. Il lunedì era per me un giorno orribile. Non riuscivo a imparare nulla. Maledissi la professoressa che non si rendeva conto che la domenica era un necessario giorno di possibile riposo.
Alla scuola media si studiavano i poemi omerici, o, per meglio dire, si dovevano imparare a memoria pagine intere di epica: un giorno sessanta versi, un altro giorno una ottantina; il sabato, poi “siccome c’era la domenica nel mezzo” si raddoppiavano i versi da imparare a memoria. Il lunedì era per me un giorno orribile. Non riuscivo a imparare nulla. Maledissi la professoressa che non si rendeva conto che la domenica era un necessario giorno di possibile riposo.
Fu proprio quell’anno che mi si presentò una occasione: quella di studiare la fisarmonica. In quel tempo frequentava lo studio di mio padre un certo Gino Livia, un bel giovane sposato da poco, che tutti conoscevano come "suonatore" di fisarmonicista. Un giorno, quando lui incrociò il mio sguardo, gli dissi: “Chi ma ìzigna a fisarmonica?Mi insegna a suonare la fisarmonica?” Mi guardò pensieroso, poi mi rispose: “Sì, compra questo libro, che era il "Bona". Ci vediamo il prossimo lunedì pomeriggio”.
Perché abbia chiesto a quell’uomo di insegnarmi a suonare la fisarmonica non saprei dire, però c’erano precedenti musicali nella nostra famiglia: mio nonno Salvatore Fidone suonava il trombone, e una sua foto di lui con il trombone e la divisa della banda musicale di Scicli troneggiava nell’album di famiglia. Suo fratello, lo zio Emanuele, suonava il trombone a tiro, il mio bisnonno paterno, Giuseppe Carbonaro, suonava il fischietto e mia nonna Bartola, il tamburello con il quale accompagnava il padre. Forse per questo mi sentivo portato a studiare uno strumento nel quale diventai lentamente sempre più preparato. Nel corso degli anni, poi, la fisarmonica diventò una parte di me, diciamo pure, senza essere romantico, una mia amica. Difatti, suonavo sempre alternando lo studio delle materie scolastiche con la fisarmonica, ed era un escamotage per riposarmi, cambiando attività. Ma, non era facile suonare di pomeriggio, perché mio padre, sentendo la fisarmonica riteneva che non avessi niente da fare, e mi chiamava (ma è più corretto dire che mi gridava) per aiutarlo. In verità, sin da piccolo avevo sempre aiutato mio padre nel lavoro. Il mio compito era quello di lavare bene le fotografie appena stampate, appenderle con garbo a un filo usando sei gancetti, e quando le foto erano asciutte era ancora mio compito metterle per categoria di persona, tagliarle e metterle nelle buste. L’altro lavoro era quello di smaltare le foto dei dilettanti utilizzando la smaltatrice. Anche qui bisognava lavare e sgrassare bene la piastra smaltata quindi poggiare rovesciate le foto, una accanto all’altra, infine posare la piastra sulla smaltatrice e aspettare che le foto si staccassero da sole. So perfettamente che non è possibile far capire come si svolgeva il procedimento se non lo si vede, ma volevo dire che il lavoro era di una certa importanza e io avevo da aiutare in famiglia specialmente la domenica, quando forse avrei dovuto riposarmi. Credo che mio padre poteva fare affidamento su di me, anche se, come ho detto, qualche volta mi sgridava.
Non avrò avuto più di dodici anni quando mio padre mi mise in mano una Rolleiflex, mi regolò la macchina fotografica, e mi mandò a fare le foto di un funerale. Le foto non furono perfettissime, ma lui mi spiegò gli errori e io evitai di farli la volta successiva.
A quattordici anni mio padre mi mandò a fare delle foto di reportage in un investimento che era accaduto sulla strada di Ragusa, in una curva nei pressi dell’attuale ponte Costanzo. Trovai lì i carabinieri e un morto coperto con un telone che fu tolto al cadavere perché io lo potessi fotografare. Dissi sempre che quel morto era stato scoperto tutto per me. E mi sentii scomodo quando inquadrando il viso, fui costretto a fissare lo strano sguardo di morto. Ma si trattava di esperienze di vita che mi hanno temprato.
Quello che non va dimenticato di dire è il fatto che mio padre aveva una paura terribile della morte, e dei morti. Non andò mai a un funerale, tranne a quello dei suoi genitori, e cercò sempre di non fotografare i morti degli investimenti con vittime. Ritengo che mandasse me proprio per questo.
In questi lavori, però, venivo coinvolto solo quando ero libero dalla scuola. Mio padre rispettò sempre questo mio impegno scolastico, anche se fu categorico nel tenermi occupato tutta l’estate, quando la scuola era chiusa e solo nel caso che non avessi materie da riparare in estate.
[1] C’era anche mio nonno, ma non stava mai in casa e non lo ricordo.
[2] A quei tempi, a casa mia, si mangiava solo pasta a mezzogiorno.
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