2013/02/21

Le svergognate di Lieta Harrison


Alla scoperta di un libro bellissimo

Prigionieri della cultura

                                              Le Svergognate


di Lieta Harrison

Verginità della donna, delitto d’onore.
Un libro-inchiesta sulle forme mentali dei Siciliani 
alla fine degli anni cinquanta.

Una storia dimenticata
__________________________________________
                                                                     
                                                        saggio di Gino Carbonaro


Jean Jacques Servant-Screiber, editore e direttore del settimanale francese Express, scriveva anni fa che un buon libro si lancia come una marca di cioccolato. Senza di ciò il suo destino è segnato. Il principio vale anche per “Le Svergognate” di Lieta Harrison, un libro-inchiesta pubblicato nel 1963, non pubblicizzato, e oggi dimenticato.

Eppure l'opera era stata presentato da Pier Paolo Pasolini e Tullio Tentori, con una appendice di Federico Fellini. E non è poco. La copertina, poi, portava il ritratto di Lieta Harrison firmato dalla pittrice romana Anna Salvatore.

Il libro riporta i dati di una inchiesta condotta in Sicilia da una ventunenne studentessa palermitana, che voleva capire qual era, all’epoca, la percezione che i Siciliani avevano di una ragazza che avesse avuto la sventura di restare incinta o che fosse stata abbandonata dal suo ragazzo.
L’inchiesta verificava il rapporto tra verginità della donna e senso dell’onore nella Sicilia del tempo. Il discorso, poi, si allargava al concetto di "uomo d’onore, parola d’onore, delitto d’onore", e indirettamente andava sfiorando il concetto di "sgarro" e di "corna". Si trattava di un insieme di valori fondamentali nella cultura siciliana di una volta, su cui la ricercatrice affondava senza anestetico il bisturi della sua indagine.

   Il libro, che allora acquistai, mi (dis)-turbò non poco. Quella inchiesta mi parve una gratuita denunzia contro i Siciliani, e l’opera un escamotage di cattivo gusto per denunziare all’opinione pubblica italiana e internazionale il vero modo di pensare (non proprio bello) dei Siciliani.


L’Italia negli anni Sessanta

Sino ai primi degli anni Sessanta,  l’Italia era ancora spaccata in due fra settentrione e meridione in una sorta di manicheismo sociale che poneva al Nord il bene, e a Sud il male. Due culture contrapposte, due diversi modi di pensare che ponevano nella parte alta e dominante i continentali-industriali (industriosi) con valenza positiva (+), e il concetto  veniva associato all’idea di civiltà e di progresso. Dall’altra si trovava la parte sotto-messa e dipendente: terroni-cafoni, culturalmente arretrati e ignoranti. E il concetto veniva associato all’idea di passività-immobilità-disorganizzazione- inciviltà-sporcizia. Cultura agli antipodi del mondo civile. Il tutto con ovvia valenza negativa. 

In buona sostanza, da una parte c’erano i nordici, dall’altra i sudici. Ed io stesso, all’epoca studente siciliano a Roma, sapevo di passare per terrone nella considerazione dei miei colleghi romani. Tanto leggevo nei loro occhi quando mi chiedevano:“E tu da dove vieni?” E saputo che ero siciliano prendevano le distanze da me per poi tornare alla carica: “Ma, è vero che in Sicilia se lasci la fidanzata, quella ti spara?” Queste domande ed altre riempivano parte delle nostre conversazioni. Ma le notizie degli omicidi per motivi di onore, quando si verificavano, facevano il giro del mondo ed erano cose di cui ogni Siciliano era a conoscenza e si vergognava non poco.

Le svergognate

Il libro-inchiesta “Le Svergognate” era uno specchio crudele che Lieta Harrison metteva davanti agli occhi dei Siciliani, quasi a voler dire: “Guardate. Questa è la vostra cultura! Questo il vostro modo di pensare! Questa è la vostra considerazione della donna! L’avete detto voi! Ho prove e testimonianze di 686 intervistati”.

Leggevo quella terribile denunzia che mi costringeva a tirar fuori la mia testa di struzzo dalla sabbia dove cercavo di nascondere la mia vergogna, e mi sentivo come se qualcuno stesse mettendo sale nelle mie ferite. Proprio non mi andava giù quella inchiesta, fra l’altro fatta da una donna dal cognome straniero, che Lieta-mente ci svergognava ai quattro venti, come un banditore con trombetta e tamburo:"Udite-udite" come vengono messe alla gogna le donne siciliane, le svergognate!”

Ma, gli svergognati eravamo noi, 
i Siciliani!   


Se Lieta Harrison, nata a Ragusa (1938) avesse avuto una sola goccia di sangue siciliano - pensavo fra me - avrebbe dovuto sapere che i panni si lavano in casa. Mi pentii di aver comprato quel libro, e dopo averlo letto in uno stato di amara e rabbiosa sofferenza, lo riposi chissà dove per dimenticarne l’esistenza.

Qualche tempo dopo
Dopo qualche anno, quel libro mi capitò fra le mani. Lo rilessi senza acredine e senza prevenzione. Questa volta l’opera mi sembrò diversa. Con il tempo, tante cose erano cambiate. Adesso ero nelle condizioni di rilevare che l’inchiesta fatta da Lieta Harrison nei primissimi anni Sessanta era un documento di portata storica eccezionale.

Quel libro indagava sulla condizione della donna siciliana molti anni prima che il movimento femminista prendesse coscienza del problema della donna. Di fatto, l’ inchiesta di Harrison aveva  messo il dito in una delle piaghe della nostra cultura. Un libro che anticipava i tempi, e che per importanza potrebbe essere paragonato alla inchiesta fatta alla fine dell’Ottocento da Franchetti e Sonnino, perlomeno per quel che riguarda la “cultura” del popolo siciliano.

Potenza del tempo! Ciò che mi aveva turbato tanti anni prima, diventava ai miei occhi di interesse assoluto. L’inchiesta della Harrison, a cavallo fra storia del costume, antropologia, sociologia e psicologia diceva tutto sulla condizione della donna siciliana, ma indirettamente fissava e archiviava le forme mentali dei Siciliani di una volta. Insomma, uno spaccato di cultura siciliana con tutte le prevenzioni, prevaricazioni, fisime, stereotipi e ragnatele di (pseudo-)valori (quello dell'onore) che creavano la gabbia mentale all’interno della quale ognuno di noi viveva imprigionato.

Il concetto di onore

   
Giunti alle soglie del terzo millennio, chi vuole sapere come eravamo proprio cinquant’anni fa, come  veniva considerata la donna siciliana e soprattutto come si comportava la donna in ossequio alle norme culturali, deve leggere questo libro, sfogliare le schede contenute nell’album di ricordi messo a punto da questa intraprendente ricercatrice, che all’epoca dei fatti aveva poco più di vent’anni, perché è qui, per merito di questo documento che possiamo oggi vedere quali impensabili accezioni assumeva il concetto di onore in questo triangolo perverso di Sicilia.

    Due persone parlavano, prendevano un accordo e si impegnavano?... sulla loro parola d’onore.
Due amanti avevano una relazione sessuale?  Il contatto, la complicità sessuale era un fatto che si trasformava in patto, che siglava un atto.

Tutto chiamava in causa l’onore.

Solo la morte poteva sciogliere il patto. Non importava che la parola data sancisse un accordo amoroso, commerciale, legale o illegale. Tutto era compiuto all’insegna dell’assoluto, dell’eterno, dell’immodificabile, secondo una logica-etica super-umana.

Era impensabile che il patto non venisse onorato. Se quanto era nelle aspettative e negli accordi fosse stato disatteso da una delle parti, le conseguenze sarebbero state tragiche. E ciò, nella Sicilia del tempo, era risaputo da tutti.

Ma anche la verginità della donna prima del matrimonio era parte di un patto familiare e sociale non scritto. La figlia-femmina imparava da piccola il suo ruolo. Subordinazione al maschio, remissività e soprattutto il concetto che il suo onore era legato alla verginità, di cui si faceva garante tutta la famiglia, che era onorata  nella misura in cui riusciva a difenderla e a garantirla sino al giorno del matrimonio. Il capo-famiglia l’avrebbe condotta all’altare consegnandola immacolata, così come natura l’aveva fatta, al futuro marito della figlia.

La perdita della verginità fuori dallo schema della ritualità sociale, secondo il modello antico-ed-accettato, era causa di disonore per tutta la famiglia.

La ragazza siciliana sa di aver sottoscritto sin dalla nascita un patto-silenzioso con il padre,  con la famiglia e con la gente a cui tutti devono dar conto, sa di essere parte di questa cultura, soggetto inscritto in un sistema metasociale, la giovane donna era perfettamente edotta che un nuovo eventuale patto siglato con un uomo che le chiedeva la “prova d’amore” entrava in collisione con le norme sancite dalla società e dalla famiglia. Ma, sa altresì che un rapporto sessuale prematrimoniale non è socialmente e moralmente grave se verrà coronato dal matrimonio.

La tragedia (bisogna chiamarla per nome) scattava solo se la donna perdeva la verginità, ancor più se diventava ragazza-madre, e l’amante promesso-sposo non onorava il patto-atto (implicito e presupposto) di sposarla. In questa malaugurata evenienza la ragazza diventava “sbirugnata” (svergognata), cioè persa, perduta, per se stessa e per il mondo, mentre il padre che non era riuscito a custodire il “prezioso bene” della figlia, fallito nel suo ruolo di pater familias, diventava disonorato.

Il ruolo della Gente

Al di sopra di tutti, l'occhio vigile della Gente - che nella cultura siciliana era a metà fra il coro della tragedia greca e il tribunale di inquisizione -  che si ergeva a giudice spietato e condannava i disonorati, i trasgressori delle norme (anche se il codice penale aveva un occhio di riguardo per per l'omicidio d'onore). Prima fra tutti la ragazza privata della verginità che nessun uomo avrebbe più sposato (prima sanzione), subito dopo il padre fallito nel suo ruolo, in quanto aveva dimostrato di non avere autorità, di non essere stato ascoltato (dalla figlia); infine la famiglia della ragazza che infettava il corpo sociale con il suo esempio.

La sanzione sociale era immediata, il disprezzo della gente assoluto, l’emarginazione della famiglia era il risultato di un anatema, oggetto di condanna e di maledizione.



Il recupero dell’onore

E tuttavia, in questa cultura arcaica giunta sino a noi dalla notte dei tempi, il recupero dell’onore era possibile. Bastava eliminare la causa prima, l’ultimo anello della catena, lo stupratore, l’infame, anche lui senza più onore. Come dire, muore l’animale, scompare il male. Dopo l’affronto, per il d-disanuratu non c’era più spazio in questa terra dell’onore, egli è un cadavere vivente, che aspetta di essere vurricatu, seppellito: “Iu manciu  pani, ma iddu a manćiari terra!” Questo è il pensiero e queste sono le parole della giovane donna che in Sicilia sarà costretta a uccidere l’amante per ragioni d’onore.

Difatti, l’affronto gravissimo, che in dialetto si diceva şgarru, poteva essere lavato solo col sangue, sciolto con la morte di chi aveva avuto la superbia - si diceva così - di violare le regole e di non mantenere la parola d’onore.

In questa “etica” siciliana era parimenti d-disanuratu anche colui o colei che avevano ricevuto lo sgarro e per timore non avevano provveduto a far rispettare il patto lavandolo nel sangue. In questo caso, il reo-vigliacco avrebbe subìto una terribile sanzione sociale: il disprezzo della collettività  e con esso la emarginazione dal gruppo

(Chiddu? e-ni omu di m-merda!).


Faida. La legge per riscattare l’onore perduto


La legge dell’onore era un aspetto della faida, di una arcaica legge naturale giunta sino ai giorni nostri dalla notte dei tempi, ancora valida sino a sessant'anni fa. La faida sanciva il ricorso alla vendetta personale per lavare l’onta subita. Il principio della faida è etologico. La specie umana, come quella animale, seleziona i migliori, i più forti. Ed elimina inesorabilmente i deboli, i vigliacchi. Chi subisce un affronto, chi ha subìto ’na tagghiatina ’i  facci senza reagire è verme, ed è immeritevole di appartenere a un gruppo di persone onorate che sanno difendersi e che nessuno può riprendere. Se l'uomo non ha la forza di far valere il suo diritto è un perdente, un vinto che non merita di appartenere alla onorata famiglia degli umani, cioè dei Siciliani.

L’etica dei Siciliani
   
    Da questa cultura dell’onore e del rispetto – tanto si evince dall’inchiesta della Harrison - discendeva l’etica familiare. Nella Sicilia di una volta il marito era il capo indiscusso della famiglia. Aveva potere sulla moglie che era obbligata ad e-seguire le sue (di lui) volontà. Impensabile era la trasgressione.

Ogni maschio si diceva uomo di rispetto se faceva rispettare le regole e si faceva rispettare da tutti, cioè se era ’ntisu (sentito, rispettato),  se la sua parola pacata aveva la connotazione di un ordine e i suoi “consigli” venivano eseguiti.

Dall’uomo d’onore discendeva la famiglia onorata che perciò veniva rispettata. L’ethos della famiglia era fondato su tre valori:

1.    Sul lavoro del capofamiglia e sul suo carisma
(capace di farsi ubbidire)

2.    Sulla fedeltà della moglie e sulla sua remissività.

3.    Sulla verginità delle figlie-femmine.

Sui tre principi sopra elencati si fonda la inchiesta di Lieta Harrison, che però appunta la sua attenzione sui comportamenti che la società siciliana adottava nei confronti delle “Svergognate”. La donna sedotta (e abbandonata) – si è detto - diventata per un sincronico rapporto di causa ed effetto una svergognata, e la qualifica era una sorta di condanna ad una morte bianca (vedi la novella Nedda di Giovanni Verga) decretata tacitamente dalla società (che si ritiene pura e incolpevole) nei confronti di colei che era stata segnata dalla malasorte.


Il recupero dell’onore


Per recuperare l’onore della giovane donna e della famiglia - qui è il punto centrale della inchiesta della Harrison - c’era la strada sacrificale. Un coltello da macellaio o un colpo di lupara sparato a bruciapelo, che colpendo il responsabile finale della catena del disonore, avrebbe invertito il corso delle cose. L’esecuzione di morte per essere piena e totale doveva essere fatta per mano della vittima, e solo in subordine dal padre o da un parente di primo grado della ragazza; e il sacrificio doveva avvenire davanti a tutti, sulla pubblica piazza e nel giorno Santo della Domenica.


La Sicilia non è più la stessa


A distanza di tempo, viene naturale chiedersi come è potuto cambiare il corso della storia in così poco tempo, ma, viene altresì da porsi qualche domanda. Se una cultura può essere schizofrenica come sembra essere stata la cultura siciliana del passato. Se nelle culture è possibile rilevare le angosce e le nevrosi di un popolo. E ancora, se quanto è riportato in questa tragica inchiesta di Lieta Harrison (intendi la cultura arcaica e tribale giunta a noi dalla notte dei tempi) continua ad essere tuttora operante in ognuno di noi. Nella realtà, la sessualità non è più un tabù per la donna e la società.

La donna si è emancipata. Ma gli uomini?  E la società?

Per il resto, e per continuare le riflessioni, si rimanda a Le Svergognate, la bellissima inchiesta di Lieta Harrison.    
    
Gino Carbonaro


e-mail: gino.carbonaro.italy@gmail.com

1 commento:

  1. Scopro con commozione questo articolo su un libro che ha marcato la mia adolescenza e che sapevo dimenticato. Grazie di averlo ricordato. "Lo svergognato sei tu" mi disse il mio professore di ginnasio quando lo vide tra i miei libri di scuola

    RispondiElimina

Puoi cambiare questo messaggio sotto Impostazioni > Commenti