2011/07/27

Franco Ciccio Belgiorno



Ricordi di infanzia  

                                                                di Gino Carbonaro



                         

                                                           Ciccio Belgiorno a 17 anni
la foto è stata scattata da 
Gino Carbonaro nel 1956


 



















Ho conosciuto Franco Antonio Belgiorno (Ciccio per gli amici) nel 1949. Avevamo entrambi dieci anni, o poco meno. Chi me lo ha indicato fu un compagno di giochi il quale, in un siciliano aulico mi disse: "U sai, dda ssupra ci abbìta 'n-picciuottu che rici ca ha b-bistu i marziani, e ddici ca ha n-cavaddu biancu, e ddi notti vola e ssi nni va supra a criesia ri san-Giorgiu. Ma, a-ssiri pazzu! E-ni marmanicu”. Per qualche tempo pensai a "questo" ragazzo che non avevo mai visto, il quale raccontava cose strane, di avere visto i marziani e di volare su un cavallo bianco. Qualche giorno dopo incontrai di nuovo colui che mi aveva parlato di Ciccio (perché di Ciccio Belgiorno, parlava) e gli chiesi di indicarmelo quando l'avesse visto. Io ero con le spalle girate al Teatro Garibaldi e, il ragazzo mi fa :"Gìriti, u viri unn’è!” Vedi dov'è. Io mi giro e vedo questo spilungone, magrissimo, allampanato, con i pantaloni corti fino al ginocchio. Gli vado incontro per parlagli. Diventammo amici. Mi disse che abitava con la nonna Giorgia e la zia Alba sulla collina. MI disse ancora che sua padre era "direttore" dell'aeroporto di Comiso, ma era anche giornalista e scrittore, e l'anno successivo lui sarebbe venuto a Modica per frequentare la Scuola Media. Sì, diventammo amici. E lui prese l'abitudine di venire a casa mia la mattina. E andavamo insieme a scuola. E un giorno mi disse che da grande voleva fare il giornalista e lo scrittore.  

Un segno, che sa di precognizione 

Ciccio Belgiorno andava a scuola solo perché tutti andavano a scuola o perché qualcuno glielo aveva mandato. Ma, tranne il francese e il disegno e l’italiano, non lo interessava quasi nulla della scuola. I suoi interessi erano altri: leggere libri, scrivere e parlare, raccontare fatti, essere al centro dell'attenzione. Lentamente, cominciò a portarmi i suoi primi 
racconti(-ni). Tutti i pomeriggi ne scriveva uno e arrivava correndo sulla scala di casa mia per farmelo leggere. Fu allora che dalla lettura di uno di questi racconti immaginai che Ciccio, forse, un giorno avrebbe potuto diventare uno scrittore. Chissà! E lui, Ciccio, all’epoca non aveva ancora undici anni. 

In un racconto di una paginetta che mi consegnò strappata malamente dal quaderno (ricordo come fosse adesso) scriveva: "La giornata di quella estate era afosa. Gli uomini erano sporchi e sudati. L'acqua non riusciva a dissetarli. Il caldo li aveva buttati fuori dalle case, ma... in una fetta d'ombra una colonna di formiche era occupata a trasportare... ecc". 

Mi colpì il “caldo” che “buttava” fuori la gente dalle case. Un caldo “personificato” e soprattutto quella "fetta d'ombra nella quale procedeva l’esercito mirmidone". In verità, fu sorpresa per me l’essermi accorto che l'ombra si potesse affettare. Ma, era vero! L'ombra esiste con una sua forma. E per Ciccio, che aveva finito di mangiare una fetta di anguria, l'ombra si poteva affettare. Fissai quel concetto per non dimenticarlo, anche per capire se veramente Ciccio sarebbe diventato uno scrittore.    
Da quel momento fissai bene il concetto: Ciccio aveva una vera grande passione, quella di scrivere, de-scrivere, raccontare, ri-creare atmosfere, sensazioni, e fare teatro.     
Godere della scrittura per lui era tutto. 
   
L'anno successivo, altra sorpresa. Ciccio aveva scoperto un libro (il suo primo libro di letture) che sarà fondamentale per la sua formazione artistica. Il libro era il "Cyrano de Bérgerac" di Rostand, famosa opera teatrale portata in scena nel 1897, e oggi considerata un capolavoro della letteratura francese.     

La storia narra di Cyrano, estroso poeta estemporaneo dal naso lunghissimo, uomo di teatro e abile spadaccino, dalla lingua anch’essa affilata che usava come una spada. Poeta squattrinato che amava i giochi di parole con le quali metteva in ridicolo i suoi nemici e declamava poesie per incantare la donna amata. Insomma un personaggio, si direbbe oggi.   

Innamoratosi del testo, Ciccio imparò a memoria passi dell’opera di Rostand, soprattutto le poesie, e lentamente in una sorta di transfer assunse il ruolo di Cyrano anche nel suo comportamento. Diventò più sicuro, cercando di sfidare gli uditori con battute di effetto, per essere al centro dell’attenzione. 

Pian piano, il Corso Umberto diventa per lui, novello Don Chisciotte, il palcoscenico di un teatro del quale lui era lo scrittore, il protagonista, l’eroe, il cantastorie, il tutto.   
    
Dopo un anno la scoperta de "Il barone di Munchhausen", altro romanzo fantastico, altro personaggio contafavole, che raccontava di essere andato sulla luna, e diceva delle sue pustolette che non erano vulcani. Il Barone di Munchhausen era quello che aveva girato il mondo a cavallo di una palla di cannone lanciata, e alla fine caduto nelle sabbie mobili, si era salvato tirandosi su per i capelli. 

Siamo davanti a un “cavalier Poidomani” ante litteram. Colui che avrebbe potuto distruggere Modica con la sua “bomba atomica alla ricotta salata”. (Vedi → I guardiani delle nuvole”) Ciccio resta incantato da questi affabulatori, da questi cantastorie alla Ciccio Busacca che lascia gli ascoltatori a bocca aperta.  
   Questo secondo transfer era facile per lui che a nove anni raccontava di aver cavalcato l’Ippogrifo alato, ma è chiaro che finzione, invenzione, scrittura, teatro, immaginazione, sogno, fuga dalla realtà, per lui erano un tutt’uno. 

Nel secondo romanzo letto, e scoperto non si sa come da lui, aveva nutrito se stesso di quello di cui aveva bisogno per vivere. Immaginare mondi altri, diversi. Superare il mondo della realtà per andare altrove, non importa dove, pur di vivere il non consueto, l'incredibile di un mondo sconosciuto, per poi rientrare nella realtà e scoprire, sempre da solo, lo scrittore americano William Saroyan di cui apprezzava la semplicità della scrittura, che fondeva realtà, sentimento e sogno. 


    Anche qui un innamoramento e una passione. Poi fu il momento di John Steinbeck. "Uomimi e topi", lo lesse in qualche pomeriggio. 

Subito dopo scopre i “Quarantanove racconti” di Ernest Hemingway. Hemingway, già premio Nobel (1954) fu per lui il modello di scrittore-giornalista che sognava di diventare. 



                                      


Gino Carbonaro e Ciccio Belgiorno 


1956


Intanto avevamo sedici anni. Io riuscii ad andare da solo a Parigi e da lì tornai con un libro di poesie di Jacques Prévert. Glielo prestai (me lo ha restituito dopo una quarantina d'anni). 

Ciccio aveva una grandissima predisposizione per le lingue e non trovò difficoltà nel divorarlo, farlo suo, portarselo a letto, imparare versi a memoria, fantasticare, mentre scoprivamo che "Les feuilles mortes" la classica composizione di Kosma, aveva un testo (poesia) di Jacques Prévert. Così, io suonavo la fisarmonica e lui cantava. Cominciò da qui il suo primo esperimento di canto, mentre cominciava a comporre poesie che mi portava perché glieli mettessi in musica. In realtà giocavamo. Non sapevamo di scherzare col fuoco che può scottare l'animo, la mente, e fare cultura. Poi Ciccio si dedicò al teatro con Marcello Perracchio, mentre io andavo all'Università ma, restammo in contatto, tant'è che quando incontrai Claire, mia moglie a Roma, lui, Ciccio, venne a stare con me per una settimana, e fu il primo a conoscere Claire. Intanto suo padre, Franco Libero Belgiorno, aveva messo su "Il mattino di Modica" e Ciccio comincia il rodaggio scrittorio proprio nel giornale di famiglia. 

    Nel 1969 conosce Brigitte, tedesca di Wiesbaden. Lo stesso  anno la raggiunge in Germania per sposarla. In Germania vivrà un trentennio, sempre curando la scrittura e tenendo contatti con "La Voce di Modica", prima,  e poi con "Il giornale di Scicli", e il “Corriere d’Italia” continuando a leggere autori che lo avevano colpito. Fra questi "Il sorriso dell'ignoto marinaio" di Vincenzo Consolo, "Cento anni di solitudine" di Garçia Marquez, Kafka, Italo Calvino, Pablo Neruda, Garçia Lorca, quindi James Joyes dei Dubliners che gli ricordavano Modica, per fermarsi infine al suo amato Fernando Antonio Pessoa, portoghese (1888/1935). Con Pessoa il rapporto è diverso. Pessoa è, di tutti gli scrittori, quello che lui sente più vicino. Non è un caso che entrambi si chiamano “Antonio” come secondo nome, che entrambi hanno trascorso metà della loro vita all’estero (Pessoa in Sud-Africa, Belgiorno in Germania), e non ultima affinità, sono nati entrambi il 13 di giugno. Ma certamente, le affinità elettive sono dovute al modo di trattare il racconto. In Pessoa il racconto scivola nel solipsismo, mentre Belgiorno consegna i fatti alla memoria. 

    In tutte queste letture, non senti la presenza di Raffaele Poidomani, che lesse dopo il 1975, quando io gli feci dono di una copia di Carrube e Cavalieri. Lesse in ritardo Poidomani, anche lui scrittore-giornalista, che fra l'altro era amico di suo padre. Però, quella lettura gli fissò qualcosa nel suo interno, se è vero che molti dei suoi racconti giovanili terranno presente il modello dello scrittore modicano. 

   Quello che qui si vuole rilevare, è che i referenti culturali di Franco Antonio Belgiorno, appartengono a un areale europeo e mondiale (non necessariamente tedesco o mittel-europeo), e nemmeno locale. 

    Sradicato dalla sua amata Modica e dal suo Corso Umberto dove era conosciuto da tutti come personaggio originale ed estroso, Ciccio soffrì molto il suo vivere in mezzo a un popolo che considerò diverso da quello italiano, con usi, abitudini, costumi, cultura diversa dalla nostra, e che di necessità mortificava la sua personalità, rendendolo insofferente. Non accettò mai la mancanza di sole, soffriva per quel cielo quasi sempre color piombo.  

    Ciccio è era nato nell'anno della lepre (pesci, segno doppio) e nel mese di giugno (gemelli, segno doppio) con un ascendente (bilancia, sempre di segno doppio). Fu sempre con due anime nei confronti di molti e di molte cose. 

Rapporto ambivalente ebbe con Modica e con i modicani, con la Germania e i tedeschi, malgrado amasse teneramente la sua Brigitte. E rapporti ambivalenti ebbe anche con gli amici. 
     Nel risvolto di copertina del libro “L’arca sicula”, Edizioni “Il Giornale di Scicli”, trovi scritto “Franco Antonio Belgiorno è nato a Siracusa nel 1939. Ha vissuto la sua gioninezza a Modica, città si suo padre”. Questo scriveva, ma a Modica, “città di suo padre, quindi “non sua”, ha dato tutto se stesso diventando il custode della memoria, un sacerdote di quanto di sacro possiede questa città che in realtà lui amava senza misura.    

Ma, fu proprio la lontananza dalla sua terra a determinare in lui quella carica di profonda nostalgia, che ovattò tutti i suoi racconti, trasformando la realtà vera in realtà sognata, trasportata in una atmosfera che è quasi sempre un iperuraneo surreale. 

A me viene da dire che la sua prosa è gouache, pensiero, poesia, musica, storia, danza. Tutto.
  
   In comune con Raffaele Poidomani? "La epicizzazione della Provincia" (Peppe Pitrolo). Le differenze? Sono i referenti letterari. Poidomani parte da "Le anime morte" di Gogol, e usa sarcasmo e  satira. Belgiorno, è nostalgico, i suoi referenti culturali sono molti, e hanno un respiro più largo, si è detto. 


                                                 Gino Carbonaro

                      

2011/06/30

Il dottor Fregalamorte e l'élisir di lunga vita


Successo della ragione e antinomia vita-morte

     È dilemma tragico quello che si trova a vivere l’uomo del xx sec. Percepisce ragione e scienza come strumenti di potere, e si illude perciò di essere riuscito ad avere il dominio della natura, e forse anche dell’universo, in un futuro non lontano.
     Comprende, l’uomo, di essere una macchina ricca di potenzialità non ancora conosciute; mentre, allo stesso tempo, l’uomo prende atto che esiste un limite invalicabile, rappresentato dalla estrema precarietà del suo “hardware”, dalla struttura biochimica che lo costituisce, materia vivente che dovrà inevitabilmente dissolversi nel nulla.
    Il paradosso umano sta proprio nel vivere la vertigine di potere derivata dalla constatazione “obiettiva” dovuta alle scoperte forti della scienza, e parallelamente dall’essere costretto a percepirsi fuscello in balia del Destino o della Natura, che hanno deciso per lui tante cose, soprattutto quella del suo esser nato e del suo dover morire.
     L’esistente-uomo vive in sé la coscienza di questa contraddizione: coscienza di dover fare un salto nel nulla, un passaggio dall’essere al non-essere, dalla consapevolezza di esistere, all’idea che dovrà comunque e in ogni caso dissolversi nel nulla.
     Ed è proprio questa doppia informazione inviata al cervello (positivo = vivere + negativo = dover-morire) questo rapporto infame, inaccettabile, incomprensibile  (ingiusto?) fra chi (ma, Chi?) ha deciso per lui il prima e il dopo delle cose, i rapporti e le leggi della natura, e noi, esseri viventi e devianti che ci portiamo appresso la centralina della rassicurante presunzione di possedere una forza, un potere (potere di che?) nella logica consonante della ragione.
     Diversità di potenziale fra due sfere opposte e contrastanti (mondo fisico/razionale e mondo che sfugge al controllo della ragione) che fa andare in tilt il cervello, che non può, non riesce a contenere il sovraccarico della lacerante contraddizione (dell’essere e del non-dover-essere) che a livello logico si annullano e si azzerano.
     Una trappola mortale (mai l’aggettivo è stato più appropriato!) che però finisce di essere tale se si assume per buona l’ipotesi elevata a postulato dalle religioni, che la vita continuerà anche dopo la morte.
    Pia illusione che scioglie la contraddizione implicita nell’antinomia vita-morte, facendola rientrare nell’alveo di una logica coerente (?) e rassicurante che non conosce soluzione di continuità, e compone il tutto in un riposato equilibrio di proposizioni razionalizzabili, e pertanto capace e di porre fine agli interrogativi, capace di richiamare all’ordine tutte le osservazioni dissonanti, che sono da rimuovere, da esorcizzare, per alimentare l’illusione, perché si addormenti e plachi l’angoscia della morte che congela il pensiero razionale.
     Malgrado ciò, l’uomo non cessa di coltivare la speranza, non dispera ancora di scoprire, novello dottor Fregalamorte, l’élisir di lunga vita, quello che dona l’immortalità, o l’eterna giovinezza a chi ne beve un sorso; o la pietra filosofale, che elargisce ricchezze e benessere a chi la possiede. La posta in gioco è alta: garantirsi l’eternità in questa vita, non in un’altra!

                                                                              Gino Carbonaro

2011/06/28

Franco A. Belgiorno, I guardiani di nuvole

Fra microstoria e poesia.


       Sosteneva uno scrittore del passato che il primo giudizio critico è quello del tipografo, perché è lì fra linotype e tavolo di composizione, che viene fatta in silenzio la prima diagnosi di un autore e di un’opera. È il tipografo – continuava lo scrit­tore – che valuta “a naso” l’opera e ne misu­ra la validità, con un giudizio professionale e disinteressato.
     Ho ripensato a questo autore, quando ho saputo che Roberto Cannata, Calogero Lo Bello e Pietro Ottimo, titolari de “La Grafi­ca”, la nota tipografia modicana, qualche anno fa hanno voluto fare un omaggio all’amico scrittore Franco Antonio Belgior­no, pubblicando in edizione fuori commer­
cio I guardiani di nuvole, un libretto di una quarantina di pagine, contenente tren­tadue ricordi di personaggi modicani, ora scomparsi, che appartengono alla giovinez­za dello scrittore, e sarebbero stati dimenti­cati, se Belgiorno non li avesse fissati nel ricordo di pagine di splendida poesia.
     Sotto il profilo letterario, "I guardiani di nuvo­le! sono schede commemorative, che lo scrittore dedica alla memoria di personaggi umili, per l’importanza che gli stessi rivesto­no nella memoria dell’autore e per l’immaginario collettivo dei modicani, ai quali questi personaggi appartengono.
   Idealmente, "I guardiani di nuvole! richia­mano alla memoria le epigrafi della Antolo­gia Palatina, la storica silloge di epigrammi greco-­alessandrini, che fissano in estrema sintesi e bellezza il ricordo di persone segnate dalla sorte e dalla morte; e fanno pensare ancora alla Antologia di Spoon River (che alla Antologia Palatina si ispira, oltre che per il contenuto dell’opera, anche per il titolo).
     "I guardiani di nuvole", come i personaggi di Edgar Lee Master, sono vissuti ai confini della società, in una sorta di limbo sociale, senza far male a nessuno, semmai riceven­done, e cercando di essere accettati dagli altri.
   "I guardiani di nuvole" sono i paria della società, gli emarginati, come Neli Scaccia e Vanni u piecuru, gli alienati come U Cavaleri Poidomani, figure semplici e sorridenti, come «Angiledda, profumata e bella come i fiori di capperi, che andava raccogliendo lungo le lenze di Cartellone»; creature che sembrano appartenere a un mondo altro, dimenticate da Dio e dagli uomini.
      Sono questi i personaggi ai quali Belgiorno rivolge la sua attenzione, quelli che invita al suo cenacolo letterario, per gustare ancora il sapore delle cose autentiche, perché solo dove c’è povertà c’è semplicità e non trovi la alienazione che provoca la ricchezza e il benessere.
     Così, rivedi Vannìnu re sponzi scendere nei pome­riggi estivi con una cesta piena di mazzetti di gelso­mino, che avrebbe vendu­to ai signori seduti al Cir­colo Unione o al Caffè Orientale: questo è il lavo­ro che si era inventato Vanninu per racimolare qual­che lira, per sentirsi parte dell’insieme, e dare un valore alla sua giornata, un significato alla sua vita. «Ora – scrive Belgiorno – è anche lui uno stelo di fiore, una memoria del tempo perduto, un vascel­lo che scivola nel mare del nulla, e si lascia dietro la scia ineguagliabile del suo carico profumato».
     Immagini che si dissolvono, parole che suo­nano musica consegnata al vento, che si fa carico di trasportarla sulle nuvole, dove Van­ninu raccoglie ancora gelsomini per profu­mare gli altari del Paradiso «col suo odoroso groviglio di bianco».
     Ne "I Guardiani di nuvole", vengono rievo­cate queste presenze-­assenze, figure alle quali Belgiorno restituisce una dignità che percepisci superumana; personaggi unti dal Signore, ma segnati dalla sorte, che come fiori di campo hanno lasciato una debole, ma dolce e intensa traccia del loro passaggio su questa terra.
     Così, Luiggìnu l’uoviru (il cieco) che batte il tamburo facendosi guidare per mano da un bambi­no, fa il banditore per guadagnarsi la vita: «Ora imbonisce in Paradiso e dà la sveglia alle nuvole, chiama a raccolta i paesi aerei, quando è ora di ornarli con le trine degli arco­baleni, e in quei borghi assolati, in quei vil­laggi dove i ciechi sono tutti vedenti, non ha bisogno di chi lo conduca per mano. Sta bat­tendo che tutto va bene, ta­pum, che la città è felice, ta­pum; che la gente ha finalmente scoperto la giustizia e l’amore, ta­pum. Sta sognando nella sua pacifica morte». Ed è poesia eletta, e della più fine, quella che abbiamo appena riportato.
     E Pietru c’ô frischiettu, che per poche lire, suonava ad orecchio, con meraviglia di tutti, qualsiasi motivo, «fosse il Concerto n° 3 per violino di Mozart o la Quinta di Beethoven, non avrebbe sbagliato una nota».
     E il signor Di Rosa, che «per un modesto obolo offriva schedine della Sisal» che pre­parava di notte «in una foresta di uno, ics, due... perduto nell’ossessione di far ricchi i suoi simili». Lo vedevi apparire da lontano, alto, allampanato, «gongolante e pacifico», sventolando le schedine, passando da un marciapiede all’altro alla ricerca di clienti, e quando ti arrivava vicino gli sentivi sussurra­re sottovoce: «Milioni, milioni!». Poi, d’un trat­to non si vide più: si disse che era morto. 
     Di questi personaggi, l’autore non dimentica nessuno, e ricorda Matteu, che tutte le mattine raccoglieva i «sacchetti con i fondi del caffè per le brodaglie che davano all’ospizio». Figure di un mondo dove tutti avevano un ruolo preciso e cercavano di inventarsi un mestiere per vivere.
     Ora, sono tutti dissolti nella nebbia, dileguati come ombre, «perché anche di ombre è fatta la vita, e di titoli e blasoni non è mai risorto un ricordo che si accompagnasse alla purezza e alla innocenza della povertà». Figure immense, simboli, che diventano eterni, ora che l’autore li ha trasportati nell’iperuranio della sua fantasia, nell’Eden dei ricordi. Ed è mestizia dell’anima, ed è dolore, quello che trasmette questa poesia, dal tono flebile, che canta sottovoce le cose che vanno
via, «perché la vita macina la memoria e la porta al macero della gloria».
     Sembra un bouquet, questo libretto, o anche un concerto di musiche giocate sui toni minori del blues, che cantano elegiaca­mente la vita.
     E c’è ancora Zuddu, che se n’è andato per sempre dai Ponti di Pulera, «... e ora sta sedu­to in un cupo silenzio sulla soglia del suo tugurio, nel fresco della sera che profuma di garofani e menta, in mezzo al volo basso di miriadi di rondini, dimenticato da Dio, come un pacchetto d’uomo che nessuno viene a ritirare». E siamo al tema centrale della medi­tazione poetica di Belgiorno: al senso della “dipartita” e della “assenza”, della esisten­ziale separazione della parte dal tutto, della spartenza e della solitudine, da lui sentita come massimo dei mali, forma di lacerazio­ne dell’io, che lo scrittore vive come evento fatale e tragico della vita; e sono temi cen­trali della tradizione poetica siciliana.
     Solitudine, spartenza, dimenticanza sono il leitmotiv che accompagna la produzione poetica di Belgiorno; temi che, a volte, si rifu­giano nello sfondo e sembrano attenuarsi, ma che ricompaiono all’improvviso per mate­rializzarsi nel grido della “di­speranza”, o della speranza perduta, che nutre l’angoscia dell’esistere; elementi che assu­mono una valenza tragica. Ed è la prova che tutti sono andati via, tutti sono scomparsi e ci hanno lasciati, qui nel deserto della solitu­dine! Così, Angiledda, che «si perse dentro a un tramonto e portò via la nostra infanzia»; Donna Cuncittina, che «si spense nel sonno, e forse sognò i gradini del cielo mentre li sali­va uno per uno»; ed è andata via anche Rosetta Di Rosa, la dolcissima, che scomparve in un giorno, con la famiglia, cacciata via dalla miseria.
     Spartenza, solitudine, dimenticanza sono temi classici, ontologici dell’esistenzialismo poetico di Franco Antonio Belgiorno, che si prefigge ora un’impresa impossibile, quella di trattenere al di qua del «limitare di Dite» e della dimenticanza, che è forma di morte, quei personaggi che hanno nutrito la sua giovinezza, «perché la vita non può arrendersi alla falce della morte». Ed è questo che fa la misura e la grandezza della poesia di Bel­giorno.
     E siamo al “Tempo”, altra categoria dell’esistere, che è il vero protagonista dell’opera di Belgiorno. Il Tempo che è signore e padrone delle cose, il Saturno Kronos, che divora le sue creature; il Tempo che dà e ruba gli affetti, le albe, i tramonti, le bellezze, la vita, «il tempo che ci fa orfani di affetti, ... il tempo che incendia il passato ... anche le briciole di vita, che si racimolano alla luce del sole di casa»: il tempo che bloc­ca ogni cosa, ed è per questo, che ... «l’angolo del vicolo dove scompare don Tanuzzu è ancora senza lampadina».
     Tempo crudele, che paradossalmente ama le sue creature e «incorona i fichidindia di giallo e di rosso, e tinge gli ulivi d’argento, come se la polvere... del tempo... fosse caduta sulle loro foglie».
     Ma sulla solitudine degli esistenti e come forma di reazione all’oblio, si erge il canto del poeta, mentre la voce della poesia si fa memoria: custode dei ricordi e del tempo perduto. È così che l’amarezza del pessimi­smo si stempera e si addolcisce nel farsi poesia, e il poeta, che è lirico, si fa poeta epi­co, in quanto interprete dei sentimenti di tut­ti. Ultimo degli aedi di greca memoria, Fran­co Antonio Belgiorno, dall’alto della sua splendida casa di Cartellone, canta sulla cetra dei ricordi, l’immagine di Modica, ora pietrificata nell’afa estiva, ora addormentata avendo preso per cuscino una collina, ora «come ombra che salda i frammenti della sua sostanza sulle pietre e sul cielo», e materna ne custodisce anch’essa le memo­rie della vita. Ed è poeta vero, Belgiorno, che usa le parole come fossero note, con le quali evoca musica, echi, suggestioni, e quindi consonanze di amore per questi fra­telli minori della grande e incomprensibile storia degli umani. E sono belle le cose che scrive, i personaggi che descrive, le suggestioni che trasmette, che emanano un’energia e una verità che è vita, soffio vita­le, che è spirito, onda che ti porta e ti traspor­ta: ed è microstoria che ti fa pensare, ma soprattutto poesia che ti fa sognare e ti fa interrogare sul mistero della vita, sulla bel­lezza delle piccole­grandi cose che muoio­no e vengono salvate dal ricordo. Ed è bello quando la scrittura trasforma in simboli, i per­sonaggi di tutti i giorni, poggiando il discorso anche sulla filosofia dell’esistere, che il let­tore non manca di cogliere fra le righe di que­ste pagine stupende.

                                                Gino Carbonaro

In “Pagine dal Sud”, aprile 2008.

2011/06/22

Pensieri, Considerazioni, Ri-flessioni 3.Verità e dubbio?

Capisci di non poter capire

La tua ragione ha torto!
E tu hai torto a non darmi ragione.
Ascolta.
L'unica certezza è che non ci sono certezze.
L'unica verità è
che ci sono infinite verità.
Adesso puoi dire che sai di sapere.
Capisci di non poter capire.

Gino Carbonaro

2011/06/20

Giufà Baccalà

Salve Amici,
      Mi chiamo Giufà Baccalà.
      Sono un onorato cittadino dell´ISR (Ital-System-Republic) di origine siciliana.  
       Sono nato a Vattelapesca in provincia di Kilosà, ma… vivo a “Milano Due” in un palazzo costruito dalle imprese edili del nostro amato Presidente del Consiglio. Lavoro in una azienda di cui è azionista il Presidente del Consiglio. L’Assicurazione  della mia auto è del Presidente del Consigliocome del Presidente del Consiglio è l´Assicurazione che gestisce la  mia Previdenza Integrativa.
Il cellulare che uso fa parte di una holding gestita da capitali del nostro Presidente del Consiglio.
      Tutte le mattine acquisto il Giornale, di cui è proprietario il
nostro  Presidente  del Consiglio e il venerdì prendo il settimanale di cui è sempre proprietario il nostro Presidente del  Consiglio. La mia Banca appartiene al Presidente del Consiglio, mentre per gli investimenti in borsa mi servo del Gruppo Bancario 2M (Mediobanca-Mediolanum) che da Lussemburgo investe il mio capitale nel mondo e mi protegge. Perlomeno, così io credo. All’uscita dal lavoro, vado a far spesa negli Ipermercati del Presidente del Consiglio, e compro prodotti di aziende partecipate dal Presidente del Consiglio   
La sera, se decido di vedere un film, scelgo una sala cinematografica del circuito di proprietà del Presidente del Consiglio, e guardo film prodotti e distribuiti sempre da società del Presidente del Consiglio, tra parentesi e per inciso, si tratta di film che godono di finanziamenti pubblici previsti dal Governo presieduto dal Presidente del Consiglio. La sera, poi, se rimango a casa, e mi piace guardare le TV private del Presidente del Consiglio uso il decoder che mi ha venduto la società che appartiene al Presidente del Consiglio. E qui, nella TV, vengono trasmessi film realizzati da Società che appartengono al nostro Presidente del Consiglio. Qui, i Film vengono spesso interrotti da spot realizzati da Agenzie Pubblicitarie del Presidente del Consiglio. Ma, a me piace guardare i risultati delle partite, perché io, cittadino italiano, io, Giufà Baccalà, tifo per la squadra del mio Presidente del Consiglio. Quando non guardo le TV del Presidente del Consiglio, guardo le televisioni di Stato, i cui direttori sono nominati da parlamentari scelti dal Presidente del Consiglio.  Se mi annoio, navigo in internet, con provider controllati dal mio Presidente del Consiglio. Se non ho voglia di TV o non mi piace navigare in internet, leggo
solo i libri, di una delle numerose case editrici di proprietà del Presidente del Consiglio.
      Naturalmente, come in tutti i paesi democratici e liberali, anche in questa Italia è il Presidente del Consiglio che predispone le leggi che vengono approvate da un Parlamento, dove i deputati della maggioranza amano come me il Presidente del Consiglio.
  Si tratta di dipendenti ed avvocati del Presidente del Consiglio, parlamentari che governano liberamente per l’interesse del popolo italiano e per il bene della loro collettività, dunque per il mio e per il nostro esclusivo interesse!
  Conflitti di interesse? ma dove? ma quando? Collusioni con la mafia? Ma chi lo dice? La mafia? non esiste! La mafia è una invenzione! "La più grande invenzione dopo la penicillina e il treno a vapore!"
  Per questo è una fortuna vivere in Italia, il paese più democratico e più libero del mondo. E lo dico con orgoglio, ed è vera cornucopia per noi continuare a avere al governo un uomo che tutto il mondo ci invidia.
                               Long life to the King!
          
                 W  IL PARTITO DELLE LIBERTA’!
                  (libertà di fare quello che ognuno vuole)
                           W  LA CASA DELLE LIBERTA’!
                                        "Forse Italia!"
Votiamo per il
            Parlamento degli Ingiusti... Imputati
Con lealtà e simpatia mi firmo  
                                        Giufà (il) Baccalà  
                                                  Cittadino di un mondo giusto



P.S.  Dimenticavo, ho deciso di andare in vacanza! Ho prenotato un biglietto aereo in una società che "dicono" non appartiene al Presidente del Consiglio. Ma io non ci credo. In ogni caso e comunque io andrò a fare le mie vacanze in un villaggio turistico che è di proprietà della famiglia del Presidente del Consiglio.
W il Premier, W il Primo dei Primi, in tutto! Il primo sempre a cavallo. Dai tempi di Creso ... Nessuno ha più visto simile miracolo della natura.
                    W LA BANDA DEGLI ONESTI!

P.S. Le considerazioni sopra riportate sono di Gino Carbonaro