2012/08/25

Ricordo di Gino Mariella, un compagno di classe eccezionale



Gino Mariella


                    Nei ricordi di 
  Gino Carbonaro

  



1. Forse perché sono nato in mezzo alle fotografie, anche i miei ricordi del passato sembrano sistemati in un album di immagini. Tu giri le pagine, vedi figure e attorno a queste pensi.

La prima immagine che ho fortemente fissata di te, mio carissimo Gino, risale alla quarta elementare. Nell’aula ci sono due o tre grandi finestre che si affacciavano sulla via Garibaldi (’a via Lonca, a Modica), una cattedra di fronte, il crocifisso al centro, una lavagna, due armadi di colore celestino (ma chissà se erano celestini). Poi l’immagine della maestra, la signora Bellassai, bionda, buona, che tutte le mattine dopo le preghiere fa ripetere a tutti, per prima cosa, a memoria, la poesia che aveva assegnato il giorno precedente.

Ed eri tu il primo che cominciavi a ripetere. Tua era la pole position. E tu ti alzavi all’impiedi, diventavi subito serissimo, piegavi il collo con una inclinazione sacrale e cominciavi a ripetere senza una titubanza, senza una sbavatura. Perfetto. Scioccante per tutti quelli che dopo di te avrebbero dovuto avvicinarsi a te come  modello di riferimento.

Ecco, questo è il ricordo che custodisco nella mia memoria in maniera indelebile. Anche perché si è ripetuta per tanti mesi, tutte le mattine. Mai un errore, mai una impreparazione. È da allora che per tuo tramite ho fissato in me il concetto della perfezione possibile.

Forse per questo eri la gioia della maestra che ti voleva più bene di tutti, anche se, dolcissima com’era, voleva bene a tutti.

Poi, a ripetere la poesia era un altro ragazzo che era più bravo di tutti, ma meno bravo di te (forse, si chiamava Giannone e oggi gestisce a Modica un ristorante agrituristico). Al terzo posto, c’ero io, così, almeno, mi ricordo, poi, mi pare ci fosse Spillicchi, che era figlio di un barbiere. 

E qui, per quel che riguarda la mia storia, c’entri tu, la tua persona; perché da primo della classe, quale ero stato nella scuola elementare di Scicli, a Modica ero sceso di gradini e di livello.

Con tutto ciò, in quella quarta classe elementare fissai per sempre la mia percezione di te. Tu eri tu, con la tua bella e già formata personalità, sana, discreta, tenace, complessa eppure semplice, sempre un po’ più in alto di me; io ero io, con la mia personalità che tu rispettavi.

Ma, era talmente meritato il tuo primato in classe, eri così onesto nel manifestare le tue qualità, ed eri così corretto nel rapporto con gli altri che non riuscii mai a considerarti un antagonista, né un concorrente, né a nutrire alcun sentimento che non fosse di ammirazione nei tuoi confronti. Sempre. Allora, come adesso. D’altro canto, con te non mi sentivo un gregario, né un subordinato, né un perdente. Tu eri superiore e basta. La maestra ti voleva bene (questa era la mia impressione) ma io non sentivo che a me fosse stato tolto qualcosa. Stavo semplicemente bene, con te e con gli altri, un po’ meno con me stesso che non riuscivo a sentirmi comodo nel nuovo ambiente modicano.

2. A questa immagine, di Gino Mariella che ripete a memoria la poesia quotidiana, si agganciano a grappoli altri ricordi. Il fatto che era l’anno scolastico 1947-48, ed io ero appena giunto da Scicli a Modica, dove mio padre aveva trasferito la sua attività di fotografo.

Il passaggio da Scicli a Modica era stato per me traumatico. Avevo perduto tutti i miei amici senza essere riuscito a farne di nuovi, ma soprattutto mi veniva duro accettare il fatto di non essere più il primo della classe, di non essere più il pupillo di una maestra, e questa perdita di affetti mi faceva sentire solo. Venendo a Modica era come se fossi diventato nessuno. Così, almeno, mi sentivo.

All’epoca – scusami la “disgressione” (diceva così, la signora Mellini) – non era ancora nata mia sorella Flaminia, e io ero figlio unico o, se si vuole, figlio solo, che conosce la solitudine.

Mia madre e mio padre avevano tempo solo per il lavoro che non mancava, grazie a Dio, ma io che avrei avuto tanto bisogno di attenzioni, li vedevo solo a pranzo e la domenica, quando li aiutavo asciugando, tagliando e sistemando fotografie nelle buste, anche se loro due restavano sempre rintanati nella camera oscura, e se mi serviva qualcosa, comunicavo con loro con la mediazione di un citofono che mio padre aveva fatto installare nella loro stanza di lavoro, oppure parlando a voce alta da dietro la porta (sempre chiusa) della camera obscura.

Mi sentivo orfano, ma soprattutto privo di affetto, di coccole si direbbe oggi. Era come se non avessi avuto una madre. Deprivato di un mio diritto. 

Mi sentii quasi un senso di colpa, però, quando, conoscendoti meglio, qualcuno mi disse che tu avevi perduto la madre; e giustificai meglio la maestra che si rivolgeva a te con una attenzione speciale, con l’affetto di una madre. 

Poi mi invitasti a casa tua, che era sul Corso Umberto. Una casa con scalette per salire al primo piano, stanzette di passaggio che si andavano allargando man mano che procedevi. Mi sembrò la casa delle bambole.

In questa casetta minuscola, ma linda, pulita, vissi un’altra indimenticabile esperienza: conobbi tua sorella, Iolanda, che era molto più grande di te. Apparve all’improvviso, mi salutò, e si rivolse a te con una dolcezza che io non avevo mai rilevato in una donna. E tu ti rivolgesti a lei (così mi sembrò) come un figlio ideale si rivolge a una madre ideale. Rapporti che non avevo mai registrato sino ad allora, e che nella mia vita non riscontrai mai più in altre persone.

In quella apparizione sentii giungere con lei (con tua sorella) un flusso di affetto, di amore, di bontà e di intelligenza che interagivano con te e che davano vita ad una sorta di comunione spirituale fra voi due, ma con tutto ciò, la casa mi sembrò un po’ vuota. 

Tutte quelle cose, colsi in un attimo. E capii che qualcuno ti aveva sostituito la madre con una donna diversa dalla mia. E mi sembrò bella anche nell’aspetto, tua sorella, o forse lo era davvero.

Quella apparizione, quel quadretto che era più di un idillio, è rimasto nella mia mente a farmi sentire la bellezza e la forza del “femminile”. E certamente quella volta ti invidiai quella sorella che trasmetteva sicurezza, dolcezza, rispetto, senso di responsabilità, accettazione della vita e del destino e, soprattutto, amore. Insomma, quella donna aveva quello che un uomo non poteva avere e forse non sarebbe riuscito a dare. In conclusione, di quella donna mi colpì la personalità al femminile.

Ma te la invidiai solo per poco, questa sorella che era tua e solo tua, perché capii subito che tu non avevi la madre e io non avrei potuto pretendere per me anche una sorella come la tua.

Da subito, quella tua casa, mi sembrò diversa da tutte le altre; mi sembrò un luogo santo, quasi fosse un tempio, quotidianamente benedetto da Qualcuno. E ancora oggi, quando passo dal corso Umberto e la vedo ristrutturata e dipinta di bianco, dico a me stesso che quello è il giusto colore di quella casa.

3. Dopo quell’anno tu scompari dalla mia memoria. Non mi ricordo di te alla quinta elementare, né alla prima media. Poi, qualcuno mi disse che eri andato in seminario e mi addolorai. Non ti vedevo seminarista, né prete. Immaginai che la scelta era dettata da altre necessità. Forse economiche. Poi apparisti al quarto ginnasio, dopo aver perduto un anno che nel frattempo avevo perduto anch’io, e il mio cuore si riempì di gioia. Mi sembrava che l’ordine del mondo fosse stato rispettato. Però ti percepii un poco triste, non mi sembravi più come quello di prima, e stranamente non sembravi molto impegnato nello studio, e questo mi faceva rammaricare. Al quarto ginnasio, i primi della classe erano Gianni Barone, Mario Spadaro, che ora traduce versioni greche in Paradiso, Giovanni Poidomani, e poi, forse tu, che eri sempre preparato, ma sul giusto.

Al quarto ginnasio tu studiavi molto poco, soprattutto pochissimo greco e niente latino, ma sapevi sempre tutto. Mi sembrava un miracolo. Però, ridevi al tuo solito, una risata particolare, razionale, educata ma sincera, specie quando parlavamo del nostro professore Licitra di educazione fisica e negli anni a seguire quando prendevamo in giro la professoressa di greco, la signora Mellini che spiegava la Venere di “Cinnìdo” (leggi Knido).  

In quella quarta ginnasiale ti rivedo con un pullover di lana bianca a strisce marrò (o viceversa) sempre pulito, ma sempre lo stesso, che tu portasti anche negli anni successivi. Questo è il mio ricordo. Ed era sempre lo stesso, quel pullover, e mi sembrava che si andasse accorciando nelle maniche mentre per l’età ti crescevano le braccia. Sinceramente mi faceva scrupolo il fatto che al tuo confronto io potessi avere molte più cose materiali di quanto non ne avessi tu.

Di questi anni del ginnasio, tu sei in una foto che io scattai nella palestra a tutta la classe. La scattai con la Rolleiflex di mio padre che ora tengo in una vetrina. La macchina fotografica era fissata sul cavalletto e usai l’autoscatto. In quella foto, tu sei in piedi, pensoso, di lato, col pullover di cui sopra, io sono malamente accovacciato su qualcosa, su una pietra, forse, dopo aver fatto la corsa per entrare anch’io nella foto.

4. Adesso, l’album dei ricordi registra un altro passaggio. Ora siamo al secondo Liceo, dove vivo una delle esperienze più forti della mia vita: l’impresa epica, indimenticabile (e direi sovrumana) realizzata da te, perché poteva essere realizzata da uno solo, che eri tu, e da nessun altro. Ma vediamo i fatti che la memoria dissolve e il ricordo amalgama.

Era appena cominciato l’anno scolastico 1956-57 o 57-58, non ricordo bene, quando ricevetti una telefonata da Graziella Modica, la sorella di Enza, la mia fidanzata di allora, la quale mi avanzò una proposta (stavo per dire “avance”). Mi disse che aveva pensato (ma, in realtà aveva già deciso) di presentarsi per gli esami di Stato per conseguire il Diploma Magistrale da privatista, continuando a frequentare da interna il secondo liceo e mi proponeva di fare la stessa cosa. Mi spiegò che ci sarebbe stato molto da studiare, che bisognava avere qualche professore privato per la matematica del magistrale che era diversa, che avremmo dovuto studiare psicologia e qualche altra materia. Condicio sine qua non per sostenere questi esami: bisognava essere promossi a giugno. A me, l’impresa, più che ardua, mi sembrò impossibile, perché a quel tempo i privatisti dovevano presentare agli esami tutto il programma dei quattro anni del Magistrale, e il programma dell’ultimo  anno del Magistrale era tutto nuovo, dal momento che non coincideva con quello del secondo Liceo. Io, invitato a partecipare, dissi sì, in parte perché mi sentii adulato per essere stato invitato, ma soprattutto perché non riuscivo mai a dire di no; ma – ricordo come fosse adesso -  pensai immediatamente di coinvolgere anche te nell’impresa e, sempre al telefono, lo dissi a Graziella che accolse con entusiasmo la proposta. Perciò ti telefonai subito dopo.

Qui la sorpresa! Non avevo cominciato a esporre il fatto e non avevo finito di proporti l’invito, che tu avevi già detto di sì. Razionale e intuitivo come sei, avevi capito che quella era una sfida che avresti potuto e voluto accettare. Una occasione ti veniva incontro e tu la coglievi al volo.

Così fissai un altro punto della tua personalità: il fatto che ti piacevano le sfide e ancora, che per te il sì è sì, e il no è no! E ogni impegno preso con te stesso e con gli altri andava rispettato sino in fondo. Questo eri, e questo sei ancora.

Così, ci incontrammo tutt’e tre, Graziella, tu ed io, per concordare alcune cose (l’acquisto di libri, soprattutto) e valutare le difficoltà; e fu proprio in quell’incontro che venne fuori per me la prima novità e difficoltà: per fare gli esami di Stato al Magistrale “bisognava fare il tirocinio”, cioè frequentare alcune classi elementari di pomeriggio, tre volte la settimana, e due ore per volta, senza fare assenze e per tutto l’anno. Al tempo veniva sottratto altro tempo!

In quel momento, e con quella novità, capii che io non avrei potuto farcela, non potevo déranger, diciamo squilibrare il mio pomeriggio sottraendo allo studio la parte migliore della giornata, per riuscire, poi, tornando a casa, a trovare ancora  tempo per seguire i programmi che i nostri professori svolgevano a marce forzate. Il secondo liceo era un anno fondamentale che non si poteva seguire al servizio di due padroni; nessuno avrebbe potuto farcela, nessuno poteva avere tanta energia e tenacia psicologica, mentale e fisica (per non dire intelligenza e memoria) per realizzare un progetto da sogno: studiare il programma di “cinque anni” e alla fine riuscire ad essere promossi comprimendo il tempo a poco più che nulla. La scuola di una volta non era quella di oggi! Capii allora che quella impresa non era assolutamente possibile per me, ma non poteva essere possibile per nessuno.

Fu solo per non mettere in crisi il vostro entusiasmo che partecipai alle prime due settimane di tirocinio, e comunque sino alla fine di ottobre, e subito sentii di avere squilibrato i miei pomeriggi di studi. Certo quelle poche lezioni di tirocinio mi fecero vedere e capire un mondo diverso; imparai tante cose. Ma, con rammarico mio e vostro, trascorse le prime due settimane,  alla fine di un tirocinio pomeridiano, all’uscita dalla scuola, vi spiegai la mia impossibilità a continuare per i motivi sopra detti, e mi defilai mortificato e con rammarico per essere venuto meno ad una parola data.

Ci fu da parte tua e di Graziella una punta di delusione mista a disappunto (che il vostro viso lasciò trasparire), che in verità durò meno di quanto avessi previsto, per dare spazio subito dopo ad una sincera comprensione nei miei confronti.

Il più convinto nell’impresa, a distanza di due o tre settimane, però, mi sembrasti solo tu, e capii che senza di me o di Graziella, tu avresti continuato senza titubanze, dubbi o tentennamenti, anche da solo; e se Graziella che era stata la promotrice dell’impresa continuò, poi, sino alla fine (lei con l’aiuto di qualche professore privato, tu studiando da solo), questo fu forse merito tuo.

Adesso, che ero uscito dal gruppo, per me c’era solo da assistere all’impresa dall’esterno, come uno che ama il calcio e va a vedere allo stadio la partita che giocano gli altri. Ma restavo dell’opinione, come lo sono ancora oggi, che quella impresa era impossibile. Ma eri tu a dimostrarmi, come sempre, che l’impossibile doveva potersi piegare a categoria del possibile.

5. Ma, la sorpresa, in quel secondo Liceo, fu un’altra. Da quando cominciasti a studiare da privatista, e il tempo avrebbe dovuto a rigore di logica mancarti proprio perché studiavi cento materie diverse per quegli esami di Maturità Magistrale, con mia sorpresa, cominciasti a diventare più bravo in classe, perfetto come quando eri alla quarta elementare; e anziché avere i soliti, scontati e comodi sei con qualche sette, cominciasti ad essere sempre preparatissimo, a  prendere gli otto e anche qualche nove. Ero incredulo. Non credevo ai miei occhi. Era come se la scommessa fatta con te stesso (ma io ero testimone esterno) ti avesse fatto venir fuori il meglio di te stesso. Mi sembravi come una Ferrari che anziché avere le solite quattro o cinque marce delle macchine normali ne avevi sette e forse qualcuna in più. In ogni caso sviluppavi un numero di cavalli mentali al di sopra della media. Ed io ero nella media.

Un giorno, passai da casa tua per farmi dare da te degli appunti di filosofia. Io ero nei guai perché non riuscivo a memorizzare il libro di testo, mentre tu avevi già svolto quella parte di programma! Ti trovai seduto al tavolo mentre studiavi. La scena è storica. Non perché stavi studiando storia, ma perché rilevai un’altra peculiarità del tuo carattere. Ecco il quadro: ti alzasti per prendere in un angolo gli appunti che ti avevo chiesto e ti sedesti di nuovo per studiare, mentre continuavi a parlare con me. Di fatto facevi tre cose diverse nello stesso momento: parlavi con me, leggevi il libro di storia e riscrivevi le cose importanti. Studiavi applicando il migliore dei metodi di studio: quello di trascrivere i concetti e fissarli per iscritto, ma allora non lo sapevo, e non lo avevo ancora capito. Ma, come facevi a studiare se parlavi con me? Quello che mi colpì, però, fu il tuo rapporto con il libro di storia: uno sguardo sdegnoso, concentrato, che era di superiorità, nei confronti della pagina del libro che stava sul tavolo alla tua sinistra; il mento appoggiato sul pugno del braccio sinistro, mentre con la destra scrivevi quello che ritenevi di trascrivere, con la tua grafia serena, chiara ed elegante su un quaderno. Mi fece impressione, ricordo, il fatto che il quaderno era tenuto fermo dal braccio che scriveva.

Capii che non potevi perdere tempo, ma tu, anche stavolta non mi toglievi niente, perché rispondevi alle mie parole e continuavi a conversare (mentre continuavi a scrivere).

Compresi esattamente che ce la stavi mettendo tutta, e che ti eri impegnato a vincere quella scommessa. Andai via salutandoti, mi vergognai un poco per avere chiesto la utilizzazione di appunti fatti da te, che tu avevi perché avevi già svolto quella parte di programma, e lungo il ritorno a casa allungavo il passo per cercare di non perdere tempo togliendolo allo studio. Cercavo di imitarti almeno in questo.

Quell’anno tu ed io non ci parlammo molto. Avevo l’impressione che tu venissi a scuola per riposarti. Capivo che tu studiavi molto, ma facesti pochissime assenze, forse due o tre giorni in tutto l’anno, e comunque, di meno di quanto non eri solito farne negli anni precedenti. In realtà, eri sempre lo stesso, nel carattere e nell’umore. Unica differenza che notai su di te fu nel viso. Mi sembrasti solo un po’ più pallido, un poco più magro.

6. Così, giunse la fine dell’anno di quel nostro secondo liceo classico. Tu fosti promosso con voti altissimi, e acquisivi il diritto[1] a sostenere gli esami da privatista per conseguire il Diploma di Maestro. Graziella Modica, invece, si trovò rimandata a settembre con cinque nel solo latino. La scuola di una volta era diversa, la pensavano giusta, e Tuzzu La Rosa, che non volle venire a compromessi con se stesso, in effetti distrusse una speranza. Come dire: summa justitia, summa injuria! Ed era (paradossalmente) ingiusta proprio per il suo amore  per la giustizia. Graziella, poverina, pianse molto e forse piange ancora al ricordo di quell’anno infausto. Tu, invece, ti presentasti agli esami da solo, e li superasti, e a casa tua dovresti avere il papiro di quella impresa che nessuno ha mai cantato e che forse neppure i tuoi figli potrebbero capire.

L’anno successivo, al terzo liceo, eri fra i banchi con noi, scherzoso come sempre, ma mi sembrò che il tuo impegno fosse scemato ancora un po’. Come un nobile, ricco e grasso, mentre noi studiavamo duro, tu, sereno, vivevi di rendita. Ora ti godevi il meritato riposo. Come sempre, comunque, sapevi tutto. Anche questa volta, come alla quarta elementare, la tua superiorità non offendeva nessuno. Io ti percepivo come sempre. Tu non avevi vinto su di me che mi ero defilato da quella impresa, ma avevi vinto per te e su di te. E tanto ti bastava.

7. Dopo la maturità liceale ti perdo di vista. Poi mi informo e so che sei a Roma. Hai vinto un concorso alla Ferrovie dello Stato o al Ministero, non ricordo. Insomma, avevi scelto di lavorare, o forse non avevi scelta. Il mio desiderio era di incontrarti, e ti venni a trovare nel posto di lavoro, in una stanza luminosissima, piena di luce perché una parete molto alta era tutta finestre.

Mi dicesti che facevi il segretario di un sindacalista, una persona che poi vidi e mi sembrò un uomo molto avvenente oltre che importante. In quella stanza, in quel momento, mi sentii scomodo, quasi con un senso di colpa nei tuoi confronti, perché io frequentavo l’università con i soldi di mio padre, mentre tu che avresti dovuto più di me avere il diritto di frequentare l’univer-sità facevi il segretario di qualcuno. Io non ti vedevo segretario di nessuno. Ma tu accettavi. Non recriminavi. Non ti lamentavi. Non invidiavi nessuno. Accettavi quello che la sorte ti dava con una rassegnazione unica, quasi con allegria. Perlomeno, così pensavo io. E quanto sopra, ritengo di poter affermare perché io ho conosciuto tante persone, e tutte hanno avuto sempre qualcosa di cui lamentarsi: della sorte, degli altri, del mondo, della politica. E fra questi ci sono sicuramente anch’io. Ma tu non hai mai parlato male con me di nessuno, e questo non è nella natura degli uomini e tanto meno dei modicani. In questo eri simile a mio padre. Persone rare, uniche.

Di quella visita ricordo che bussai a una porta, ti vidi seduto a un angolo davanti a una macchina da scrivere, mi sorridesti,  mi venisti incontro e insieme ci avvicinammo al tuo angolo di lavoro discutendo; ma, appena seduto alla tua scrivania, con molta discrezione cominciasti a infilare fogli nella macchina da scrivere e continuasti a lavorare. La scena era la stessa di quelle che già conoscevo: quella di quando studiavi a casa tua, leggendo, scrivendo e continuando a conversare con me. Io avrei voluto andar via, pensavo anche di disturbare, nel senso che interrompevo il tuo lavoro, ma tu mi esortasti a continuare la conversazione. E questa fu la scena. Tu avevi alla tua destra un mazzo di lettere alle quali dovevi rispondere, e in realtà leggevi, battevi sui tasti con due sole dita, ad una velocità incredibile (ma dove avevi imparato a scrivere a macchina, mi chiedevo!); nel mentre partecipavi alla conversazione parlando, scrivendo, leggendo, sfilando fogli quando la lettera era finita e girando pagine per iniziare a rispondere a un’altra lettera. Ricordo che mi avvicinai incredulo alla tua macchina da scrivere e ai fogli che avevi scritto per cercare di vedere con la coda dell’occhio, come san Tommaso se era vero o frutto di allucinazione la scena alla quale stavo assistendo. E notai che le lettere erano scritte sul serio con una impaginazione elegante, professionale. Questo sei stato tu da sempre. Lavoro, senso del dovere, precisione, perfezione, onestà.

8. Poi cambiasti reparto e lavoro, questa volta sotto la direzione di un capo che misurava il lavoro ai suoi dipendenti. Poche pratiche al giorno e il lavoro si accumulava. Alla tua velocità tu sbrigavi le tue cinque pratiche quotidiane in cinque minuti e poi stavi ad annoiarti tutto il giorno. Ma, anche in quell’ufficio venne l’estate, il dirigente andò in ferie e tu suggeristi ai tuoi colleghi di far trovare al capo il lavoro smaltito, finito, fatto, ritenendo di fargli una cosa gradita. Il mese di ferie volò, il capo ritornò, e visto il lavoro smaltito si incazzò, ti rimproverò, tornando a fissare la regola. Le pratiche da fare dovevano essere cinque al giorno! Questa volta – povero Gino Mariella - avevi sbagliato qualcosa. Mi raccontasti tu questa storia qualche tempo dopo e più che disappointed o amareggiato, mi sembrasti smarrito per il fatto che non eri riuscito a capire qualcosa degli uomini, della vita.

L’altra pagina del mio album di ricordi ti rivede quando abitavo al numero 65 di via della Frezza a Roma, e venivi a farmi visita. Ora sei vestito elegante. E’ inverno e indossi un cappotto spigato, forse anche questo a righe marroncine e bianche. Ma mi pungeva non poco percepirti lavoratore o segretario di qualcuno e senza laurea: proprio tu che ai miei occhi portavi in testa l’alloro della laurea.

Andavamo a cenare in una rosticceria in via del Corso, e una volta indugiammo non poco a guardare le belle gambe accavallate di una bella cassiera e io mi trovai a fare un commento che poi dimenticai e che tu mi hai richiamato alla memoria qualche tempo fa.

9. Ma il tempo passa, e di nuovo ci perdemmo di vista. Molti anni dopo che ero andato via da Roma ed ero già sposato (ma forse anche tu eri sposato) tornai a informarmi di te e venni a trovarti una estate, in una casa al mare, alla Filippa di Donnalucata, a sorpresa, questa volta. Un abbraccio, un sorriso, lo scambio di quattro parole. C’era mia moglie con me e rividi tua sorella.                

10. Un altro paio di volte ti venni a trovare in un ufficio alla Stazione Termini, forse quando venivo a Roma per concorsi. Dirigevi qualcosa. Gestivi appalti di treni andati in disuso e traghetti delle Ferrovie dello Stato da smantellare. La parola appalti mi fece pensare che l’ufficio avrebbe potuto essere poco pulito. Un luogo dove ci si poteva sporcare molto facilmente. Ma io pensai che Gino Mariella non avrebbe mai fatto nulla che avrebbe potuto macchiare la sua coscienza e non farlo dormire sereno di notte. Comunque, incrociai le dita e mi rivolsi a Chi ti ha protetto da sempre e vigila su di te.  

A quel tempo abitavi già a Via delle Cave, n. 4. Mi desti l’indirizzo e i numeri di telefono. Forse mi dicesti che ti eri laureato. Dico “forse” perché non sarebbe stato nel tuo carattere dire a qualcuno: “Mi sono laureato”, come non avrai mai detto a nessuno: “Io ho due diplomi di scuola superiore”. Discrezione, modestia, educazione. Sei sempre stato splendido ai miei occhi.

11. Quest’anno, infine, Gianni Barone in visita a casa mia suggerì: “Perché non telefoniamo a Gino Mariella!” Colsi al volo l’idea e ti telefonammo. La sorpresa per me fu quella di sentirti piangere dall’altra parte del telefono. Tua moglie stava male e  dicesti una frase che mi sconvolse. Dicesti: “Qualcuno mi pensa!” Una frase che alle mie orecchie arrivava assurda, quasi come un ronzio di mosche. Proprio a me che ti ho pensato sempre come a un modello di vita mi dicevi: “Qualcuno mi pensa!” Ma io non sono qualcuno. Io sono un testimone della tua vita e so io cosa dire di te a Qualcuno se Questi avrà bisogno di testimoni. Dirò che la vita per te è stata “rispetto” degli altri, del lavoro, amore, senso di responsabilità e del dovere, onestà. Parola che oggi non trovi più nei vocabolari, concetto che non pare possa ascriversi più a nessuno.

Io, ai miei alunni, non ho mai mancato di parlare di te, mio caro Gino Mariella, di un tale che quando era bambino era già adulto anche se ha custodito sempre un fanciullo dentro di lui.

In quella telefonata compresi la tua sofferenza. Capii, allora, ma lo avevo già capito nel passato, che tua moglie, per te è tutto: la madre che non hai avuto, tua sorella Iolanda che non era vicina. Capivo che tua moglie era stata il tuo tutto.

Di tua moglie, che io non conosco, mi avevi parlato già prima nel mezzo di qualche conversazione, e avevo sentito il profumo di lei senza vederla, come accade quando sei in un giardino e senti l’odore di un fiore senza vederlo. Capii che Lei era stata per te il porto dove avevi fatto riposare il tuo cuore, il tuo immenso bisogno del femminile e abbracciando Lei abbracciavi tutte le donne di cui avevi sentito il bisogno nella vita e che non avevi avuto. Doveva essere qualcosa di sublime, certo di diverso, questa donna, e tu, allora mi sembrasti felice, parlando di Lei. 

In quella telefonata capii ancora che nella vita avevi accettato tutto, ubbidendo alla legge spietata della necessità, ma ora non eri disposto ad accettare una ipotesi: che anche i tuoi figli, come te, potessero restare senza madre e tu senza l’affetto di un modello di moglie-sorella e madre. Per patire questa tremenda punizione dovresti aver commesso una colpa. Ma quale? Il diritto di questa società insegna che le punizioni si scontano se ci sono colpe. Ma un figlio, quale colpa ha commesso per non avere avuto una madre? Questo potresti chiederti. E qui non c’è spiegazione. Qui la logica è risucchiata dal mistero e riusciamo a stento a comprendere con la nostra piccola intelligenza che Dio è grande, e noi siamo parte di lui.

12. Ti voglio bene, mio carissimo Gino. Io non ho invidiato mai nessuno, ma ho solo ammirato alcune pochissime persone. Tu sei una di queste.

13. Questo è il ricordo che ho di te. E ora che hai aperto uno studio di avvocato mi confermo nell’idea che da sempre, a giro di vite e dando tempo al tempo, sei riuscito a realizzare i tuoi obiettivi, i tuoi sogni. Un augurio. Che tu e la tua famiglia possiate vivere sereni per ancora altri mille e poi ancora mille anni e che i tuoi figli possano capire veramente cosa hanno per padre. Un uomo. Un uomo eccezionale. Un uomo etico!

                                                       Gino Carbonaro


Ragusa/Roma 12 ottobre 2002     







P.S. L’11 settembre 2004, due anni dopo questa lettera, mi hai telefonato dalla “Filippa” e sei venuto a casa mia. Abbiamo pranzato insieme. Mi hai portato un regalo: i tuoi figli, Luca e Stefano, i tuoi gioielli. Dolcissimi, educatissimi, bellissimi, pieni di salute, intelligentissimi come il padre e di sicuro come la madre. Avete sommato le qualità di entrambi voi due e le avete moltiplicato in maniera esponenziale. Come sei fortunato sotto questo aspetto. Come siamo fortunati anche noi sotto questo aspetto. E tua sorella, la dolcezza personificata. Che bella giornata. Che bel regalo che mi hai fatto. Peccato! era l’11 settembre. Un grande giorno. Ti voglio bene Gino. Io non ho avuto un fratello. Mi capisci?  Ora, ti prego, quando parli con tua moglie, la sera, quando spegni la luce, dille di me.













[1] Era necessario essere promossi a giugno per poter sostenere gli esami di maturità magistrale. Ed era un principio illegittimo, perché agli esami di Stato  dovevi poi presentare tutto il programma dei quattro anni!  Oggi è diverso. Oggi si portano programmi e parti di programma non volto.

2012/08/18

Mimì Arezzo, Lettera ai Figli


In ricordo di Mimì Arezzo

di Gino Carbonaro
                                                                                                                  
Ragusa 12 luglio 2011


Vania, Michele, Peppe,

L’altro ieri in Chiesa, avrei voluto dire qualche parola su Vostro Padre, il mio dolce amico Mimì. E’ andato via. E con lui se ne è andata un pezzo di storia della nostra vita.
           La città di Ragusa, tutta, gli deve qualcosa, perché a questa Città Vostro Padre ha dato cose splendide: l’amore di un figlio, il rispetto per il passato, la ricerca di una identità, quella della nostra storia locale.

            Io l’ho conosciuto nella primavera del 1966, appena sposato io, già sposato, forse lui. Era un giovane che aveva tutto: prestanza fisica, bellezza, nobiltà dell’animo, intelligenza, arguzia, rispetto dell’altro, eleganza di modi.

            Mi colpì questo giovane che mi sembrò diverso, speciale, forse unico. Non mi sbagliavo, perché dopo qualche anno gli vidi dar vita a una casa editrice, poi lo vidi diventare scrittore. Ma, che scrittore! Chiarezza come dono di natura, affabulatore finissimo, scrittore dotato di riconoscibilità. Tu leggi una sua pagina e devi dire:” Ma, questo è Mimì!”

            Ma, quanti libri ha scritto, rilegati e non, e quanti amici mi hanno fatto vedere nelle loro biblioteche la collana delle opere dello scrittore Mimì Arezzo. Tutte riferite a Ragusa. La città del cuore e per questo i Ragusani si riconoscevano in lui. C
ome scrittore e come uomo
h
a fatto un’opera eccezionale. Ma come padre? Cosa era per Voi vostro padre? Io posso dirlo. Un giorno (tanti anni fa) mi parlò di te, Peppe e mi disse che studiavi musica e stavi preparando gli esami del quinto anno di conservatorio e mi disse ancora con gli occhi che gli luccicavano di gioia, ma con grande modestia (questa caratterizzava il suo carattere) mi disse a mezzavoce: “Ma lo sai, Gino, è bravo Peppe, promette. Forse diventerà pianista”. E un giorno che tu e tuo Padre eravate a casa mia, lui ti fece suonare nel nostro piano. E tu, Peppe, suonasti veramente bene. Eri brillante, sicuro, “dominavi” la tastiera. La tastiera sembrava la tua fidanzata. Sei stato per me una promessa. Una stella che si accendeva nel campo della musica. in realtà, volevi farlo felice. E in quella occasione lo facesti felice.

            Quest’uomo ha donato a tutti, a piene mani, e se è vero come è vero che si continua a vivere dopo la morte, il nostro Mimì avrà visto uno ad uno gli amici che erano in Chiesa, e quanti, pur non essendo venuti, gli sono stati vicini col pensiero.

             Ma non ho detto dell’amore che aveva per te Vania. Io so che ti adorava. Non posso dire che eri la prediletta, perché non era padre da avere simili debolezze.

             Tu, Peppe, Michele e la dolcissima e “bellissima” vostra madre, eravate sulla stesso piano nel suo cuore. Forse, negli ultimi tempi  aveva un debole per Michele. Ma lo ha sempre considerato “il” piccolo, anche se era il più alto. Forse lo sentiva, indifeso. Mimi’ sapeva che stava andando via, e avrebbe voluto vederlo sistemato.

      Ora, Mimì Arezzo è andato via a raggiungere la donna della sua vita, vostra Madre.

      Noi abbiamo ancora una volta imparato che la vita è un viaggio, accompagnato dall’ombra discreta della morte che a ogni piè sospinto potrebbe bussare alla porta per notificare che il viaggio è finito.

      La vita è una parentesi che si apre e si deve chiudere. Assurdo. Perché siamo venuti al mondo senza merito nostro e andiamo via perché così vuole il destino.

     Voi, Vania, Peppe, Michele siete fortunati, fortunatissimi, ad avere avuto questo Uomo come Padre. Questo Uomo unico, a cui tutti, anche io, dobbiamo qualcosa.

     Un affettuoso abbraccio, da estendere ai Vostri Partner, che vi sono stati vicini in questo momento terribile, mentre sento che nel dolore immenso per la dipartita di questo Uomo-cittadino-gigante-Padre, siete felici in cuor vostro, perché sapete di essere figli di tale “Uomo”. E non tutti hanno un tale Padre.

      Voi, onorate la sua memoria, non tradite il suo modello di vita. Siate dolci, onesti, impegnati nella vita e nel lavoro come lui vi ha insegnato. Modello di persona che oggi non si incontra tanto facilmente.

          Grazie

                                                         Gino Carbonaro

gino.carbonaro.italy@gmail.com     




2012/08/17

SICILIA, Mare, spiagge, villeggiatura, una volta

Tempo d’estate


Spiagge, mare, villeggiatura ..  
una volta!


                                                        di Gino Carbonaro


Come cambiano i tempi! 
Da sempre, e sino alla metà del secolo scorso, 
qui negli Iblei la fascia costiera era deserta 
e le spiagge erano lande abbandonate 
che i pescatori osservavano dal mare. 
Quasi tutto, poi, era proprietà 
degli ultimi latifondisti siciliani, 
che cercavano di cedere le sabbie delle dune 
in enfiteusi a chi ne faceva richiesta. 
Lo scopo era quello di ripulire il terreno e impiantare vigneti per realizzare un reddito. 
Fra l’altro, le spiagge di sabbia dorata, 
protette alle spalle da fitte barriere di dune e canneti, si raggiungevano con difficoltà 
attraversando a piedi o a dorso di asino o di mulo, strette e sabbiose “carrate”.


Spiagge incantevoli e selvagge, che oggi definiremmo naturali, accarezzate dalle onde di un mare incredibilmente azzurro, pulito e sereno, dalla cui spuma i Greci immaginarono era nata Afrodite, dea della bellezza.


Spiagge e mare che accarezzavano l’animo quando accaldati per le difficoltà di  quell’arrancare a piedi sulla sabbia delle carrate, si raggiungeva il colmo di una duna, dalla quale, a sorpresa, si apriva la magica visione del mare con tutta la sua bellezza e tutta la sua frescura. Spiagge solitarie, stazioni predilette da ammofile arenarie, tamerici salmastre e arse, poligoni delle sabbie, carpobroti dalle foglie grasse e carnose dal fiore generoso color fuxia, habitat privilegiate del bellissimo giglio marino, bianco e profumato, che si schiude tuttora alle brezze marine.
Spiagge isolate e solitarie non solo d’inverno, ma anche d’estate, perché fino ai primi degli anni Cinquanta non esistevano ancora strade litoranee e non era giunta in Sicilia la nouvelle vague che generò la moda del costume, del bagno, dell’andar per mare in barca, e della casa al mare. In quegli anni, non esisteva l’idea di vacanza, e pochi avevano tempo e soldi da dedicare alle ferie.

Ma va ancora detto che pochi avevano un rapporto privilegiato con il sole. E, se la società era divisa in nobili e plebei, la bronzatura della pelle la diceva lunga sulla estrazione sociale delle persone.

Plebei? Coloro che avevano la pelle annerita dal sole: contadini, soprattutto, e quanti lavoravano all’aperto. Nobili? Gli altri. I ricchi che vivevano in città, all’ombra degli aviti palazzi e non avevano bisogno di andar fuori  per lavorare. Le nobildonne, poi, qualora avessero deciso di mettere il naso fuori di casa, nelle giornate di sole, facevano uso di “parasole” per proteggere la pelle dai raggi solari. E va ricordato che in Giappone vige tuttora una percezione similare del sole. E andando per le strade di qualche cittadina giapponese non è difficile incontrare delicate signore in kimono, che proteggono il viso dai raggi solari con eleganti ombrellini da sole. Anche in quella parte di mondo, la bronzatura bolla le classi subalterne.    

E tornando in Sicilia, va ricordato il proverbio che recita “Fimmina janculidda unnici misi l’anno è malatedda”, e l’altro ancora che ricorda “Unni trasi u suli, nun trasi u dutturi”.  

Questo non significa che non si andava a villeggiare. Ma, per fare questo bisognava possedere una villa. In campagna. E chi l’aveva, fuggiva la città per trascorrere i torridi mesi estivi nella frescura della campagna, per godere la sua “aria fina”. Si diceva proprio così. Ma, in campagna ci si trasferiva d’estate perché mancando nelle città un valido sistema di fognature, gli ambienti cittadini diventavano invivibili per quanto di maleodorante spazzatura o d’altro stazionava d’estate (ma non solo) nelle strade. Tanto evidenzia Raffaele Poidomani quando in “Carrube e Cavalieri” parlando delle vacanze a Pozzallo scrive: “Ma, prima del respiro del mare, assai prima di qualsiasi forma di odore che prendesse contatto con l’olfatto, giungeva alle nostre nari bruciando le mucose, l’aria delle cunette. Fognature scoverte queste, canalizzazioni dove si ammassavano i detriti organici della plebe, aspre digestioni proletarie, massicce angosce di fave poco condite, pesce di scarto fritto in olio cattivo,” .. e così via.

Mare? Bagni? Sole? Non entrano ancora nella cultura delle persone, e la famiglia Moncada-Poidomani, che da Modica si trasferiva annualmente a Pozzallo affittando la casa di donna Nela per il mese di agosto, non possedeva un villino sulla spiaggia.

Comunque, fino al 1960, lo status di spiaggia, spettava a quella di Raganzino a Pozzallo, alla spiaggia di Donnalucata e a quella di Mazzareddi, oggi Marina di Ragusa. Litorali che era possibile raggiungere a mezzo di strade statali o comunali. Per il resto, da Maganuco, a Sarciuri (Cicciuri), dalla piccola spiaggia di Cava d’Aliga, alla Filippa, si trattava di spiagge non facilmente accessibili, poco conosciute e incontaminate.

Faceva un piccolla eccezione Cava d’Aliga che subito dopo la seconda guerra mondiale d’estate ospitava una ventina di famiglie. Amanti del mare che tutte le mattine si incontravano sulla spiaggia, e di sera si riunivano a lume di luna (difatti, non c’era energia elettrica) per raccontarsi storie, fare comunione fra loro, cantare insieme accompagnati dal suono di una romantica fisarmonica e godere la frescura offerta dalla brezza marina. Infine, si salutavano dandosi appuntamento per il giorno dopo, di nuovo, sulla spiaggia.

Lì, al centro della piccola baia falcata di Cava d’Aliga, ai primi degli anni Cinquanta era possibile notare una capanna messa su con canne marine, dove una anziana, povera signora, viveva da anni alla maniera di Diogene. L’acqua era lì vicino, perché a quei tempi sorgenti di acqua pura zampillavano un po’ ovunque fra gli scogli vicino al mare.

Per il resto, il promontorio di Bruca era coperto da un vegetazione di tamerici (bruca o vruca, in siciliano) da ciuffi di canne marine, agavi, fra le quale trovavano spazio due o tre casupole tormentate dai venti. Determinava un forte impatto ambientale la presenza di uno squallido edificio adibito a stazione della Guardia di Finanza, in seguito trasformato in ristorante.     

Ma, fu a Raganzino che a partire dagli anni Venti i primi imprenditori cominciarono a montare sulla spiaggia complessi palafitticoli costruiti con legni e tavole. I cosiddetti chalet, per dirla alla francese, che contenevano cabine numerate, affittate a ore. Struttura che consentiva alle famiglie di poter indossare il costume da bagno, preistorico, e artigianalmente fatto in casa col sistema della calzamaglia. E siccome il denudarsi aveva a che fare con la morale e con quello che avrebbero pensato i preti e la gente, il novello costume da bagno, di lana o di cotone, ebbe solo l’impudenza di sagomare un pochino le forme dei maschi e delle donne, badando bene a coprire quanto era vietato dall’allora vigente buonsenso.

Considerato poi che la lana immersa nell’acqua gonfiava e si appesantiva, i costumi, tutti rigidamente in nero, poi blu scuro e marrò, ebbero le bretelle per meglio contenere i pesi: sia quelli dei seni delle signore, che quanto d’altro pendeva nel corpo dei maschi.

Ma agli inizi, le prime persone che si avvicinarono al mare si toglievano scarpe,calze  e camicia restando in canottiera, e ripiegando più volte i pantaloni lunghi per non farli bagnare. Non pensavano al bagno, ma solo a rinfrescarsi i piedi con l’acqua del mare. Le donne poi, quelle che portavano i bambini sul bagnasciuga ruotavano più volte le gonne per sollevarle, infilandole dentro le mutandine. Scene originali, spesso  comiche, per noi. Ma era proprio così.  

Tutto cambia verso la metà degli anni Sessanta. E più velocemente ancora con la grande rivoluzione del ‘68, cui va aggiunta la crescita del benessere economico, la nascita delle serre, la creazione di strade litoranee che sventrarono la macchia mediterranea e misero in contatto paesi e stazioni balneari da Scoglitti a Pozzallo. Da qui il boom dell’edilizia e della agricoltura intensiva,  l’aggressione alle coste, l’indebita appropriazione delle dune e dei promontori trasformati in blocchi di cemento armato, e così via.    

Intanto, col progresso, i costumi da bagno diventarono monopolio della industria tessile, e qualche giovane donna, ma solo a partire dalla metà degli anni Sessanta, ebbe il coraggio di apparire sulle nostre spiagge indossando il “bikini”, il famoso “due pezzi” che metteva in mostra l’ombelichetto e pure il pancino. Lo scopo? Farsi prendere dal sole “paro paro” e abbronzare quante più parti del corpo protette da un intonaco di creme. Qualcuno però, soprattutto i maschi, godevano nel guardare in anteprima le armoniose fattezze dei corpi femminili esposti al sole.

Il mondo cambiava. Sesso e mare diventavano sinonimi. Le donne si distendevano sulla calda sabbia, al sole d’estate, per far dire a una canzone del tempo: “Sei come una lucertola. Tutto il giorno al sole sulla sabbia che brucia nell’odore del mare”. Insomma, era nato un nuovo progetto di vita e di morale. Era nata una nuova civiltà!

                                                          Gino Carbonaro


gino.carbonaro.italy@gmail.com

2012/08/16

Orazio Spadaro, Pittore della Luce


Riscoperta del passato

Canonico Orazio Spadaro
pittore della luce

                                         di Gino Carbonaro

Ricordo del canonico Spadaro   

     A Modica, il canonico Orazio Spadaro abitava a poco più di cento metri da casa mia. In Corso Garibaldi n. 124; lui, proprio sotto la Chiesa di San Giorgio; sul vico Giallongo, dall’altra parte del Corso Umberto, abitavamo noi.
     Io, da piccolo, lo incontravo spesso. Appariva a sorpresa dalla via Fratantonio, alto, magrissimo, intabarrato nella sua tonaca nera sulla quale portava spesso una mantella, anch’essa nera, con in testa l’immancabile cappello da prete dalla larga falda. Scendeva lentamente, con difficoltà, i gradini di via Magg. L. Barone.
     Erano i primi degli anni Cinquanta e lui, il canonico Spadaro, aveva di già superato i settant’anni.
     All’inizio, io non sapevo chi era questo personaggio che attirava tanto la mia attenzione, ma un giorno, il nostro sacerdote si trovò a passare, mentre mio padre ed io eravamo fuori, sul marciapiede, davanti al nostro studio fotografico. Mio padre lo osservava in silenzio, poi, all’improvviso esclamò: “Quello è un grande pittore!”
     Fu così che conobbi il canonico Spadaro, con questa inattesa e lapidaria considerazione di mio padre, ma fu un giudizio che si scolpì nella mia mente, e che custodii per sempre nella mia vita.
     Mio padre, appassionato d’arte, era fotografo di professione, e mi portava spesso con sé quando si recava  in Chiesa per servizi matrimoniali, e accadeva non di rado di trovare dipinti del canonico Spadaro, là dove si andava. Mio padre non mancava mai di osservarli, e alla fine aveva sempre da dire bene di quelle pitture che guardavamo con molta attenzione e molto rispetto.


La Chiesa di Pozzo Cássero

      Un giorno, il caso volle che insieme si andasse nella Chiesa del Sacro Cuore di Pozzo Cassero. Lì, la sorpresa fu grande. La Chiesa, molto luminosa, mi sembrò una Galleria d’arte sacra: San Pietro, un po’ calvo con le chiavi in mano, S. Giovanni che battezza Gesù, e la colomba dello Spirito Santo in alto; San Francesco di Paola, sguardo ascetico rivolto verso il cielo con corona in mano, opera molto bella; il ritratto da una immagine nota di Santa Gemma; Sant’Ignazio di Loyola; Sant’Antonio di Padova; San Giorgio a cavallo mentre uccide il Dragone e, ancora, una bella Crocifissione.
     Era quella la Chiesa, nella quale il canonico Spadaro aveva trascorso buona parte della sua vita espletando il suo ruolo pastorale.
     Capii, in seguito, perché il nostro sacerdote-pittore avesse deciso di accettare, già nel 1924, l’invito della nobildonna Grazietta Castro, quello di reggere la piccola chiesa di campagna.
     La proposta, giuntagli quando era nel pieno della sua maturità di uomo e di pittore, gli sarà sembrata un dono del Signore. Lì, nella pace reale di quell’angolo di campagna, nel francescano silenzio, dove è possibile ancora oggi cogliere il respiro della natura, lui avrebbe potuto appagare la sua grande aspirazione: quella di vivere per gli altri realizzando la sua vera natura di sacerdote, di uomo riservato e schivo, e soprattutto quella di pittore.

La sua religione era la pittura

     Forse, la sua religione era la pittura, e comunque, mai pittura fu più ricca di soggetti religiosi. Nei fatti, e certo con le dovute cautele, quella Chiesa disadorna sarebbe stata la sua piccola Cappella Sistina.  
     Ma la sorpresa, per me ragazzo, non fu determinata dalle grandi pale presenti all’interno della Chiesa, né dalle interessantissime icone della Via Crucis, dipinte con grande amore, con una pittura dalle pennellate agili e fresche; la vera sorpresa, per me e per mio padre furono due quadretti che trovammo, pochi giorni dopo, esposti nel salotto di una casa privata: il viso di una giovane Madonna Addolorata e soprattutto il volto straziato dalla sofferenza di un Cristo giovane: il viso appena rivolto verso l’alto, la bocca dischiusa, il bulbo oculare dominato dal bianco, la corona di spine sul capo. Il quadro, stupendo, caravaggesco per la forza realistica, registra la sofferenza dell’Uomo, forse di tutti gli uomini, e ha le connotazioni di una preghiera modulata con i toni del colore. Nessun discorso fatto con le parole potrà mai trasmettere, far capire agli altri quello che può aver provato Gesù, condannato a morte e al pubblico ludibrio, ingiustamente, e ora affranto dal dolore.  
     Il canonico Spadaro sentiva fortemente il personaggio di Gesù Cristo, non tanto il suo messaggio evangelico, quanto la sua sofferenza, la sua ingiusta condanna e di riflesso la nostra colpa, indiretta, metafisica. E dipingeva il viso del Cristo, come prova documentale di un danno arrecato a un innocente:  quasi atto di accusa, documento di un patimento ingiusto, la cui colpa avrebbe potuto ricadere su tutti noi.
     Il ritratto di Gesù è, comunque, stilisticamente figlio della cultura ottocentesca, ma la realizzazione del soggetto umanizzato, che sposa romanticismo e realismo, ha una luce nuova che il nostro pittore mutua forse dal Tiziano, suo pittore preferito, ed è soggetto che prende le distanze dagli stereotipi, che solitamente caratterizzano la pittura sacra del xix sec.

 Modernità del canonico Spadaro 

     Modernità e grandezza del pittore non si evincono solo dalla opere sacre, che seguono modelli dettati da una tradizione plurisecolare, dai quali il canonico Spadaro, dato il suo ruolo sacerdotale e la sua indole, non avrebbe potuto mai discostarsi, e che dovevano rispondere alle aspettative della committenza, soprattutto, dei fedeli che sono i veri fruitori delle opere sacre.    
     La modernità di questo artista è nel suo farsi parte di una corrente pittorica italiana, quella di cui diremo più avanti, e si evince  dalle opere di piccole dimensioni con soggetti profani, quelli che il canonico Spadaro realizzava per diletto, e nei quali il nostro pittore non si sentiva vincolato agli obblighi della committenza.
     Era nei piccoli quadri, oltre che in certi ritratti (vedi quello della madre) che il pittore si libera, segue il suo sentire, la sua fantasia, la sua poetica, il suo modo di fare arte e di fare pittura. Ci riferiamo a soggetti dove domina la campagna, il mare, il paesaggio, dove senti la suggestione del verde dei prati, del cielo celeste, del giallo delle nostre estati bruciate dal sole. È in queste opere che il nostro pittore mette in pratica le tematiche legate al rapporto luce-percezione, così come suggerivano i più moderni orientamenti della pittura italiana e francese.
     Da queste opere (quelle di piccolo formato, si è detto) si evince che il canonico Spadaro era consapevolmente legato ai maestri italiani dei primi decenni del xx sec., e che avesse perfetta conoscenza della corrente pittorica che partendo da Giovanni Fattori e dai macchiaioli, transitava attraverso il divisionismo di Giovanni Segantini, il colorismo di Francesco Paolo Michetti,  sino alla pittura del romano Giulio Aristide Sartorio.[1]
     E sembra certo, così come qualcuno ha scritto, che verso il 1908, il canonico Spadaro abbia frequentato a Roma lo studio del Sartorio, e che da lui abbia potuto prendere lezioni di pittura.
     Tanto può essere affermato, se si guardano le opere del pittore romano, non per cercare una univocità di soggetti con le opere del nostro prete-pittore, ma per confrontare il modo di gestire la pennellata, l’uso degli impasti e gli accostamenti dei colori, che in entrambi tengono conto dello spettro luminoso rilevabile nell’arcobaleno, e soprattutto la volontà di rendere la pittura figlia della luce. Tanto insegnavano certi impressionisti francesi e certamente tutti i “coloristi” italiani.
     Lo scopo, per i pittori di cui abbiamo parlato era quello di accendere di luce il quadro. 
  
La pittura come messaggio di purezza spirituale

     Questa lezione del “colorismo naturalistico” italiano, il canonico Spadaro non la dimenticò mai. Difatti, se è vero che il San Giovanni Evangelista (1931) della Chiesa di S. Giovanni in Modica Alta è opera piena di un candore luminoso, è solo nelle opere profane e di piccolo formato che il nostro pittore, si è detto, entra di diritto a far parte della corrente dei “pittori della luce”.
     A questo secondo gruppo di opere, appartiene lo stupendo "Campo di papaveri" (coll. privata) dove è possibile rilevare tutto il candore spirituale di questo sacerdote-pittore dall’anima pura. Nel quadro senti l’aria cristallina della nostra campagna, la luce e le trasparenze proprie della Sicilia, e puoi ancora sentire il profumo della primavera che rinasce dopo il riposo invernale e si veste con fiori di mille colori. Ed è possibile cogliere ancora il silenzio della campagna modicana, che il canonico Spadaro riprende sotto l’aspetto bucolico e georgico insieme, non arcadico come qualcuno ha scritto.
     In queste opere,[2] vanno rilevati due aspetti: la scelta dei soggetti, diversi da quelli religiosi in senso lato, e la purezza che il nostro pittore ritrova nei bambini, nella campagna in fiore e nella luce di cristallo della nostra aria.
     Come le cose che descrive, anche i colori sono puliti, semplici negli impasti, capaci di esprimere la serenità del creato, soprattutto quella incontaminata e primigenia, che in primavera si ritrova nella natura, come nella fanciullezza ignara del peccato e del male che alberga negli uomini.
     Da un punto di vista pittorico, alcuni di questi quadri sono ripresi in controluce, in un coabitare di luci e ombre, vedi l’opera Pergolato nel giardino. Temi difficilissimi da realizzare per un pittore comune, ma che il canonico Spadaro sceglieva quasi per scommessa con se stesso, per misurare la sua abilità di pittore, per cimentarsi nel gioco di colori infiniti provocati dalle luci e dalle ombre.        
  
Le due direttive della pittura del canonico Spadaro
  
     Nella pittura del canonico Spadaro si rilevano, dunque, due direttive: la prima, orientata verso i soggetti sacri, quasi tutti destinati alle chiese, che comprende opere convenzionali, dove il nostro pittore tiene presente i principi “canonici” dettati dalla tradizione ecclesiale. In queste domina una iconografia riconosciuta che richiama i concetti di santità, tripudio, gloria, vittoria sul peccato.
     Nella seconda direttiva, profana e laica, domina la luce, la sanità (sinonimo di santità?) di una natura intesa come creatura di Dio, natura capace di sprigionare un vero, sublime, spirituale godimento dell’anima.
     Insomma, presenza di Dio nei Santi dipinti nelle chiese, e presenza di Dio nella purezza di una natura incontaminata: quella che spesso la vita non ci fa notare e che non riusciamo ad apprezzare.
     La vera pittura del canonico è da cercare in questa sua seconda anima, in questo suo modo francescano di intendere la vita, la religione, la pittura e la presenza del Creatore nel creato, nella sua luce, nei suoi colori, nella sua bellezza incontaminata.

La pittura italiana a cavallo fra il xix e il xx sec.

     Per capire la corrente pittorica cui appartiene il canonico Spadaro, dobbiamo andare indietro, alla seconda metà dell’Ottocento italiano, quando nel campo della pittura si sviluppa una grande rivoluzione.
     I pittori che da sempre avevano dipinto solo all’interno dei loro studi e di ambienti chiusi, scoprono la bellezza della natura e con essa la luce, che diventa elemento centrale dell’opera pittorica.         
     Il colore posto sulla tavolozza non è luce, lo diventa se si adottano particolari accorgimenti al momento di distenderlo sulla tela: con l’uso accorto di colori-fratelli, gli stessi che stanno gli uni accanto agli altri nello spettro di luce dell’arcobaleno.
      I pittori italiani (chiamiamoli tutti “Pittori della luce”, per comodità) e i pittori francesi della seconda metà dell’800 (Impressionisti) si conoscevano, ed entrambi vivevano la suggestione della nuova scoperta, con ciò realizzando una pittura più vicina a ciò che offriva la moderna scienza fotografica, il cui etimo parla proprio di (de-)scrittura (γραφία) con la luce (φως/φοτóς).  
     Giovanni Fattori, che era stato a Parigi, aveva visto i quadri di Edouard Manet e aveva visitato lo studio di Camille Corot, caposcuola riconosciuto degli impressionisti; Corot, a sua volta, aveva soggiornato più volte in Italia. Tutti erano consapevoli della importanza della luce solare, che fa cambiare colore alle cose a seconda della ore del giorno e delle stagioni; luce che si poteva cogliere meglio in campagna, dove i pittori si recavano per trovare nuova ispirazione e captare dal vivo le suggestioni percettive offerte dalla luce naturale.[3]    
     La pittura, dunque, non si fa più all’interno di uno studio, ma all’aperto, en plain air, a contatto con la natura, là dove tutto è coperto da una atmosfera che rende romantici paesaggi, marine e campagne.

Il successo del canonico Spadaro

     Nella Contea di Modica della prima metà del xx sec., il canonico Spadaro è personaggio molto isolato; ciò nondimeno fa parte della corrente pittorica di cui si è detto; ed è consapevole del ruolo e della funzione di quella pittura.
     Che di lui, come pittore, si siano interessati in pochi; che pochi abbiano preso in considerazione la sua pittura da un punto di vista critico; il fatto che il nostro pittore non ha avuto risonanza in campo nazionale; tutto questo è dovuto, in parte, alla sua modestia, al suo carattere schivo e umbratile e al suo bisogno di appartarsi. Chi vive ed opera in campagna, lontano dalla città e dai grandi centri culturali; chi non ama partecipare a mostre, cioè a mostrare le sue opere per farsi conoscere, è destinato a restare uno sconosciuto.
     Si aggiunga ancora che la nostra provincia, terra che è periferia d’Italia e d’Europa, nel passato non era in grado di rilevarne lo spessore; e si capisce perché solo oggi, a quasi centoventicinque anni dalla nascita, grazie alla intelligente iniziativa della dr.ssa Anna Malandrino e alla  sponsorizzazione del Liceo Classico Umberto I° di Ragusa, nella persona del suo Preside prof. Vincenzo Giannone, si è pensato di riconsiderare ruolo, funzione e grandezza di questo uomo solitario, che visse facendo a gara con se stesso per non farsi notare, mentre, in realtà, era al centro della attenzione di quanti, soprattutto pittori di provincia e collezionisti, gli riconoscevano i meriti di un talento e di una superiorità fuori di ogni discussione.

                                                            Gino Carbonaro

gino.carbonaro.italy@gmail.com











La famiglia Assenza-Spadaro.
Le prime lezioni di pittura che il canonico dà ai nipoti
Beppe e Enzo Assenza e


    Il canonico Spadaro era zio di Beppe, Enzo e Valente Assenza, i quali hanno sempre ricordato l’affettuoso legame avuto con lo zio canonico, che aveva acceso la loro passione per l’arte, educato la loro sensibilità, dando loro le prime importanti lezioni di pittura. I tre fratelli modicani diventarono poi pittori, scultori e ceramisti di fama nazionale e artisti non secondari nella storia dell’arte italiana del XX sec.
   Di Beppe Assenza (Modica,1905 - Dornach,1985), poi fondatore di una scuola di pittura molto conosciuta in Svizzera, il prof. Emanuele Minardo, biografo ufficiale del pittore, racconta: “Nell’atelier dello zio, il piccolo Giuseppe osservava i quadri con devota ammirazione: considerava quello studio un luogo sacro, e lo zio era per lui non solo il Maestro, che gli risvegliava la capacità di penetrare nell’arte, ma era anche la guida nella sua vita culturale. A quindici anni, Giuseppe lasciò la scuola e iniziò, presso lo zio una preparazione più rispondente ai suoi obiettivi artistici. Durante le lunghe passeggiate giornaliere, attraverso i boschetti di cipressi, sotto alberi di ulivi, mandorli e carrubi del paesaggio siciliano, lo zio teneva le sue lezioni. Il pio uomo, compenetrato degli ideali di umanità, esponeva le sue conoscenze di storia dell’arte e di storia sacra (…) A diciotto anni, lo zio gli consigliò di cercare stimoli nuovi andando fuori della Sicilia. (Emanuele Minardo, Beppe Assenza, Edi Argo, 2005) Beppe Assenza fu seguace dei principi teorizzati dal pittore tedesco Rudolf Steiner. Principi di Antroposofia che si rifacevano alla teoria del colore di Wolfgang Goethe, e che si ridefinivano in un rapporto particolare uomo-spirito-colore. Il colore era, insomma, il mezzo attraverso cui cogliere le varie emozioni dell’anima e i messaggi più profondi dell’essere, insomma la vera voce dello spirito umano. In questa sede, serve rilevare come Beppe Assenza abbia fatto proprie le istanze dello zio canonico: la intima fusione fra pittura e sacralità dello spirito. Lo zio, insomma, aveva dato il suo imprinting culturale, quello che lo stesso avrebbe potuto definire “Chrisma”.
   Enzo Assenza (Pozzallo 1913 - Roma 1983) ceramìsta e scultore, oltre che pittore, ha lasciato una Madonna in bronzo, presso la cattedrale di Manila (Filippine); la ciclopica interpretazione dell’Apocalisse in ceramica policroma di 12x30 metri della Cattedrale di Saint Joseph ad Hartford (Connecticut, Usa)); la decorazione absidale della Chiesa di Saint John ad Atlanta (Georgia, Usa); la stupenda statua di Santa Lucia, in legno dorato, della chiesa omonima di Buenos Ayres. [4]  
 

 











[1] Su Giulio Aristide Sartorio, che ebbe incarico di dipingere scene della Prima Guerra Mondiale in Parlamento, i giudizi della critica non sono positivi: lo si disse pittore “pomposo”. Ma forse il giudizio va riveduto.
[2] Fra le centinaia di opere che il canonico Spadaro ha dipinto nella sua lunga vita ricordiamo: In vacanza, Il cancello del villino, Maggio in fiore, Girotondo all’aria aperta, bambino con arance e, soprattutto “Pergolato nel giardino, tutte in collezioni private.   

[3] In questo periodo fu messo in atto il cavalletto mobile.
[4]   “Il padre era decoratore e lo zio, il famoso canonico Spadaro, era pittore. Ma fu nello studio dello zio che Enzo, Beppe e Valente fecero le loro prime esperienze artistiche, ed ebbero le loro vere lezioni di pittura”. ( Renato Civello, Valerio Mariani, Gino Carbonaro, Enzo Assenza,  Thomson, 1972).