Dalla cronaca alla letteratura
Nel maggio del 1976, a Catania, quattro ragazzi fra i dodici e i tredici anni scippano una anziana signora, che cadendo si frattura un braccio. Senza saperlo, i ragazzi hanno derubato la madre di un potente capomafia. L'affronto subito dalla "famiglia" è enorme. I ragazzi scompariranno nel nulla. Il libro ricostruisce quella storia di ordinaria follia. Salvatore Scalia crea un'opera di grande valore letterario.
In questo libro è favoloso l’impianto. Le chiavi di lettura. Tantissime. Qualcuno potrebbe pensare che il racconto procede secondo uno schema cinematografico, che ricorda la sceneggiatura: mosaico di specchi che insieme e lentamente fanno emergere la struttura dell’opera. Altri, potrebbero essere colpiti dalla qualità della scrittura, che procede forte, magmatica, ipnotica, tale da ricordare l’eruzione di un vulcano, che sino alla fine non perde mai la sua energia, il suo fascino, il suo mistero. Altri, ancora, un sociologo per esempio, potrebbe considerare il libro sotto il profilo sociologico, documento di una sottocultura di confine in una città della Sicilia, evento sociologico importantissimo. Uno psicologo, potrebbe rilevare nel racconto la bellezze delle analisi introspettive dei suoi protagonisti: vedi la dinamica dei bambini prigionieri nella stalla, vittime inconsapevole di una logica brutale. Uno storico potrebbe cercare di segnare l’impossibile confine fra cronaca e microstoria. Un giudice di tribunale, potrebbe rilevare come è di fatto impossibile applicare la giustizia senza le prove. Chi ama le cose belle potrebbe affermare, giustamente, di trovarsi davanti a un’opera d’arte nel senso più profondo della parola. Arte classica per l’equilibrio, la distanza, l’armonia con cui procede il racconto, dove la scena successiva e conseguenza logica della precedente, dove non registri mai uno stridore, uno iato fra il prima e il dopo, una caduta di tensione, un narcisismo.
Ma se in questa sede sono consentite le analogie e le classificazioni letterarie, a partire dal titolo, La Punizione , va riportata al novero delle tragedie, alla stregua di tutte le grandi opere che, dal passato ad oggi, sono state scritte e portate in scena per diventare esempio di riflessione all’umanità.
Ma quando la Úbris fiorisce, c’è l’accecamento (Áte) da cui si raccoglie larga messe di lacrime. Anche qui, gli uomini prendono parte al loro destino, ma non lo determinano. L’atmosfera del racconto è tragica, ad ogni passo che scorre, fluido lucido chiaro, come se di ogni cosa fosse possibile sapere tutto, mentre in realtà nessuno sa niente.
E anche qui, ne La punizione, è visibile il rapporto tra colpa e pena, e la necessità di conformarsi a una sorta di ordine cosmico.
L’azione degli uomini, determinata da una pulsione dettata dalle parti più oscure dell’Es, è sempre razionalizzata dai protagonisti. Ma, noi sappiamo che non è razionale. Così, tutto prosegue secondo una logica fatalistica che ripropone senza volerlo la Týche dei Greci, l’accaduto che accade perché deve accadere.
Ed è così che La punizione di Salvatore Scalia diventa opera grande: di filosofia, di sociologia, di politica, ma soprattutto opera d’arte e di pensiero, di cronaca e di storia. Protagonisti dell’opera? Tutti e nessuno. L’Autore? Non si vede. Non c’è. Lui non partecipa, non giudica. Lui riporta semplicemente i fatti, realizzando così il suo grande amore per la cronaca, per la scrittura, per la verità, per l’arte.
Gino Carbonaro
Ragusa, 26 aprile ’06
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