Gn-Jattu Níuru
di Umberto Migliorisi
Ho finito di leggere per la decima,
dodicesima volta il tuo libro Gn-jattu níuru di Umberto Migliorisi. Confesso. Sono rimasto colpito.
Prima ti conoscevo come persona, ma
dopo questa lettura (molto attenta) delle
sue poesie, bellissime, posso dire di conoscerlo anche come poeta, e soprattutto
come uomo.
In questo libro antologico è venuto fuori il
nucleo fondante della sua personalità, il suo modo di vedere il mondo, la sua
gerarchia di valori, in una parola, la sua filosofia della vita. Perché, è da
questi principi che discende la sua poetica, il “che cosa è la poesia per Umberto”. Poesia,
che per me è anti-poesia, perché lui, Umberto Migliorisi, è all’opposizione, sempre, ovunque, anche in letteratura. E non ama rinnegare se stesso, la sua cultura, il suo mondo, il suo passato. Neanche
quando scrive.
Il nostro Umberto non potrebbe mai essere fra quelli che
credono nella “scrittura poetica”, che
danno giudizi di valore misurati alla luce di iperboli e allitterazioni, assonanze
e consonanze, similitudini, metafore, metriche e enjambement, e chi più ne ha più ne metta. Figure retoriche che spesso rendono la poesia un fatto tecnico, e servono per valutare impasti versificati
di concetti qualche volta poco comprensibili anche agli addetti ai lavori. Versi che suonano, ma il più delle volte non
creano. Parole metrificate di poeti per
i quali arriva come un giustiziere l’autunno della vita, che li spazza via "come foglie morte" che a fine stagione
vengono disperse dal vento, e di cui nessuno si accorge. Su questi non vale la
penna aggiungere altro. E lui ne canta la dipartita in una poesia:
’A morti rê pueta assŭmiġğhia
â caruta rê pàmmini,
ca nuđdu si n’ađduna
…
pueta ammunziđdati,
pàmmini caruti, scurdati …
anfilati a siccari
a-mmienz’ê fuoġğhi
ri nu libbru ca feti,
prima ri sordi e-ppuoi
ri ciùmmu e-mmiricina.
Ed è tema che ritorna ancora in
un'altra poesia inedita, dove scrive che
Ri palori cci nn’è tanti,
ma se ’a testa l’hai
vacanti
puoi ’nzincari quantu
vuoi,
se nun-šu-ppalori tuoi
…
E ’u tă fuoġğhiu
arresta biancu:
şŧrippu, asciuttu,
senza sancu.
Analisi che è propria della poesia engagée, che fa male a chi legge, perché
scuote, fa svegliare, ti mette in linea, ti costringe a guardare dentro, ti
prende la coscienza e il tuo modo pigro, indolente, ipocrita, spesso disonesto
di vivere, fatto di compromessi che lordano l’anima, che ti fanno illudere di vedere
il bello dove c’è il falso, il luccichio, l’artificio lurido del danaro, che ti
fa stampare un libro che puzza di soldi, di piombo, di medicina. Sì! medicina,
quella che inghiottono i malati, per cercare di mettere un po’ di colorito sul
loro pallore esangue, per riacquistare la salute che non hanno.
Ma, è accusa che il Nostro non rivolge solo ai
poeti, né a quelli che cci appojunu ’u
riscursu c’ô ŧrasi e nêsci; la sua è
la denunzia di chi vede dall’alto la meccanica infame di questo mondo, la
spietata legge del più forte, al quale volenti o nolenti dobbiamo sotto-stare,
magari mettendoci ad angolo retto, per agevolare, oleare, il rapporto con il
potente.
Non si può accettare questo mondo di melma, questo
continuo inchinarsi, piegarsi di fronte alle leggi della realtà infame, ed è piega che a lungo si trasforma in piaga. Ed è rabbia che Migliorisi registra quando scrive..
Frati miu, cci su-bboti
Frati miu, cci su-bboti
quannu jittassi ’na ’uci
ca pirciassi ancucciati
çientu
auricci ażzariati
comu cożzi iapri,
ri vavaluci.
Lo
stesso mugugno del povero Giufà, ca nun
s’â putiennu piġğhiari c’ô sceccu, s’â piġğhiava c’â varda. Perché, tutto
il mondo conosce la “forza della forma”,
la vittoria del falso sul vero, dell’artificio sul naturale; difatti, forza
e forma sono per 4/5 uguali nella parola, e simili nella sostanza. Proprio questo
Migliorisi denunzia l’artificialità, la superficialità di un mondo alienato, dove non c’è spazio per il buon senso,
per qualsiasi forma di onestà.
Ora, il mio ricordo corre al quadrato di
terra dimenticato nella foresta di palazzi di periferia, dove
Sulu nta ’n-cantiđdu,
ammucciatu rarrieri ô
ma palazzu
şt’armali (che
bello!) si scurdařu n-matarazzu
r’erva e quaŧtro
macci:
’n-ċiesu, ’na carrua e
`đu’ ficu..
çientu metru quadrati
’n-tuttu
ri pararisu.
A sira quannu şcura,
’i `ġğhintuzzi nt’ê
`barcuna
Supra l’uortu faňu ’a
cruçi:
Paŧr’e fiġğhiu? Runni
vinni
Şt’arrifrişcu accussì
aruci?
o chi l’ancilu passau,
o ’u cimênto ’un-ci `bastau!?
Bellissime considerazioni espresse in una
poesia vera, incisiva. Ma, è mondo, il nostro, unni si rişparmia a caniġğhia e si sfraca ’a farina. Mondo dove
tutti corrono nella corsia di sorpasso, per essere i primi, gli assoluti, i
migliori, con i riflettori sempre su di loro, in primo piano: tutti colpiti da faraonìde tremens, lo stesso virus da
cui erano affetti i faraoni egizi, che amavano, beati loro, stare al vertice del
tutto.
E ogni mattina, queste formiche-giganti montano
sui loro "Fuoristrada", rifiutando di
procedere sulla strada dei comuni mortali, e non hanno tempo per accorgersi che
in una giornata di pioggia, schizzano fango sulla povera gente anonima, che ha
la dabbenaggine di prendere l’autobus o di tornare a casa a piedi. Şta ggenti - caro Umberto - nun virǔnu
a nuđdu.
Passa ’na machina,
nun-zi ferma.
Passa n’auŧra machina,
e nun-zi ferma.
Passa a nummiru çientu:
nun ci scropi, com’ô vientu!
’A çienteđdui: camina açiđdu.
S’â pinšassi e- `điçissi:
Passa tu, ca si a-pperi.
Ma quali cażzu, mancu ti viri.
Mondo folle, dove c’è spazio solo per questa
vita e - di riflesso - per una poesia
di pazzi, alienati, fatta di immagine, di note critiche avvallanti la grandezze
del poeta di turno, con il marchio che dà l’editore di moda, la carta pregiata,
avoriata, e il critico, che deve essere quello che va anch’esso di moda, che
possa fare da garante all’ignorante, che possa far vivere ciò che è nato morto,
e però continua a schizzare il fango della indifferenza sul povero poeta
appiedato.
Per questo dicevamo che la poesia di Migliorisi procede contro corrente, procede “di-verso”, cioè di "verso" contrario a come va il senso della moda e della odierna scrittura. Ma, io dico
che è poesia la sua, perché nutrita di verità, di bontà, di sincerità, di
sostanza; poesia che crea, fermentata dal nutrimento che viene dalla filosofia
dell’esistere, perché la dinamica del poeta-vero è la dinamica di chi ha capito
come va il mondo e lo documenta senza illusioni, senza falsi infingimenti,
senza inganni, senza comode ipocrisie: solo così il poeta è notaio della storia.
E la lingua? quella con la quale comunichi
le verità?
Hav’a ssiri ppi forza a linqua tinta,
…a lingua ri tŏ maŧri,
chiđda ca ti fa `çhiamari
ruffianu ’u `ruffianu,
e ’u cażzu, cażzu!
E dalla lingua si passa a un altro degli
elementi fondanti della tuo pensiero e della tua poesia: la morte lenta delle
cose più care: della lingua e degli esseri viventi. Ora è
Ta żzu Turi,
travaġğhiaturi,
ca si nni jiu
menŧri ’a musica sunava
’n-lamiemtu..
E, ar ognu passu ’n-ciuri,
e ’n-autru appriessu…
Dunque l’esclamazione! Che
racchiude un giudizio di valore.
Ah! comu si scippa
e ssi jetta şta vita!
Considerazioni amare, che riprendi
rievocando – ed è elegia - la morte
di una tua nipotina:
’A
prima fiġğhia ca nascìu a mma suoru
… ’na rosa, ’n-šuli, ’na luna
… na cosa ri piġğhialla a muzzucuna
… arma ’nnuccenti,
nun ċiatava quas’acciù!
E all’urtimera, nta đa facciuzza
`bianca comu ’a çira
`ci calaru all’ucciuzza ’i pinnilara.
Poesia stupenda, dove si trova quanto di più bello c’è nella vita: il rispetto per la bellezza di un fiore
che germoglia e subito muore, il silenzio che conforta la rassegnazione; la
preghiera, e la certezza che questa bambina, racchiusa in sé, come un bocciolo
di rosa, vivrà per sempre nel ricordo di chi l’ha amata.
Ed è sempre il tema della morte che si registra nella veglia a una donna estinta,
Abbiata supr’ô liettu,
’na şcatǔla vacanti, …
’n-perfettu nenti ri nenti;
’na morta
…
ca đuoppu tanta guerra
ora va-mmancia terra.
Amen!
E, ancora, il concetto di una
veglia che aspetta l’alba di un nuovo giorno e di una nuova vita;
Bògghia, curuzzu, súsiti,
fai n’autru sacrifiziu
’na para r’uri guòriti
r’è
vivi ştu suppliziu.
Principio, quello della morte e
della vita, che viene ripreso nella poesia Scampàu,
quando dopo la tempesta...
’a ġğhenti s’arricrìa,
accuminza a vicarìa.
Morte ed emarginazione dei
deboli è tema che ritorna in un’altra splendida lirica: quella che canta – ed è idillio elegiaco - la fine di una pianta
da appartamento, indifesa nella sua malattia, dimenticata nel suo vivere
prigioniera in un ambiente non suo, straniera in un mondo estraneo, strumento
di una società che la pone in un angolo di stanza per dimenticarla, e poi relegarla
in un angolo di balcone, all’acqua e ô vientu, nell’attesa di una morte naturale:
Nta ’n’agnuni ri ’na cámmira,
sa ppi-quali malađdia,
quarchi pammina pinnìa ..
quarchi rárica niscìa …
e ogni ġğhiuornu ca passava
’u żuccu cci abbuccava...
Ma, tinìa ancora a-đdritta,
nun-murìa.
E dalla descrizione al dialogo:
Maccia ca nun-muori e-suffrisci,
ca nun šienti, ma capisci…
nta ştu munnu mbarbarutu,
mişchinu cu è malatu...
Insensibilità di una umanità distratta, indifferente al dolore degli altri. Solitudine ontologica - mi si lasci usare il termine - e, infine, la morte.
Sono i concetti fondanti della filosofia della vita, e di riflesso, della poesia di Migliorisi. Ma, sono anche i concetti portanti - si è detto - della natura e dell’universo, rilevabili ancora in una
estate che finisce.
Senza
scrusciu né prummissu
- comu
’a vita, ’u ştissu -
Accurżarunu ’i
jurnati.
E
ştu suli ca ni çianci
’a ştissa
luçi ca lassa
eni
’a morti ca passa,
’a
morti râ ştati.
Bellissimo, verissimo. Ed è l’ombra della tragedia greca che aleggia su
di noi, e sulla questa poesia.
Si conferma così che la poesia non ha
confini, e non è legata alla moda, al consueto, al trito e al risaputo. Il poeta osserva il mondo, coglie il respiro delle cose, ausculta il suo animo, e scrive quello
che vorrebbe dire, anzi, gridare al mondo. E denunzia con pacata amarezza e rassegnazione,
quello che va denunziato: la superficialità e la insensibilità degli uomini, le
assurdità della vita, la ipocrisia, la falsa amicizia (simu amiçi… rô barconi) e gli
egoismi, le convenzioni, le vanità, le ingiustizie (i cacarinari) la fatuità dei sogni e delle speranze; in una parola
il mondo per quello che è, e non come lo sognano i poeti dell’Arcadia.
Se questa è poesia, è certamente - ritorno al concetto -una anti-lirica. Se la lirica classica è
fatta di eleganti consonanze di parole scelte nel vocabolario del lessico
pulito ed elegante, quello dei professori e dei poeti con la “P” maiuscola, dei
perbenisti, dei formalisti, Migliorisi usa la lingua dei poveri, mai abbellita, mai
assonante; la sua è la lingua perdente, morente; la lingua che non interessa
nessuno, che nessuno ha più il tempo di ascoltare o di parlare; quella
che stiamo dimenticando anche se di tanto in tanto andiamo a visitarla nel
cimitero dei ricordi e dalla quale tutti, prendiamo elegantemente le distanze. Vedi,
anche io rifiuto di scrivere nella mia lingua. Forse perché ci ricorda il
nostro passato di fame, di miseria e di freddo, forse perché ci è comodo stare
con i più, con i forti; forse perché anche la lingua è soggetta al principio
della nascita e della morte, costretta a soccombere nel confronto con i forti e
bisogna accettarne la fine.
Queste sono solo alcune delle considerazioni,
che discendono dalla lettura del libro. Perché, questa sua lingua siciliana è recupero
della essenza, e rifiuto della forma facile, caramellata e ben confezionata della lingua italiana. Il siciliano, è per Migliorisi uno strumento antico, forte, molto
spesso sgraziato, che però è un tutt'uno con la carne, la materia e la vita di
chi nei secoli ha conosciuto la sofferenza e la vicarìa della sopravvivenza. Il siciliano come lingua è per Umberto Migliorisi come
il pane di grano duro, forte ai denti e al gusto, sano e nutriente. Ma è pane
che non conosce la concorrenza, che non si è mai incontrato nel forno con pane che conosce ammorbidenti e
conservanti.
In questa forma e nell’uso di questa lingua c’è il rifiuto della grazia, della eleganza e della raffinatezza, dimostrando con ciò che Migliorisi è
quello che è, senza orpelli, né ori falsi.
Il suo punto di vista? Non si vende a
nessuno. Compromessi con la poesia colta? Impensabili. Temi poetici surrogati? Non
se ne parla. Migliorisi fotografa, descrive e blocca il suo mondo. La sua poesia? E' un
dialogo-monologante fatto con un interlocutore invisibile e assente, perché, è
veramente l’assenza, l’essenza maligna di tutte le cose: il nulla che è tutto.
Ora, il dilemma si fa cornuto: il mondo è quello che Migliorisi descrivi; ed è imperativo categorico che chi legge deve recepire, perché in
caso contrario, o sî ttu ca sî n’àutru, o
sî tu ca fai finta! E se sei un altro, scusami. Ma, se fai finta, sei
ipocrita.
Ora mi si potrebbe chiedere, qual è la poesia che mi piace?
Risposta: Salì-Salò!
Đa rubata ri lattuchi…
đu mulinu ca furriava…
đ’acqua limpia ri surgiva…
đi papaređdi ca
sbattieunu l’ali,
đi lavanneri che cosci i fora…
đu quarcunu ca taliava..
e.. ssa minava!
đu stuzzuniari i cula e laurunci…
Tuttu nta ’na salata ri scola! Sono
immagini immortali di un documento di storia minore, ma eterna, che descrive i
fatti e pure il profumo dell’aria e dell’anima di ragazzi di periferia: storia vera
e dalla bellezza indescrivibile; vita che nella trasgressione di un giorno
conosce la libertà, il contatto con la natura e con la verità.
Cosa penso di te, mio caro Umberto? Tu mi
fai pensare a Raffaele Poidomani e al suo Carrube
e Cavalieri. Quando lo lessi, cinquant’anni fa - avevo poco più di quindici anni - dissi a me stesso: questo libro
è un capolavoro, questo Poidomani è un grande scrittore. Consèntimi. L’uomo del
Fuori-strada, troppo impegnato a
guardarsi allo specchio e a farsi guardare, non ha avuto ancora il tempo per
accorgersi della sua esistenza, e ora della tua esistenza: non ti fa passare. Tu
vai a piedi. È lui, forse, che potrebbe farti morire come `đa maccia ri `billimientu. Tu,
come Raffaele Poidomani, hai dato un contributo vero, sano alla cultura. Hai
raccontato una parte di noi, della tua Ragusa, della nostra Sicilia. Un poeta
che si aggiunge al numero dei grandi, anche se saremo in pochi a darti il
giusto e meritato riconoscimento: un Premio
Vann’Antò, perlomeno, perché solo lì qualcunoo si fa ancora carico di leggere
poesie nella lingua tinta.
Ma
tu, caro Umberto, devi essere felice, perché da oggi, il tuo libro è anche nello
scaffale speciale della mia biblioteca, proprio accanto ai libri che mi stanno
più a cuore.
Anche io, mi tengo alla larga da tutto, e
cerco di non attraversare la strada per non farmi investire. Per questo, isolato
nel mio eremo di campagna posso parlare alle cornacchie e dire (N-parmu sutta ’a luna) ca ’u
pani si chiama pani e ’u cażzu nun si chiama peni, pirchì...
’I peni sunu sulu chiđdi
ri şta vita bbuttana”
Con stima vera, sincera, ammirato e felice
per te.
Gino Carbonaro
gino.carbonaro.italy@gmail.com