Sergio Givone scrive "Metafisica della Peste" Eunaudi, pp. XVIII, 206,
€ 22,00
Salvatore Scalia lo recensisce sul quodidiano "La Sicilia con questo titolo
Fuoco, forca e oro
Fuoco, forca e oro
i rimedi siciliani
contro la pestilenza
Ignis, furca, aurum sunt medicina mali. Questa la formula sintetica ed efficace del medico Giovan
Filippo Ingrassia, nato a Regalbuto nel 1510 e morto a Palermo nel 1580, per affrontare la peste
che flagellava la Sicilia nel 1576. Ne scrisse un trattato "Informatione del pestifero et contagioso
morbo il quale affligge et have afflitto questa città di Palermo et molte altre città e terre di questo
Regno". "L'oro per le spese, - commenta il grande storico Carlo Cipolla nel libro "Contro un nemico
invisibile" (Il Mulino 1985) - la forca per punire chi violava le disposizioni sanitarie e spaventava gli
altri, il fuoco per eliminare gli oggetti infetti."
Per il protomedico la pestilenza era un fatto pratico: occorreva evitare il propagarsi del contagio,
isolare le vittime, purificare tutto ciò che era stato a contatto con esse, e, soprattutto, evitare il
caos sociale, le isterie e il diffondersi di psicosi di massa.
Anche riguardo agli oggetti non tutti erano ritenuti ricettacolo della pestilenza ma si distingueva
tra vetro e metalli, che ne erano immuni, e piume, pellicce, lane, coperte, stracci. "Le idee - dice
Cipolla - erano vaghe e non confortate da sperimentazione, ma non erano assurde. Noi sappiamo
che la peste bubbonica è trasmessa dalle pulci, e stoffe, pellicce, piume e tappeti offrono più
facile ricetto alle pulci che altre merci. La razionalizzazione del fenomeno da parte degli uomini del
tempo era ingenua, ma alla base stava un'osservazione attenta dei fatti."
Il risultato fu che a Venezia la peste causò sessantamila morti e a Palermo tremila.
Fatte le debite proporzioni, la stessa asimmetria si verificò tra Modica e Scicli, città separate
da tredici chilometri, per la peste del 1626, nella prima agì lo spirito pratico e le vittime furono
contenute, nella seconda la popolazione fu decimata.
Sulla peste a Modica ha scritto nel 1966 un saggio, acuto e brillante, lo scrittore Raffaele
Poidomani (1912-1979). Due sono i protagonisti principali di quella battaglia contro l'infuriare del
morbo: il governatore e capitano d'armi Paulo La Ristia, l'uomo che aveva bonificato il sito dove
sorse Vittoria, e il medico Pietro Manardo. L'uno ebbe polso fermo e prontezza di decisioni, l'altro
si sacrificò con abnegazione e sprezzo del pericolo.
Invece di almanaccare sulle cause della peste, punizione divina o congiunzione astrale, la prima
cosa a cui si pensò fu di procurarsi il denaro e le derrate alimentari per far fronte all'emergenza.
"Al primo insorgere del male - scrive Raffaele Poidomani - viene emanato un ordine perché, stante le pene
stabilite in calce ai contravventori, si ottenga una somma da pagarsi dagli abbienti, garantita sotto
forma di prestito forzoso, oltre ad una sufficiente quantità di grano per vitto di poveri, estratto
sempre dai magazzini dei ricchi con lo stesso sbrigativo mezzo."
I quartieri poveri dove maggiore infuria il morbo vengono sigillati, le case sbarrate, si ordina
di non mangiare pane o altro cibo toccato da animali e in particolare dai topi. Si organizza
l'approvvigionamento dell'acqua e la purificazione dei luoghi contaminati. Tutto vien posto sotto
ferreo controllo, sia l'uscita dei contadini per lavorare in campagna, sia gli spostamenti degli
animali domestici.
Questo pragmatismo contrasta con le proprietà curative che si attribuivano alle pietre preziose
e con i micidiali intrugli che prescrivevano fino al Settecento medici di fama. Poidomani ne dà la
composizione e poi commenta: "Ciò è ancora in uso quando già da oltre un secolo l'Ingrassia aveva
usato l'isolamento, la purgazione, la pulizia del corpo e i lavaggi con aceto e stabilito che i liquidi
che si potevano bere erano vino, aceto e sidro, cioè i fermentati alcolici."
Nel 1894 il medico svizzero Alexandre Yersin e il giapponese Shibasaburo Kitasato isolarono il
bacillo che da millenni aveva seminato la morte. La peste sembrava fosse divenuta dominio della
scienza, una questione di batteri, contagio e vaccini. La punizione divina, già esclusa da Tucidide
nella descrizione della peste di Atene del 430 avanti Cristo e più tardi da Lucrezio nel "De Rerum
Natura", sembrava definitivamente relegata alla superstizione. Eppure il perché della peste ha
continuato ad inquietare le coscienze: è una domanda che risuona in un vuoto apparentemente
senza risonanze, in un vuoto che crea angoscia e richiede risposte metafisiche. Interrogarsi sulla
peste, che è natura e allo stesso tempo flagello, significa porsi il problema del male, dell'origine
della colpa e del destino dell'uomo.
E' questo il filo conduttore del libro di Sergio Givone "Metafisica della peste" (Einaudi , pp. XVIII -
206, € 22,00). Il filosofo ci conduce sull'orlo dell'abisso e ci costringe a scrutarne il fondo invisibile.
E ci pare d'udire una risonanza lontana, un'eco debolissima, che forse è un'incrinatura, quella stessa
che si manifesta come esigenza metafisica persino nel materialismo epicureo di Lucrezio: se esiste
la peste è perché c'è una colpa nella natura, "tam praedita culpa."
La pestilenza è sconvolgimento sociale e morale, corrode i corpi e la mente, ci riporta allo stato
primordiale, il figlio dimentica i genitori, padre e madre dimenticano i figli, si scatena la lussuria,
si perde il pudore, s'intorbidano i sensi, si vede ciò che non c'è e non si vede ciò che è evidente.
Esemplare il saggio di Manzoni "Storia della colonna infame."
Attraverso gli scritti di Boccaccio, Berni, Defoe, Manzoni, Leopardi, Camus, Artaud, Givone
riflette sugli effetti della peste e sulla sua essenza. Il morbo è divenuto sinonimo della corruzione
del cuore e dell'anima, s'insinua prima nelle parole e poi invade tutto il corpo sociale, come ha
dimostrato Victor Klemperer a proposito del nazismo; secondo Givone è metafora persino di un
mondo tornato primordiale, con pochi superstiti inselvatichiti, perché devastato da un'immane
catastrofe nucleare come nel romanzo "The road" di Cormac McCarthy (2006). La peste dunque
ci fa regredire, ci rivela la fragilità umana e il nostro nulla, e le domande che ci poniamo sono solo
quasi più di niente.
Ciao Turi,
Il saggio sulla Peste?
Mi ha fatto sentire male.
Mi ha fatto riflettere.
Pensare o non pensare?
Su tante cose.
Mi dato emozioni. Forti.
Il saggio di Raffaele Poidomani (La peste a Modica nel 1926) è bello perché dimostra
che l'Avvocato era sostanzialmente uno storico
che frugava archivi di Stato per scovare la realtà,
e costruire affreschi di vita dai frammenti recuperati
e a volte anche trafugati (eufemismo per rubati!).
Per il resto Poidomani era ariostesco,
per il modo con cui si relazionava con l'umanità.
Ma, il tocco fondamentale, la ciliegina sulla torta è rappresentata dal libro di Givone.
Una saldatura vera fra realtà e pensiero che non scioglie i dilemmi della vita.
Questo uno dei ruoli della Filosofia in questo spazio di tempo.
Se la filosofia vuole trovare una strada, un senso, un ruolo nelle sue ricerche.
Questo saggio affonda il bisturi su questo bubbone della realtà. Sul senso delle cose delle quali non si riesce a cogliere il senso.
Ma, la forza del tuo saggio sul Libro di Givone, è nella sintesi, e nel montaggio, delle parti. Da regista che coordina per offrire concetti e visioni. E' un tema, quello della peste (o del colera) che potresti approfondire.
(Se tu capita leggi il mio saggio su Giuseppe Carbonaro, protomedico dei Borboni). Quello delle malattie endemiche è tema non sufficientemente approfondito, ma è tema centrale dell'esistere.
Bello il riferimento a Tucidide (una pennellata!). Bello il riferimento a Camus, e agli altri.
Tu?
Tu hai scritto un capolavoro. Di giornalismo nuovo, serio, pensato, aderente alla realtà.
Di giornalismo, ho detto? M'è sfuggito. Tu non sei stato mai un giornalista, dentro di te.
Il tuo è stato giornalismo per vivere di giornalismo.
(L'hai già scritto tu).
Tu non sei "un" giornalista. Tu sei un Uomo.. che scrive.
Un Uomo che osserva, scruta, fruga con discrezione, cautela, saggezza e cerca (soprattutto) di non farsi vedere,
(malgrado la stazza..) e poi? Poi scrive.
Tu sei un Maestro. Questo sei.
E in questo saggio? Sei lo stesso "tu" (Tu..ri Scalia) che ha scritto "La Punizione". Quasi lo stesso taglio, quasi la stessa attenzione e volontà di penetrazione.
La differenza fra Givone e te?
Givone parlerà apertamente di Male, di problemi umani e dell'Uomo per cercare di capire perché noi uomini non conosciamo i nostri simili.
L'uomo che non conosce l'uomo?
Cioè se stesso.
Paradosso.
Tu, ne la Punizione non ti lasci invischiare.
Non dai giudizi. Non condanni. Non ti chiedi.
Non ti pronunci. L'ho detto! Tu, non ci sei.
Tu sei uno storico, forse anche filosofo che si nasconde
e usa ovviamente la scrittura per comunicare..
Infine (sto tornando all'articolo), bellissima la chiusura".
Grazie.
Per avermi inviato questo articolo.
Un abbraccio
Gino
P.S. Ora una cortesia.
Perché non mi mandi (quando vuoi o puoi) quello che scrivi (o che hai scritto).
Questo perché quello che scrivi è dono che nutre lo spirito?
Fa riflettere. Conforta le nostre giornate.
P.P.S. Su tema attinente (a Peste e Streghe) potresti/dovresti sfogliare (tempo permettendo)
un'opera eccezionale, titolata "Forza e Superstizione" di Carlo Lea, 1909.
Opera fondamentale della cultura di tutti i tempi.
Enrico Carlo Lea non era italiano, ma canadese, e l'opera
scritta in inglese, fu tradotta (e forse pubblicata "solo" in italiano) da manoscritto fornito all'epoca dall'autore.
Gino Carbonaro