L’ALTRA FACCIA DELLA STORIA
saggio introduttivo
al diario di
Emanuele Di Stefano
Ricordi dalla Grande Guerra
di Gino Carbonaro
Prima di leggere questo diario di guerra di Emanuele Di Stefano bisogna rimuovere dalla mente il luogo comune che si considera degna di essere letta solo la storia scritta da storici di professione.
In questa “Storia”, che è considerata con la “S” maiuscola, la garanzia di verità sarebbe data dai verbali ufficiali depositati negli archivi di Stato. Storia ufficiale, dunque, solitamente sterilizzata e ripulita di ogni fatto che possa recare danno all’immagine dei governanti di turno.
Ma è storia fredda oltre che falsa. Gli storici che di solito non hanno partecipato agli eventi, e che ritengono di giudicare all’insegna della obiettività, non riescono quasi mai a dissimilare il loro interesse di parte, ora per il vincitore ora per il vinto. Eppure sono questi i notai della storia, autorizzati a registrare le memorie ufficiali, in genere memorie lecite coperte di belletto, come le fotografie di matrimonio da far vedere in seguito agli altri, ai figli e nipoti, e che fissano per sempre momenti unici e diversi.
Ma, da quando è stata scoperta la scrittura, è stata questa la Storia di cui si è servito il potere dominante per far conoscere agli altri il proprio punto di vista e consegnare ai posteri le sue verità.
Uno storico del passato ricordava che le piramidi d’Egitto sono state costruite da centinaio di migliaia di uomini resi schiavi, che morivano a grappoli in bagni di sangue, sotto i colpi della frusta e della malnutrizione. A rigor di logica, la gloria avrebbe dovuto essere anche di loro. Ma nessuno ha trovato mai il tempo far valere i loro diritti, di scrivere una storia dal loro punto di vista.
Ed è proprio questo il limite delle “macrostorie”. Chi guarda una foresta dalla cima di una montagna, osserva il panorama che dice della bellezza della natura, della grandezza degli eventi, ma non entra all’interno delle cose, non dice delle lotte che si combattono all’interno della foresta; perché la vita che si vive nella giungla è fatta ance di miserie che fanno storia, ma di cui spesso si evita di parlare.
Questa storia “globale” non verbalizza angosce e patimenti di chi in guerra rischia la vita e vive nel terrore continuo di poter morire, e non sa, ad ogni giorno che spunta, se quello sarà l’ultimo. Per la storia di archivio sono importanti solo il dato e la statistica: quanti morti, quanti feriti, chi ha vinto, chi ha perso, come è stata modificata la carta geografica. Il resto non fa testo e perciò non viene tenuto in alcuna considerazione.
E’ cosi che lentamente, in ognuno di noi si ingenera la falsa opinione che una historia minor scritta da un milite ignoto, debba essere di scarso o di poco interesse. Invece non è così.
In attesa di ordini nella trincea
Il diario di guerra scritto da Emanuele Di Stefano è una piccola miniera di informazioni che stimola la curiosità del lettore, e che comunque documenta notizie che la storia ufficiale ignora. Il punto di vista dell’osservatore non è la cima, l’alto che domina, ma il basso che si insinua e registra cose minime, relative alla estenuante vita del soldato per il quale si impongono solo doveri, ma al quale non è dato reclamare diritti: soldato che di giorno lavora come una bestia, e di notte è sottoposto ad estenuanti turni di vigilanza, a corvées improbe e prolungate, che “fiaccavano il fisico e l’animo più dei pericoli della guerra”. E mette a verbale il comportamento di un tenente “che si lasciava guidare sempre da istinti belluini e sferzava indiscriminatamente i soldati “ e “in un momento d’ira ne accecava uno”.
E ancora sono messi in risalto i soprusi e le angherie che “erano diventati la nota caratteristica del 26°”, e il sadismo perpetrato a danno degli inferiori da parte dei superiori, che si sviluppava in una lotta interna, fratricida, “belluinamente crudele”, che esasperava gli animi a tal punto da “costringere un ufficiale disperato a porre fine ai suoi giorni con un colpo di pistola”.
Noi concordiamo con l’autore che ogni guerra impone le sue vittime e che gli uomini dovrebbero lasciarsi guidare dalla ragione, ma facciamo fatica a credere che sul fronte di guerra un generale che non crede alle giustificazioni di un ufficiale, possa ordinarne la fucilazione sul campo.
La descrizione della esecuzione di un disertore è splendida nella sua essenzialità: “Fu trascinato a fondo valle dov’era scavata una fossa. L’eco della fucileria rintronò cupamente nella valle. L’infelice folgorato si accasciò al suolo. Tra i soldati serpeggiò un fremito”. Telegrafico come un dispaccio di guerra, il diario registra tutto, ma sconosce la denunzia, rilevando tuttavia dal basso, da un punto di vista diverso da quello ufficiale, errori dello Stato maggiore ed orrori della guerra.
Miserie umane, ma anche fede incondizionata dello scrittore nella legittimità di una guerra combattuta per il riscatto dell’unità azionale: nobiltà d’animo di un giovane che crede nei valori, e parla di “ubbidienza, senso del dovere, lealtà, generosità, abnegazione, coraggio, onore, spirito di sacrificio, gloria”, e “della necessità di non dover deludere le aspettative della nazione” e di non infangare il buon nome della famiglia macchiandosi di reati infamanti. Altri tempi. Altri uomini. Altra cultura.
Ma nel diario c’è altro, anche note di costumi: ad esempio il riferimento alla sconcia consuetudine di un sottotenente che durante i pasti “si frugava sotto le ascelle e schiacciava sul tovagliolo i pidocchi che riusciva a catturare”.
Ed è ancora descritta la baracca-dormitorio, che di notte assumeva l’aspetto di un “covo di animali”: “i soldati che giacevano nelle posizioni più sconvenienti emanavano un fetore che dava le vertigini… quelli che stavano sulle cuccette superiori si agitavano continuamente e lasciavano cadere su quelli che stavano di sotto fango e pidocchi… L’aria appestata da odori nauseanti era irrespirabile”.
E non mancano neppure le note umoristiche, come la descrizione di un incidente accaduto ad un inesperto ufficiale: al ritorno da un servizio di pattuglia, preso dal panico a causa di un presunto attacco nemico, grida ai suoi soldati: “Si salvi chi può!”, e nella fretta di mettersi in salvo, scivola in una latrina del reparto ed è costretto nel cuore della notte a farsi un bagno nell’acqua gelida del fiume Iudrio.
Dunque, cronaca imbevuta di storia, raccontata con una prosa chiara, essenziale, immediata, come quella di un inviato speciale sul fronte di guerra.
Documento, ma anche bellezza di una prosa funzionale, aderente ai fatti narrati, assolutamente priva di narcisismo, sconosciuta al dannunzianesimo di moda. Prosa che pure riesce a ritagliarsi qualche spazio di poesia. Il racconto è difatti rallentato di continuo da brevissime considerazioni sul tempo atmosferico e sulle bellezze della natura, che in questo diario diventa la grande madre di tutti gli esseri viventi. Lo scrittore annota che “nel risveglio primaverile tutto era bello. Le gemme dei faggi assumevano toni cangianti di verde, l’erba dei prati splendeva di riflessi opalini, i fiori di biancospino profumavano l’aria del mattino. Bella e affascinante ritornava la vita”. E ancora: “Riprese a piovere con la violenza di un uragano. Gli avvallamenti e i contrafforti nereggiavano di pini, di faggi, di castagni”. Descrizioni funzionali al racconto che certamente non sono frutto di letture accademiche.
Questo ed altre cose dice il diario di Emanuele Di Stefano, che ci riporta indietro di ottant’anni, facendoci sentire l’eco di un tempo e di un mondo che non c’è più. La descrizione agile ed essenziale, propria della produzione diaristica, invita alla lettura, avvince e coinvolge. Il racconto sa di disegno, guache, fotografia, e sposa la storia alla letteratura, il documento all’arte, il costume alla psicologia. Se la guerra è un catalizzatore dei sentimenti umani, è qui nella guerra che affiorano altruismo e generosità, debolezze e ingiustizie, sadismo e miserie umane.
Fra memoria che è labile e tempo che travolge ogni cosa, il diario cattura l’attimo fuggente per consegnarlo alla storia. Ma la forza di questo diario sta soprattutto nella rivendicazione di un diritto: quello di affermare un punto di vista diverso, all’insegna della verità e della onestà morale e intellettuale.
Certamente, qualcuno potrebbe riaprire l’annosa questione che pone la differenza fra cronaca e storia, e che vede il diario come sfogo dell’anima, mezzo di conforto e di comunione con cui lo scrittore parla a se stesso, momento necessario per comprendere meglio gli eventi e dimostrare che esistono altre verità, altri punti di vista diversi da quelli ufficiali. Ed è vero. Al diario che principio è segreto, si affidano sfoghi dell’animo, considerazioni su i dubbi, sul senso della vita, sul perché delle cose. Il diario potrebbe non essere obiettivo, ma è certamente vero.
Onestamente, non serve catalogarne le funzioni. Serve solo stabilire se vale la pena di leggerlo. Per me, vale.
Gino Carbonaro