Salvatore Fratantonio
Testimonianza inedita
di un periodo romano
Un incontro fortuito
Ho conosciuto Salvatore Frantantonio a Roma, nei primi degli anni Sessanta. Eravamo poco più che ventenni: lui pittore, io studente universitario.
L’occasione del nostro incontro era stata casuale. Durante le vacanze di Natale, poco prima di partire per Roma, la madre di Salvatore mi chiese di portare un pacchetto al figlio che si trovava nella capitale. Era consuetudine a quei tempi mandare un “presente” ai parenti, quando si veniva a sapere che un conoscente si metteva in viaggio.
Tornato a Roma, gli telefonai. Salvatore non era in casa, ma la signora che rispose al telefono mi disse che sarebbe rientrato in serata. Colsi l’occasione, e mi recai in Via delle Fontanelle, al numero che mi fu detto. Fui ricevuto proprio da Salvatore, che non conoscevo ancora. Mi accolse in una sala da pranzo piccolissima, compressa da mobili antichi e scuri. Gli consegnai il pacchetto che lui non aprì. Fuori era già buio e sul tavolo quadrato pendeva una lampada di pochi watt che metteva angoscia. Io ero imbarazzato. Ritengo lo fosse anche Salvatore. Fortunatamente, la conversazione scivolò sulla pittura, anche perché sul tavolo c’erano dei fogli di carta da disegno schizzati. Parlammo del più e del meno. Fra le altre cose mi disse che era a Roma perché riteneva che l’ambiente romano avrebbe potuto offrirgli gli stimoli necessari per la sua crescita culturale e artistica. Mi confessò ancora che era senza lavoro, e la padrona di casa voleva sfrattarlo.
Dalla confessione capii che questo giovane era terribilmente solo con i suoi problemi, e che non poteva far conto sui suoi genitori, sicuramente non ricchi, e comunque non in grado di aiutarlo economicamente. Infine mi colpì non poco, che questo ragazzo non metteva assolutamente in conto di ritornare a Modica.
Tenacia, caparbietà, incoscienza? Forse, consapevolezza delle sue forze, e capacità di fare progetti a lunghissimo termine, fidando solo su se stesso. Questo, in un giovane poco più che ventenne.
Con una punta di amarezza, quasi senso di colpa, capii di essere fortunato; dietro di me, sentivo la presenza dei miei genitori con la loro forza economica. Prima di quella sera, non avevo mai pensato che potessero esistere personalità così determinate come quella di Salvatore Fratantonio. Mi convinsi che questo giovane apparteneva ad un’altra categoria di persone: improtette ma libere, e principalmente forti, perché capaci di cavalcare avversità e incertezze della vita, e soprattutto, capaci di realizzare se stessi fidando solo su se stessi, senza fare affidamento su altri.
Nei suoi confronti, mi sentii come un uccello in gabbia, che qualcuno riforniva amorevolmente di acqua e mangime in abbondanza, con l’unico compito di cantare; e mi resi convinto che se i miei genitori non avessero messo cibo nel mio recinto dorato, non sarei stato capace di sopravvivere.
Questo è il “la” di quel mio primo incontro con Salvatore Frantantonio. Il resto sarà solo conferma di quanto avevo intuito.
Da quella discussione uscii pensieroso, e soprattutto arricchito. Certamente non potevo immaginare che negli anni a venire quel giovane provinciale, solitario e parco di parole, avrebbe potuto costruirsi una carriera di pittore e, con essa, un nome.
Intanto, la serata si era messa male: ventosa, fredda, con raffiche di pioggia a intermittenza. Erano i primi di un gennaio, che preannunziava uno degli inverni più rigidi di quegli anni.
In via della Frezza
Qualche settimana dopo, a sorpresa, Salvatore venne a trovarmi in Via della Frezza n. 62. Mi disse che non aveva dove andare. La padrona di casa, che lui soprannominerà “l’Arpìa”, perché lo tormentava con pressanti richieste del dovuto, lo aveva chiuso fuori di casa e non voleva dargli le valigie.
Non mi chiese prestito di denaro, solo di poter essere alloggiato nella casa, che io avevo appena preso in affitto, sempre in via della Frezza, al n. 65, ma non avevo cominciato ancora ad abitare.
Si trattava di un vecchio appartamento, certamente medievale, di una decina di stanze, disabitato da decenni: muri rotti e finestre mancanti, sporco da non dirsi, privo di corrente elettrica. Ma per noi, quella dimensione da bohèmienne, era sinonimo di libertà, e ci stava benissimo. Salvatore la soprannominò subito “la casa degli spiriti”, una pennellata che coglieva l’anima del tutto. E non aveva torto, se si pensa che in seguito passammo più di una settimana muovendoci di sera alla tenue luce di una candela, che spesso si spegneva a causa degli spifferi.
Le freddi correnti d’aria e le porte che sbattevano, là dove c’erano, facevano da cornice a quell’inverno terribile. Prendemmo il coraggio a due mani e decidemmo di trasferirci subito in quella spettrale e indimenticabile topaia. Acquistammo scope e sacchi di plastica per dare una ripulita a un paio di stanze, io scelsi la prima, Salvatore scelse quella che si trovava alla fine di un lunghissimo e buio corridoio, e come ci fu detto in seguito poggiava sopra lo studio romano dello scultore Canova; ma, la sera calò presto e ci adagiammo su due reti senza materasso per passare quella notte lunga e fredda. La mattina dopo eravamo entrambi anchilosati, infreddoliti e frastornati. Dall’unico rubinetto che c’era in cucina, usciva un filo di acqua gelata.
Il giorno dopo, telefonai a un mio compagno di università. Gli chiesi se conosceva qualcuno che potesse dare un lavoro al mio amico acquisito. La risposta non si fece attendere. Con gioia e sorpresa ci fu detto che una ditta di Frascati cercava un pittore-imbianchino. Ci fu dato l’indirizzo. Salvatore accettò il lavoro serenamente, confortato dal fatto che, se non altro, avrebbe continuato a usare pennelli e colori.
Da allora la nostra vita trascorse quasi di routine. Lui partiva al mattino presto, mentre io dormivo, e tornava nel pomeriggio inoltrato, quasi sempre al buio. Io restavo sui libri tutto il giorno, e l’aspettavo con ansia, perché al suo ritorno era obiettivo concordato da entrambi visitare le gallerie d’arte del centro per tenerci informati sulle novità.
Via della Frezza era nel cuore della Roma antica, fra via di Ripetta e via del Corso; fra Piazza Augusto imperatore e via Canova; a due passi da piazza di Spagna, da Piazza del Popolo, via del Babbuino, via Margutta, dalla Barcaccia, da Trinità dei Monti; tutte strade e luoghi pieni di vita, di storia e di arte, dove era possibile aggiornarsi su quello che offriva il mercato della pittura.
Percorrendo le strade fra una galleria e un’altra, le nostre conversazioni vertevano su quanto avevamo visto quella sera. Poi lentamente, nei nostri discorsi entrarono di diritto concetti di estetica: cosa è l’arte? Cosa bisognava intendere per contenuto e cosa era la forma? Se l’arte era solo forma? Se c’era un rapporto fra pittura e musica? Se di necessità la pittura doveva imitare la natura, oppure no? Qual era la differenza fra arte rinascimentale e arte orientale? E così via.
Forse, allora, non ne avevamo coscienza, ma la nostra era una scuola peripatetica in senso vero. Conversazioni creative, dove poco o nulla era attinto dai libri, e alle quali Salvatore partecipava con una attenzione incredibile e con osservazioni acutissime. Non perdeva nulla, registrava tutto e richiamava gli argomenti per approfondirli, anche dopo settimane.
Lentamente, il nostro piccolo sodalizio di visitatori accaniti di mostre e musei si allargò, e all’appuntamento serale si aggiunsero altri giovani pittori come Marco Kamm, oggi architetto e pittore romano, Lino Tardìa, Beppe Guzzi, Salvatore Provino e, in seguito, anche il prof. Rodolfo Cristina, che aveva chiesto di abitare con noi in via della Frezza.
Pittori del dopoguerra
Cristina era un maestro nella accezione classica del termine. Conoscitore della storia dell’arte, materia che insegnava a scuola; restauratore di quadri antichi; pittore forte, che aveva un solo limite: quello di dipingere cedendo non di rado a modelli allotri: dal francese Cézanne a Carrà, da Ardengo Soffici a Rosai, De Pisis, Sironi. Per il resto realizzava opere interessanti, che dimostravano anche la sua capacità creativa.
Alla nostra crescita culturale, servirono i suoi contributi, i suoi apprezzamenti, le sue sottili analisi critiche ed estetiche, soprattutto quando spiegava dal suo punto di vista le opere che ci trovavamo davanti. Particolare attenzione veniva rivolta a De Chirico, che all’epoca abitava un attico prospiciente la scalinata di trinità dei Monti ed esponeva alla “Barcaccia”, dai fratelli Russo; ma c’erano ancora le opere di Alberto Trevisan, Eliano Fantuzzi, Tomea, Omiccioli, Monachesi, Mafai, Morandi, Rosai; e lo stesso Guttuso, Ennio Calabria e Piero Guccione che esponevano alla “Nuova Pesa”.
Situazione originale - questo scambio di impressioni e di contributi culturali - che ci diede la insperata possibilità di vivere proprio sul campo una esperienza di arte, di critica e di pittura di altissimo rilievo. Personalmente devo molto a quegli incontri, a quelle discussioni, spesso accanite, se in seguito alcuni di noi presero le distanze da chi si dichiarava nemico di tutti gli astrattismi. Ma, è chiaro che quelle conversazioni servirono non solo a me, ma anche a Salvatore Fratantonio, se solo si guarda il percorso pittorico dallo stesso raggiunto in seguito, e se si pensa che, al di là di questi incontri, Salvatore, fortemente caricato, restava tutto il tempo chiuso nella sua stanza a dipingere sino a notte fonda, rubando ore preziose al sonno.
Il ristorante “Da Peppino”, in via dei Greci
Ma, nella mia memoria restano altri episodi di quegli anni. Le cene conviviali “Da Peppino” in via dei Greci, dove ci si ritrovava ancora insieme tutte le sere poco prima di mezzanotte. Lì, in quello storico ritrovo letteralmente tappezzato di quadri, era possibile incontrare tutti i giovani artisti che facevano capo a via Margutta. Lì, Salvatore era il pittore prediletto dal proprietario e dalla signora Maria. Erano sempre loro che chiudevano un occhio quando il giovane pittore non poteva pagare la cena, e furono loro i primi acquirenti dei suoi quadri, per non dire che Peppino lasciava spesso, sbadatamente, il pacchetto di sigarette sul tavolo, accanto al piatto di spaghetti di Salvatore.
Ora, il ristorante “Da Peppino” in via dei Greci, non c’è più. Peppino e la sua felliniana signora se ne sono andati; ma, non c’è più neanche il palazzo di via della Frezza 65, così come è scritto nella nostra memoria. I proprietari lo hanno completamente restaurato e ristrutturato, cambiandone la destinazione d’uso.
Simbolismo metafisico
A questo periodo risale la prima mostra di Salvatore al quarto piano di via del Babbuino, nella Galleria di una nobile signora siciliana amante dell’arte e dei bei giovani. Quella sera arrivammo puntuali e solidali tutti gli amici. Presente anche il professor Renato Civello, modicano. Ma a quella prima vennero anche Eliano Fantuzzi, altro sponsor di Salvatore, e il vecchio Omiccioli, che a quei piani alti arrivò col sopraffiato.
Presente a quella “Prima” fu pure il critico Franco Mieli, che aveva presentato il catalogo e che alla inaugurazione fissò dei concetti fondamentali dell’arte di Salvatore; la definì pittura che prendendo le mosse dal realismo romano risolve il tutto in una sorta di “simbolismo metafisico”. Delle sue opere – così disse - lo colpivano le atmosfere surreali, all’interno delle quali si libravano figure e soggetti densi di significato. Lo colpivano ancora il silenzio, il senso dell’infinito e la solitudine ontologica dei suoi paesaggi, sempre calati in una atmosfera di sogno. L’arte – disse ancora Franco Mieli - rimanda certamente a significati che il pittore suggerisce e che il fruitore deve percepire. Senza queste premesse, non c’è creazione, e ogni forma artistica è vuota. A quelle parole il pensiero di qualcuno tornò alle opere di Trevisan, il surrealista per eccellenza di questo periodo romano, mentre qualcun altro rivide la lezione di De Chirico. Oggi, a distanza di tanti anni, tornando alle opere di Fratantonio ritengo che il famoso critico romano avesse colto nel segno. Forse avrebbe dovuto aggiungere il concetto di forza che tiene in tensione l’arte di Salvatore. Il carrubo che resiste alle intemperie di una terra ingrata ne è il simbolo.
Ma, quella sera, la sorpresa fu un’altra: la presenza di Peppino e della signora Maria, vestiti da cerimonia e felici di essere presenti. Non venivano da lontano. Via dei Greci era a poco più di cento metri. Ma la loro presenza sostituiva magnificamente quella dei nostri genitori. Ed era commovente.
Poi, qualcuno andò fuori e tornò con qualche bottiglia di spumante. Brindammo felici, all’arte, alla nostra giovinezza, alla fortuna, all’amicizia, al nostro futuro.
Quella vita romana durò qualche anno. Poi, dopo la laurea, io tornai a Modica, Salvatore dopo altre mostre, si trasferì a Milano. Da allora non ci siamo più incontrati se non nel ricordo di una esperienza comune e di una stima profonda e reciproca.
Gino Carbonaro
Ragusa, luglio 2005