2019/03/19

L'ora di Rosolini di Raffaele Poidomani Piccolo Teatro




Una sera a Teatro
L’ora di Rosolini 
il regista Marcello Sarta
e il suo staff

                                                                      di Gino Carbonaro




Caro Marcello, ieri 14 marzo 2019, sono sceso a Modica per assistere alla vostra pièce teatrale “L’ora di Rosolini" di Raffaele Poidomani. Ero curioso. Volevo capire come saresti riuscito a impostare uno dei racconti più interessanti del nostro scrittore modicano. In verità conoscevo te come regista sin da quando avevi interpretato “Il biscotto”, sempre di Raffaele Poidomani, presso il Teatro Donnafugata a Ibla, ed ero rimasto colpito, incantato, sensitivamente emozionato. Anche allora era applicata la tela per le figure oniriche. Tutto mi sembrava un sogno. La tristezza dell’uomo schiacciato dalla povertà e dalla solitudine trasmetteva emozioni profonde. Già allora ero in grado di dire che se Raffaele Poidomani era grande, tu, con la tua interpretazione, non eri da meno. Poidomani usava il linguaggio delle parole, tu adoperi il linguaggio vivo e misterioso  del Teatro.
Quello spettacolo è stato per me, una delle rappresentazioni più belle alle quali ho assistito nella mia vita. E tu, hai mostrato le tue potenzialità, la tua capacità di regista, la tua consapevolezza e scrupolosità nel gestire quest’arte antica quanto il mondo, ma anche la tua modestia. Per questo, ho voluto assistere al matrimonio della Zia Maria. Ero veramente curioso di vedere come te la saresti cavata con quest’altro racconto.


    Mi ero appena seduto in platea, quando è stato dato inizio allo spettacolo. Da subito la sorpresa. In anteprima, un uomo in frack con cilindro e guanti bianchi apre lo spettacolo spiegando al pubblico la trama e qualcos’altro. Primo intervento (a sorpresa) della nostra Fatima seduta proprio  davanti a me. Dialogo vivo e gridato fra chi è sulla scena e chi sta in mezzo al pubblico. Certo, si sa. Sono cose che in Teatro vengono previste ma... , la dinamica è stata in continuazione. Eccezionale. Nessuno avrebbe potuto annoiarsi. La pièce era un crescendo di sorprese che sollecitavano e coinvolgevano il pubblico. Eravamo nel centro della comicità del nostro Poidomani. Un diluvio di risate, di applausi. E poi luci, movimenti di personaggi e di marchingegni, che muovevano altri personaggi, tela cinese delle ombre, figure oniriche in costante azione, musica, e ancora luci e dolci intermezzi musicali, cantati, gestiti teatralmente da una bravissima (ed è poco) musicista, chitarrista e cantante d'eccezione (Annamaria Cerruto), immersa totalmente nel ruolo di co-protagonista, dalla voce fresca, sicura, libera e gioiosa che incantava il pubblico. Ma, ci si chiede,  c’era una protagonista? La zia Maria? (cioè, Fatima Palazzolo). Certo, Fatima c'era, sempre splendida, sempre eccezionale. ma... io dico che eravate tutti protagonisti. Felici di recitare, felici di vivere quella esperienza bellissima che sa dare solo il Teatro. Ognuno di Voi ha dato il massimo del contributo. Tutti eravate parti indispensabili dell’intero lavoro teatrale. Favoloso il cav. Formica di Rosolini (Daniele Cannata) e “la madre”, (Giorgio Di Martino) protagonisti che entrano attraversando la Platea, fra un pubblico sorpreso e delirante. Figura originale (la madre), che imitava con eccezionale maestria il movimento delle persone che viaggiavano sui carri, perché con carro o calesse ci si muoveva una volta, su strade bianche, non asfaltate e piene di buche. E le due cameriere? (Assunta Adamo e Graziana Giurdanella) dal ruolo non secondario, che non può essere sottovalutato. Il tutto calato in una atmosfera grottesca, così come avrebbe auspicato lo stesso Raffaele Poidomani. Impressionanti la nonna (sempre Graziana Giurdanella) e il nonno (Massimo Barone) che è entrato in scena con la nonna "a cavallo" sulle sue spalle. Esilarante!
Ma, non dobbiamo dimenticare nessuno. Soprattutto il ruolo importantissimo delle figure oniriche (Giovanni Occhipinti), luci, costumi, scenografia, ambientazioni sceniche, intermezzi funzionali. Tutto incredibilmente bello. Tutto superlativo. Tutto eccezionale. E il finale? Come si può festeggiare un matrimonio da soli? Il pubblico, la gente, tu, io, noi tutti, modicani e non, tutti devono gioire, partecipare, brindare "fuori dal Teatro", per strada, tutti sui gradini davanti al Teatro Garibaldi, dove, dall'alto del Cs. Umberto il pubblico vedrà arrivare un'auto d'epoca che porta i novelli felici sposi, per partecipare tutti alla "spinnagghiata". Ed è sui gradini del Teatro Garibaldi dove si trovano accalcati gli spettatori che è accaduto l'incredibile: tutti, ci siamo trasformati in invitati e tutti abbiamo potuto assaggiare le "'mpanatiglie ", i migliori dolci della Superpremiata Ditta Bonajuto. Cosicché anche Franco Ruta, è stato con noi, nel ricordo, nella memoria di Raffaele Poidomani, l'avvocato, lo scrittore, l'Autore di "Carrube e Cavalieri" e "Tempo di Scirocco", il modicano, 'U Pazzu. Che pazzo non era.. Tanto faceva parte della trasposizione teatrale. Perché tu sai che il Teatro è vita, e la vita? È teatro. Un po' di Carnevale non guasta. Il merito? A Raffaele Poidomani e alla Compagnia del Piccolo Teatro di Modica. Congratulazioni e buon divertimento. La vita è breve e bisogna goderla. Un bel regalo è stato fatto a Modica e ai Modicani con la vostra interpretazione.
Grazie anche da parte mia. I miei applausi continuano anche sul mio blog.


Marcello, tu sei stato bravo, non solo per aver vestito il racconto, ma per avere entusiasmato il tuo staff. Un corpo unico favoloso, una commedia indimenticabile. Non si possono realizzare questi capolavori da soli. Ma solo quando un gruppo diventa un corpo unico.
E io? Io ho speso solo 10 euro per trascorrere due ore d'incanto. Di spettacolo meraviglioso. Bravi a tutti e Auguri. Siete un gruppo teatrale poderoso. Compagnia del "Piccolo-Grande Teatro"!  Ancora Auguri! da...

Gino Carbonaro         


2019/03/18

Cecchi Gessaroli poetessa & Grafico

Il poster di Vivarte in margine a 

“Stagioni”
di Silvia Cecchi

interventi grafici 
di Oliviero Gessaroli 


   

     Ho ricevuto solo oggi, l’atteso tuo libretto, “Stagioni”. Gli ho dato subito uno sguardo curioso e intuisco che si tratta di un lavoro impegnato, nella accezione classica che al sostantivo “impegno” dà l’esistenzialismo contemporaneo. Ma, ho capito anche che non si tratta di poesie da leggere, ma da centellinare. Questo perché ogni concetto, ogni passaggio, spesso legato alla poesia ermetica, costringe il lettore a meditare, a riflettere sui messaggi che tu, da poetessa, proponi. Se è vero, poi che in tutto ciò che si scrive si riflette la nostra personalità, il nostro rapporto con la realtà, la nostra filosofia dell’esistere, va detto che a me interessa cogliere questo contenuto della tua poesia, e mi sono accorto in appresso che tu non fai eccezione alla regola. 

    Alla lettura di queste poesie, dense di contenuti forti, colpisce la incisività graffiante dei concetti, delle parole, la volontà decisa di cogliere il messaggio delle cose, ma altresì l’equilibrio e la dolcezza di una forma che coinvolge il lettore, poesia che nutre e invita a meditare. Scriveva Catone, “Per nebulas scimus”, siamo circondati da una nebbia profonda, centrando un principio del nostro rapporto con uomini e cose. Di tutto cerchiamo spiegazioni, per comprendere il senso del nostro esistere, del nostro cammino in questo mondo. Capire per progettare. Ma la tua poesia rileva la impossibilità di cogliere il tutto calato nello spazio e nel tempo. Difatti, in apertura scrivi. ”Che vuoi che me ne faccia dell’eterno” dell’immenso, della trascendenza. A te, cara Silvia, basta cogliere l’attimo, il frammento, l’effimero, che contiene il tutto. Noi siamo esseri “…gettati in questo mondo” La scogliera del Monte San Bartolo, acquerello e matita, 2018. 1 Gino Carbonaro febbraio 2019 di Silvia Cecchi E siamo al centro della problematica esistenziale. Questa è la percezione della realtà, quella che accetti, ed è filosofia che sostiene il tuo pensiero, che tu intendi come “Vox” che indaga nel deserto nebuloso che ci circonda. E della realtà? Possiamo conoscere solo quello che riusciamo a cogliere in un flash di momenti che si impongono la nostra attenzione. Ed è allora che la conoscenza si trasforma in estatico godimento dei sensi, conoscenza che non può essere trasmessa con le parole, perché “…io so le cose fin dove arriva il nome” Noi possiamo chiamare le cose per nome, come tu scrivi, ma in questo caso, la conoscenza ha il peso, la lunghezza e lo spessore delle parole usate. Il resto è nebbia (o il Nulla) che circonda la realtà visibile. Paradossalmente, è solo lo sguardo che coglie “quell’effimero sognare da sveglia” l’attimo fuggente, che accende una luce perché “Tutto si perde, anche la luce di bosco sospesa sulle foglie anche il filo d’aria tesa da ramo a ramo” Ed è indagine sensitiva del pensiero, che viene colto in momenti eccezionali. Il banale che si fa sublime “... quando un merlo mi ha distratta, sul ramo di maruga tutto spini e fiori saporiti ad ogni maggio che torna davanti alla finestra aperta.” ... e ti fa perdere la cognizione del tempo, e ti fa sognare, godere, capire, forse, e non sai più dire “se sia passata un’ora, o giorni, e quante volte è sfiorita la robinia e rifiorita.” Ed è esperienza forte il sentire “il gorgogliare del torrente gli stridi alti delle tàccole e dei falchi, il vento che rugghia […]Si perdono i nomi Fontefredda Rivosasso Gretosecco e più cammini più si fa lontano il ruvighìo di vite in fondovalle.” Il tramonto, acquerello e penna, 2017. 2 E in tutto, la forma di una realtà che senti vivere in te, e non resta altro che una consapevolezza, “l’ignota meraviglia di essere stata” Ed è chiusura che non poco fa riflettere sul senso di questa poesia intrisa di filosofia. 

 Ragusa 7 febbraio 2019 

 Gino Carbonaro 

P.S. Ho parlato della poesia di Silvia Cecchi, ma non mi sono soffermato a fare i miei complimenti ai bellissimi disegni del pittore Oliviero Gessaroli, opere che impreziosiscono il delizioso libretto. "Disegni", è scritto (con lodevole understatement) che interpretano l'atmosfera del libretto, ma che vivono nella sua forma figurativa con uguale forza e dignità, una bellezza unica, quella che poteva essere realizzata solo da un artista che sa cosa è la pittura, quale è la funzione dei colori, come si gestiscono i rapporti tonali, come si può cogliere e bloccare il senso del bello all'interno di uno spazio. Ancora i miei più vivi complimenti. La scogliera, acquerello e penna, 2017. 3 Collina marchigiana, penna, 2019. 

      Il poster di Vivarte raccoglie riflessioni, recensioni e commenti sulle opere presentate dalla rivista Vivarte. Questa prima edizione contiene una lettera di Gino Carbonaro indirizzata a Silvia Cecchi con considerazioni sull’opera di poesia STAGIONI pubblicata nei Quaderni di Vivarte - Urbino 2018 e interventi grafici sul paesaggio pesarese di Oliviero Gessaroli. Associazione culturale “L’Arte in Arte” - Urbino 4

2019/03/14

HILDEGARD VON BINGEN



Santa, ma donna

HILDEGARD VON BINGEN


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Il lato femminile
della religione

                                                           di Gino Carbonaro

    Monaca. Tedesca. Scrittrice. Fondatrice di conventi. Vissuta nel XII sec.. Hildegard von Bingen (1098-1179), decima figlia di Mechtilde e Hildebert von Vendersheim, chiusa in convento quando aveva solo otto anni, passa alla storia come musicista, e subito dopo come scrittrice, predicatrice, e primo medico omeopata. Di fatto, è colei che nel 1141 (167 anni prima di Dante Alighieri) scrive “Sci Vias”, un trattato dal contenuto filosofico-teologico, il cui fine era quello di intimorire la umanità traviata, facendo conoscere in anticipo ai peccatori le sofferenze che avrebbero subito nell’aldilà.     

    Atto dovuto? Mettere a confronto l’Inferno di Dante con “Sci Vias” (Conosci la via della salvezza). In questa sua opera,  immaginando una visione infernale, Hildegard scrive:

“Mi ritrovai in un luogo arido, immerso nell’oscurità, zeppo di insetti parassiti./ Qui, venivano punite le anime di coloro che in vita non avevano avuto rispetto della legge di Dio./ Spiriti maligni le spingevano di qua e di là con fruste di fuoco gridando:/ “Sciagurati .. perché avete trasgredito la legge dell’Altissimo?”

Ed è scrittura potente, che richiama quei passi dell’Inferno dantesco che recitano:   

“Questi sciaurati, che mai non fuor vivi/ erano ignudi, stimolati molto/ da mosconi e da vespe ch’eran ivi (...)/ Elle rigavan lor di sangue il volto/ che mischiato di lagrime, a’ lor piedi/ da fastidiosi vermi era ricolto”.

    Dal confronto, fra la scrittrice tedesca e il poeta italiano, si potrebbe ipotizzare che Dante abbia potuto conoscere il lavoro della nostra monaca. Opera scritta in latino. Lingua ufficiale del tempo. Ed è paragone che ha un valore storico a tutto vantaggio di Hildegard von Bingen.


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                                                            Hildegard in preghiera

    Ma, la fama di questa Donna poliedrica, è giunta a noi soprattutto come musicista. Enfant prodige. Genio. Sin da piccola oblata nel convento di Disibodenberg, nei pressi di Wiesbaden, la quale gioiva nell’ingentilire le preghiere, salmodiate all’unisono (secondo il dettato dei canti gregoriani, recto tono), modificandole con dolci melismi. Musica di Dio fu definita al suo tempo, per la bellezza con cui la preghiera veniva offerta all’Altissimo.

    E, si tratta di composizioni che rappresentano la prima forma di evoluzione musicale, e anticipano di secoli il canto polifonico di Claudio Monteverdi. E, non va dimenticato che si tratta della prima donna (forse la sola a tutt’oggi) compositrice nella storia della grande musica europea.


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                                                     Hildegard von Bingen (1097-1179)

   Dopo il bene dell’anima e dello spirito, Hildegard rivolge la sua attenzione al mondo fisico, allo studio della Natura, pubblicando la prima storica “Enciclopedia del Sapere Universale” (Phisica, aut Liber simplicis medicinae), dove vengono inventariate 230 erbe “officinalis”, ma anche alberi, animali, serpenti, vermi, pesci dei fiumi e dei mari, uccelli, pietre, e quant’altro.

   Ma, la si ricorda ancora come donna-guaritrice-omeopata, dunque medico e dietologa. E, nella descrizione delle funzioni del corpo umano è proprio lei, monaca e donna, che parla del sesso, sostenendo che “l’uomo non deve avere soltanto desideri che si rivolgono al cielo, ma anche di appagare le necessità della carne”,  affermando altresì, in pieno medioevo, che il sesso è delizia.


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    Ecco come descrive la sessualità femminile nel Codice (da lei miniato) “Causae et curae”:

“Quando la donna fa l’amore con un uomo, sentendo nel cervello un senso di calore che porta alla gioia dei sensi, trasmette il piacere di quella delizia (sic!) durante l’atto, e stimola l’emissione del seme dell’uomo. E quando il seme è caduto nel suo “luogo naturale”,  quell’impetuoso calore discende dal cervello della donna, e attira il seme e lo trattiene. E presto, gli organi sessuali della donna si contraggono, e tutte le parti che sono pronte ad aprirsi durante il periodo mestruale, adesso si chiudono, nello stesso modo in cui un uomo forte può tenere qualcosa in pugno”.

    Dietro questa descrizione della sessualità femminile, c’è una libertà mentale sconosciuta nel Medioevo (e nei tempi a venire). Libertà di una Donna che è stata capace di leggere il corpo umano in modo nuovo, senza timore di tabù  e senza soggiacere a quei pregiudizi che ingessavano la cultura del tempo. La forma mentis è quella di un medico/a, distaccata osservatrice dei fenomeni umani, descrizione (quella della sessualità femminile) che qualcuno considerò “una pagina di storia contemporanea scritta da una monaca nel XII sec”. Affermazione vera, che invita a riflettere.


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    Ma, la Chiesa? Ci si chiede?
Ai suoi tempi, Hildegard von Bingen fu protetta dal Papa Eugenio III (1145-1153) che nell’opera “Sci vias”, rilevò la strada possibile per una rigenerazione morale della Chiesa del tempo, allora minata dalla corruzione (simonia, nepotismo e quant’altro). Dopo la sua morte, però, sui suoi lavori fu calata la coltre del silenzio. Di fatto, molti originali delle sue opere non esistono più.

    Solo da due decenni, Hildegard  è stata ufficialmente riesumata da due papi stranieri. Nel 1998  (800/imo anniversario della morte) papa Giovanni Paolo II la ricorda con l’appellativo di “Sibilla del Reno”, in riferimento al fatto che dopo i 70 anni Hildegard scelse di predicare, e, sul modello di Gesù, denunziò pubblicamente la corruzione dei prelati e della società del tempo nelle prediche che tenne in affollatissime Chiese di città renane. E l’attacco è socio-politico. Quello di una Donna dalla personalità potente.

    E finalmente, il 7 ottobre 2012, Benedetto XVI, il papa tedesco Ratzinger, la proclama Santa e Dottore della Chiesa Universale. Riconoscimento ufficiale che giunge dopo 921 anni dalla nascita della grande badessa tedesca.


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   Ma, va ancora ricordato che,  nella esortazione apostolica, “Amoris Laetitia”, pubblicata l’8 aprile 2016, papa Francesco comunica urbis et orbis che il sesso è una meraviglioso dono di Dio (!). E, sconfessando il passato della Chiesa fa sapere che il sesso è un dono per gli sposi, non un peccato consentito.

    Il confronto corre immediato a Hildegard von Bingen, che nel suo “Causae et curae”, parlando del diritto-dovere al rapporto sessuale, aveva già affermato che amore-e-sesso sono espressione di armonia divina, e perciò creati da Dio, e non sono frutto di peccato.   

    E siamo arrivati al punto!?

C’è voluto circa un millennio, perché un Pontefice, massimo esponente della cultura cattolica, potesse esternare un concetto che era stato già proclamato da una Donna, monaca, genio al femminile, che nel pieno della oscurità medievale, aveva avuto una mente così luminosa da anticipare nove secoli prima, il pensiero della Chiesa.

Ed era solo una Donna! Si è detto.
Il suo nome? Hildegard von Bingen.      
        
                                                       Gino Carbonaro

Articolo Pubblicato

 Sul quotidiano "La Sicilia"
pagina culturale
13 marzo 2019