Apertura
Senza il movimento di liberazione della donna non avremmo
capito che esisteva un problema della donna. Noi uomini eravamo abituati a
pensare che la donna doveva stare in casa per cucinare, rifare letti, lavare
biancheria, fare figli e curarli, ed era quella che era obbligata a indossare
il grembiule quando andava a scuola (se mai fosse andata a scuola).
Eravamo abituati a pensare che l’uomo era più
(+) e la donna era meno (-) ed eravamo convinti che agli uomini certi privilegi
spettassero di diritto.
La società corteggiava il maschio, e noi,
i maschi, ci lasciavamo corteggiare, e a chi, come il sottoscritto, era nato in
epoca fascista, arrivavano come musica le parole della madre che si beava
ripetendo: “Io, quando sei nato tu, figlio mio, ho avuto mille lire da
Mussolini, perché tu eri “’u figghiu màsculu!”
Nessuno si chiedeva che solo per i
maschi, non per le donne, era obbligatorio il servizio di leva per 18 mesi, e
se capitava, era obbligo andare in guerra, e magari conoscere la morte. Ma,
accettavamo tutto, perché quelli erano i “doveri” del maschio, quella la
cultura del tempo, quando i ruoli erano ben definiti: l’uomo fuori a lavorare,
per portare in casa il necessario per vivere, per la moglie e i figli, che
avrebbero potuto essere tanti quanti erano gli anni di matrimonio, dal momento
che non erano stati ancora scoperti i contraccettivi, e la donna in casa, a
tessere, filare, lavare, fare il pane, allattare, badare alla nidiata di figli
che spesso si ammalavano a turno. E tutto questo, la donna era costretta a fare
anche se incinta e appesantita dalle continue gravidanze che le collassavano
l’utero e la facevano invecchiare anzitempo.
Lo schema familiare “maschio in pubblico
(fuori)-donna in privato (in casa)” fa parte della storia dell’umanità. Il
volere della Natura che aveva assegnato alla donna il compito di riprodurre la
specie, aveva nel corso dei millenni fissato ruolo e cliché da cui non era più
riuscita a liberarsi.
La percezione negativa della donna, risale
anch’essa alla notte dei tempi. Basti vedere come erano considerate le donne
nella Grecia classica, leggere alcuni passi del Vecchio Testamento, vedere come
la Chiesa cattolica ha perseguitato la donna durante il lungo periodo
dell’Inquisizione, e quale è a tutt’oggi la condizione della donna nel mondo
musulmano e in alcuni stati dell’India, per capire che la storia cambia solo
per restare la stessa. La dominanza, ancora oggi, è sempre del maschio. Il suo
volere detta legge.
Così, sebbene dopo il ’68 il problema
della donna sia esploso in maniera eclatante, cionondimeno pare non sia ancora
possibile abbassare la guardia, e molta strada dobbiamo ancora fare (gli
uomini) per liberare le nostre menti da millenari pregiudizi
cultural-razziali.
La storia della donna è stata sempre
teoria di silenzi, storia senza echi che si è quasi sempre svolta all’interno
di quattro mura, harem o gineceo, perimetro chiuso, di cui qualcuno, bontà sua,
sosteneva che la donna era regina, con ampia libertà di muoversi a suo piacimento
alla stregua delle galline ovaiole in gabbia, la cui funzione è strettamente
riproduttiva.
Donna. A cui il maschio passava del cibo.
Spesso l’indispensabile per tenerla in vita. Un “do ut des”. Io ti do da
mangiare, tu mi servi. Tu sarai la sovrintendente della mia casa e farai figli
all’interno di questo spazio, dove starai reclusa. Conoscerai solo me come
padrone e guardiano. E,“Guai a te se!..” una intimidazione.
In realtà, fino a meno di un secolo fa, in
quasi tutto il mondo occidentale, il matrimonio di una donna si riduceva a un
trasferimento da una famiglia a un’altra. Operazione di transfert, che era
preceduta da una tenace contrattazione economica tra le famiglie interessate. E
dopo gli accordi, finalmente, la cessione in comodato d’uso ad altro uomo, che
aveva potere di vita, e spesso anche di morte, sulla donna.
Abbiamo detto “comodato d’uso” perché,
com’è scritto nel Vecchio Testamento e nel Corano, il maschio che acquista (conquista?)
una donna, potrà rimandarla al precedente proprietario (al padre-padrone),
quando e come vuole, comunicando la sua decisione su un foglio di carta
definito “libello del ripudio”, ripetendole per tre volte di seguito: “Va’ via,
va’ via, vattene!” Era una sorta di prodotto usa e getta, la donna, considerata
di poco al di sopra di una schiava, che spesso era elevata al ruolo di
concubina.
Ed è storia giunta fin quasi ai nostri
giorni. Basti ricordare fra le tante donne, la poetessa Mariannina Coffa di
Noto (1841-1878), ceduta (in matrimonio) a un ricco possidente ragusano.
Consegnata a un uomo che lei non conosceva e che non imparerà mai ad
amare. Ci è sfuggito il verbo “amare”, ma fino a poco tempo fa il lievito
dell’amore come ingrediente del matrimonio era un “optional” che nessuno
metteva in conto.
In ogni caso, quella della donna resta
sempre storia del suo rapporto con il maschio dominante.
Ricca o povera che fosse la donna, si
tratta sempre di storia a una sola dimensione, storia i cui tentativi di
sfociare in qualcosa di un diverso-e-migliore sono votati allo scacco.
Se
ne deduce che la donna del passato non ha avuto altra storia se non quella che
per lei ha scritto il maschio. Scopriremo che alla donna era proibito parlare
davanti ad estranei, meno che mai parlare in pubblico, e, ancora meno, era
concesso studiare per imparare a leggere e scrivere. La donna - ed era legge
antica, confermata dalla autorevole voce di Paolo di Tarso - non doveva
parlare, e di lei “non-si-doveva-parlare”. In ogni caso, era poco più di un
oggetto vivente. E, per capire sino a che punto gli uomini sono stati a dir
poco crudeli nei confronti della donna, riportiamo due episodi attribuiti a due
geni del passato. Il primo riferito a Socrate (469-399 a.C.), l’altro ad Einstein (1879-1955).
Condannato a morte, poche ore prima di
bere la cicuta, Socrate seduto al centro della cella, discuteva di filosofia
con alcuni dei suoi discepoli. C’era Fedone, Kritone, Antìstene, Eskine,
Ktesippo, e altri ancora. Mancava Platone perché stava, così si racconta, poco
bene. Socrate dissertava della vita e della morte, disquisiva sul bene e sul
male, parlava dell’anima, argomenti di alta filosofia, quando all’improvviso
all’interno della cella irruppe Santippe, la moglie, distrutta per il dolore.
In lacrime. Aveva saputo della condanna a morte di Socrate. Avrebbe voluto
abbracciarlo. Capire il perché di quella sventura. Di tanta ingiustizia. Il
cuore le piangeva. Aveva cominciato a chiedere, interrompendo la
conversazione, quando Socrate, infastidito, si rivolge a una guardia
protestando: “Per favore, portate via questa donna. Qui, stiamo parlando di
cose importanti”. Ci chiediamo a distanza di anni, cosa era la percezione della
donna per il sommo filosofo greco. E ancora, come può essere che un ricercatore
della verità, uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, possa avere
trattato in questo modo la propria moglie. Certamente, l’universo culturale del
tempo era diverso. Il mondo era dei maschi, e Socrate non intercettava il
problema nel rapporto con la donna.
Il secondo episodio, più vicino a noi, è
riferito ad Einstein, genio della fisica di tutti i tempi. Einstein aveva
conosciuto la serba Mileva, sua futura moglie, quando aveva 21 anni. Si era
certamente innamorato di lei se la sposerà nel 1904, e da lei avrà tre
figli. Mileva era collega di studi di Albert, ed era la quinta donna ad essere
stata “ammessa” a frequentare l’Università di Zurigo in Svizzera, quando in
tutte le università dell’Impero Asburgico era proibita la iscrizione delle donne
nelle scuole. Mileva, insomma, non era la Santippe di Socrate se pare abbia
collaborato con il marito nella teoria della relatività ristretta. Eppure, si
tramanda che sulla scrivania di Einstein sia stato trovato questo
appunto..
Cara Mileva,
Ti sarei grato se ti attenessi alle seguenti regole.
1. I miei vestiti devono essere sempre
stirati.
2. Mi devono essere serviti tre
pasti al giorno in
camera mia, e desidero
mangiare da solo.
3. Sulla mia scrivania nessuno
deve metterci le mani.
4. Devi rinunciare a qualsiasi
rapporto sessuale, a
meno che non sia io a
chiedertelo.
5. Devi rispondere subito quando ti
chiedo qualcosa.
6. Devi lasciare subito la mia camera
quando ti invito
ad uscire.
Grazie, il tuo Albert
Non sappiamo quando è stato scritto il biglietto, né in che
modo Mileva abbia reagito. Di certo nel 1914 la moglie va a vivere per conto
suo. Nel 1919 ottiene il divorzio. Nel 1921 Einstein le versò l’intero
contributo ottenuto con l’assegnazione del premio Nobel per la Fisica. Dunque,
le voleva bene, perlomeno conosceva il rispetto e il dovere coniugale del maschio.
Come è possibile vedere, nell’arco di 2500
anni, non era cambiato nulla in quello che era il ruolo e la percezione che
l’umanità aveva della donna. Ma, le cose non erano diverse in Cina, Giappone,
Sicilia, e in tutte le altre parti del mondo.
Raccontare la storia della donna partendo
da quello che hanno scritto e detto gli uomini del passato, è
epistemologicamente incorretto. È come se, volendo raccontare una storia della
schiavitù, prendessimo per buono quello che degli schiavi raccontano i negrieri
o i bianchi della Louisiana.
In
altre parti del mondo
Ma, a voler fare il giro del mondo, pare
che tutte le società abbiano avuto in passato gli stessi comportamenti e le
stesse distorsioni percettive nei confronti della donna. Ricordiamo un
passaggio del romanzo “La buona terra” di Pearl S. Buch, premio Nobel per la
letteratura, che negli anni ’30 descrisse i costumi della Cina. In questo libro
bellissimo, la Madre, protagonista del romanzo, ringrazia gli Dei per averle
dato tre figli maschi. In realtà, una era femmina. Ma, lei cercava di ingannare
le divinità vestendo la figlia con gli abiti dei fratelli, sperando che non si
accorgessero del fatto che fra i tre c’era una femmina. Ed era éscamotage che
la buona madre adottava per fare in modo che gli Dei potessero avere un occhio
di riguardo anche per la figlia femmina.
Ed è sempre proveniente dalla Cina una
notizia di cronaca apparsa tempo fa sul settimanale l’Espresso.
Si tratta di un articolo che documenta
l’agghiacciante grado di indifferenza degli abitanti di una città della
provincia dello Henan davanti al cadaverino di una neonata abbandonata per
strada, e sulle sevizie che
tuttora vengono perpetrate in Cina nei confronti delle donne e delle famiglie
che mettono al mondo neonati di sesso femminile. Leggiamo la confessione che
una ostetrica cinese fa al giornalista Marco Lupis.
La strage degli
innocenti
Giorni fa sono andata ad aiutare una donna
che aveva partorito una figlia, qui nel villaggio dello Henan. La neonata non
respirava bene. Ho tentato di rianimarla finché non le è venuto fuori un grido.
Ero soddisfatta. Poi ho sollevato lo sguardo verso la nonna della bimba. Era
furente. “Perché non l’hai lasciata morire? - mi ha gridato - Non respirava!
Ora per colpa tua è viva”. E continuava ad inveire contro di me. “Siamo tutte
donne - le ho risposto - la bambina ha lo stesso diritto di vivere che abbiamo
noi”. Allora ho preso la bambina per consegnarla alla madre. Era una donna
istruita. Quando ha visto che era una bambina l’ha allontanata: “Cosa mi
succederà? Cosa ho fatto di male per partorire una femmina?” A quel punto -
continua il racconto dell’anziana levatrice - ho cominciato a ricordare la mia
infanzia. Il primo ricordo è quello di mia madre che piange, seduta, che mi
guarda e piange: “Perché dobbiamo preoccuparci per te, Ming Li? Tanto, fra non
molto diventerai proprietà di un’altra famiglia”.
Questa di Ming Li sembra una
delle tante storie che appartengono al Medioevo. Un Medioevo che cova ancora
dentro di noi. Basti pensare a quante bambine vengono ancora oggi affogate,
poche minuti dopo aver visto la luce, o lasciate sui binari del treno avvolte
in una coperta. Troppo spesso, ancora oggi, è questo il destino delle bambine,
al punto che nel 1996 in una provincia della Cina il rapporto fra maschi e
femmine era di 30 femmine per ogni131 maschi. [1]
Le parole di
queste donne testimoniano l’angoscia e la percezione negativa che la cultura
cinese ha da sempre avuto nei confronti della donna. Nelle pagine che
esamineremo più avanti troveremo di tutto: misoginia, violenza, mancanza di
umanità, di moralità, di valori, donne terrorizzate, follia collettiva, forme
di schizofrenia sociale.
Per questo, faremo un salto
indietro di qualche millennio, ci recheremo con la moviola del tempo nella
Grecia antica e vedremo cosa ci dicono poeti e filosofi a proposito della
donna, poi sfoglieremo la Bibbia per capire cosa ci racconta il libro sacro,
sempre sullo stesso argomento, per continuare ancora con le aberranti invettive
che sulla donna sono state lanciate dai Padri fondatori della Chiesa cattolica e sui
delitti commessi nei confronti delle cosiddette streghe durante i lunghi secoli
della inquisizione. Chiuderemo la nostra ricerca con Hildegard von Bingen (1098-1179) monaca e personaggio
straordinario, che in pieno medioevo scrive pagine di storia contemporanea assolutamente potenti, ma ancora sconosciute.
“O Giove! Che dono ci hai fatto?
Di che razza
sono queste donne?
da “Agamennone”,
Eschilo
Capitolo
Primo
PANDORA
[1] Sulla soppressione delle femmine alla nascita, la Contea di Modica non era seconda a
nessuno. Da documenti anagrafici (riveli),
lo studioso Gianni Morando rilevava l’anomalo rapporto fra maschi, molto
più numerosi delle femmine nel 1600. Segno evidente che tale consuetudine era praticata
anche fra le cristianissime popolazioni iblee.