2021/08/20

Gino Carbonaro "Sull'Onda dei ricordi" di Pina Pavone

Gino Carbonaro


 SULL’ONDA DEI RICORDI

Giuseppe Carbonaro

Riflessioni di Giuseppina Pavone


Ho letto più di una volta l’ultimo libro di Gino Carbonaro, “Sull’onda dei ricordi”, nel quale l’Autore traccia la ‘biografia’ del padre Giuseppe, e mi sento di affermare senza tema di smentita che questa biografia ha in sé una buona dose di autobiografia di Gino, la cui presenza costante e incisiva in determinate vicende riportate dà un particolare vivace colore alla narrazione, probabilmente perché l’Io narrante (Gino) è percepito da chi legge come co-protagonista di alcuni fatti narrati, venendo così a rivestire il duplice ruolo di soggetto/oggetto della narrazione stessa!

Ad ogni lettura molte le considerazioni che si sono affollate alla mia mente, ma che per comprensibili esigenze tipografiche non ho potuto esprimere nel breve commento che è inserito, assieme a quelli di altri amici, alla fine del volumetto; in questa sede integrerò con altre riflessioni quanto già scritto.
Gino Carbonaro scrive da molti anni, sempre per trasmettere contenuti di significativo rilievo, espressione della sua innata esigenza di conoscere, comprendere e … dire.

È una ricerca, la sua: di se stesso soprattutto, ma anche del mondo, dei ‘misteri’ della vita. E proprio perché di ‘ricerca’ si tratta, ogni impresa di scrittura è per Gino un viaggio, di cui ha inizialmente solo una pallida idea: i percorsi, le rotte, gli ancoraggi … gli sembrano previsti e prevedibili solo fantasiosamente, se non addirittura illusoriamente! Ma lui inizia e va avanti spedito, pur con le inevitabili incertezze, i dubbi e le perplessità che può avere chi ai piedi di un ipotetico Everest intraprende la salita con la ferma determinazione di arrivare comunque in cima!

Ha proprio ragione Duccio Demetrio quando dice “Ogni libro (…) è un figlio simbolico. Non è mai come l’avresti desiderato, è ineducabile”.

Se questo è vero per tutti gli scritti, lo è ancor di più per quelli a carattere autobiografico.
Ne è consapevole Gino Carbonaro, non per nulla ha titolato il suo precedente volume ‘Viaggio nel tempo’ dedicato al nonno Giorgio. Ben presto, infatti, si è reso conto che la storia della sua famiglia, che si è prefisso di raccontare, va oltre i nomi e le date che si possono trovare negli album di casa, è piuttosto un ‘albero’ dalle radici solide fermamente saldate nel terreno dei valori, un albero dalle ricche e variegate ramificazioni che, come succede in Natura, hanno affrontato i periodi belli e meno belli delle stagioni della vita, hanno resistito vivendo, respirando, soffrendo e non di rado vincendo battaglie che sembravano impossibili da superare.

È storia che riguarda ‘legami’: affetti, amicizie, amore …, Gino ne è il testimone e dà voce ai suoi incredibili e puntuali ricordi di una vita degna di essere raccontata.

E mi piace riportare a tal proposito il pensiero di Gabriel Garcia Márquez “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Ed è quello che ha fatto Gino: ha narrato il passato della sua famiglia ri-vivendolo nel suo presente, nel suo essere com’è adesso!
Infatti, nel raccontare e raccontarsi in molti casi sembra scoprire varietà, ricchezza e bellezza di stati d’animo nel momento stesso del ricordo, ma le sente subito familiari e vivide, un passato che si fa presente, contribuendo a fare chiarezza non solo nella trama e nei raccordi logici tra i fatti, ma proprio nei sentimenti e nelle emozioni.

Ed è allora che dai ricordi emerge quella “poesia della vita” che ognuno possiede nel proprio intimo e che ha bisogno solo di palesarsi, vibrando libera nel firmamento delle emozioni: non di rado, infatti, mi è capitato di leggere, nel corpo di alcune pagine di queste narrazioni di Gino, brani poetici di rara bellezza, dove la delicatezza espressiva appare come avulsa dalla dimensione del razionale per acquisire il linguaggio dell’anima!

Entrando nel merito dei contenuti

“Sull’onda dei ricordi” è una chiara e significativa finestra sul mondo della ‘memoria’, dove il singolare intreccio di storie (familiari, individuali, personali, … ma anche sociali e politiche) si snoda in un arco di tempo abbastanza ampio da far vivere (o rivivere), come in un flashback, eventi importanti che hanno cambiato la Storia del Paese, di tutti noi, con un evidente approccio storico e sociologico. Ed è nella logica di questo cambiamento che Gino, a buon diritto, colloca il protagonista, Giuseppe Carbonaro, suo padre! Emblematica la sua vita: mai succube degli eventi avversi, ha saputo sempre inventarsi e reinventarsi, adattandosi appunto alle esigenze di cambiamento, senza mai perdere dolcezza e tenerezza nel rapporto con gli altri né il senso di umanità e la generosità che lo hanno caratterizzato.

Dalla narrazione di Gino emerge, limpido e chiaro, il profilo di un uomo dalla vivace intelligenza, creativo e intuitivo, artista a tutto tondo: che si tratti di fotografia, sua attività principale, o anche di pittura, scultura, arti visive in genere, di artigianato e tant’altro … in tutto sviluppa competenza, tende sempre alla perfezione, dimostrandosi capace di produrre ‘bellezza e armonia’ in ogni ambito nel quale, sperimentando se stesso, trasfonde il suo mondo interiore, la sua sensibilità che dà corpo all’innegabile ingegno: c’è poesia nella sua arte!

Una persona di eccezionale valore Giuseppe Carbonaro, che poteva essere presentata e descritta in tutta la sua grandezza solo da chi gli è stato accanto, da chi è cresciuto con lui alla sua ‘scuola di vita’ respirando il suo carisma, assorbendone principi, valori e amore per la bellezza: il figlio Gino.

E Gino, infatti, narra di lui con l’immenso affetto filiale e l’ammirazione che ha sviluppato e maturato nel tempo, sentimenti che, però, non hanno “imbrigliato” né alterato la genuinità della descrizione e ne sono prova le numerose opere riportate nel libro assieme ad altre immagini, foto e riferimenti discorsivi che fanno da complemento al contesto grafico, esteticamente pregiato, che il contenuto merita.

Lo stile di scrittura? Quello tipico di Gino: semplice, colloquiale, dialogico, con il quale racconta una storia che cattura l’attenzione, si legge con lo stupore negli occhi e l’emozione nel cuore!

©Giuseppina Pavone

2021/08/07

Compagnia GoDoT - L'Avaro di Molière - commento di Gino Carbonato



Una lezione di Teatro

L’AVARO di MOLIÈRE,
al Castello di Donnafugata.



di Gino Carbonaro  


Spettacolo Teatrale della COMPAGNIA Go.Do.T 


Nella mia vita, ho visto più di una volta l’Avaro di Molière, ma devo essere sincero, non sono mai impazzito di gioia per una pièce teatrale, dove lo spettatore è costretto ad ascoltare il protagonista Arpagon-avaro che dialoga con se stesso. La staticità non è il forte del teatro, dove tutto, a seconda degli atti, si svolge su scene che cambiano di poco.
Insomma, non avevo desiderio di tornare a rivedere una commedia che, seppure ben intrecciata nella trama, non aveva più nulla da dirmi.
invece, la curiosità di tornare a rivedere quella che è la più famosa commedia di MOLIÈRE, si è accesa per due motivi:
1. Per il fatto che la proposta veniva dalla Compagnia GODOT, che in passato mi ha sempre sorpreso per la originalità delle sue interpretazioni teatrali.
2. Per la forza del *passaparola*, che mi ha raggiunto più volte, per dire entusiasticamente che lo spettacolo messo in scena dal GODOT era “*fantastico*”.
Ma, era chiaro che il termine fantastico non poteva dire quali emozioni può dare una pièce teatrale. Sarebbe come parlare di colori a un cieco. Tu puoi ascoltare quella informazione, ma non recepirne il significato profondo.
E però, incuriosito, ho acquistato il biglietto in via Carducci 265, e ieri sera mi sono recato al Castello di Donnafugata.
Prima sorpresa? Sono arrivato con un’ora di anticipo, e ho trovato difficoltà a trovare un posto-macchina nell’immenso parcheggio del Castello. Subito dopo saprò che tutto, per quello spettacolo, era sold-out per quei posti a sedere nel giardino, dove era stato posizionato il teatro. Dunque? Un segno tangibile di successo.
Conquistato il mio posto, e dopo la non breve attesa di routine, l’inizio dello spettacolo, che aveva come palcoscenico la stupenda scala del Castello. Scenario stupendo. Pubblico attentissimo. Luci fantasmagoriche, che illuminano la scalinata e i giganteschi Ficus.
Finalmente l’inizio, con un novità non prevista nella Commedia di MOLIÈRE.
Appare sulla scena, un personaggio femminile che indossa un originale e fastoso abito rosso: dall’alto della scalinata l’attrice Federica Bisegna spiega al pubblico il contenuto della Commedia. La voce dell’attrice è sicura, chiara, potente, carica di ironia, coinvolgente. Insomma, questo il “la” della pièce. Era questo l’amo per agganciare l’attenzione del pubblico.
Ma questo escamotage, penso sia da adottare sempre in qualsiasi pièce teatrale. Sapere come si svolge la storia è fondamentale.
Gli elementi utilizzati in apertura sono tre: la voce-narrante, le luci, la musica stupenda, colori.
Poi? Federica si ritira e la storia comincia.
E si nota subito il taglio dato dal regista alla storica secentesca Commedia, dopo tre secoli.
• I protagonisti (più di dieci) hanno vestiti dai colori sgargianti. Gioia e allegria anticipata.
• I dialoghi sono accattivanti.
• La musica da sottofondo è classica, vivaldiana, stupenda.
• Il dinamismo dei personaggi eccezionale. Tutto un vortice. Tutto un movimento.
Si capisce subito che gli attori (tutti bravissimi) diventano simboli colorati di una tavolozza teatrale dove sarà recuperato il grottesco della Commedia dell’Arte, in una interpretazione “corale”, che si svolge con un accostamento di suoni, colori, movimenti, realizzati da uno staff teatrale ricco di attori giovani e bravissimi, consapevoli del fatto che il successo della serata sarebbe dipeso dalla loro capacità di dare anima e vita ad un’opera importante del passato.
E qui, il merito chiama in causa Vittorio Bonaccorso, primo attore e regista , che è riuscito a dare il meglio di se stesso. Regista che è riuscito a tirar fuori una insospettata energia da ogni protagonista, fra l’altro - ripetiamo - tutti giovanissimi, che liberavano il loro amore per il Teatro.
Che dire ancora?
Diciamo che il pubblico non poteva immaginare che una commedia basata sulla forza della parola potesse volare nei cieli di un “quasi-musical”, dove musica-danza-canto-parola-pittura-sorpresa- invenzione-fantasia intervengono per sostenere una storia buffa, a lieto fine.
Aggiungo che l’entusiasmo del pubblico era enorme. Il mio stupore enorme, anche, dal momento che diventava chiaro per me il ruolo della regia, in questo caso geniale, per inventare, far capire agli attori quello che desiderava realizzare la regia, e caricare nello stesso tempo di entusiasmo gli attori che nel caso specifico si sono letteralmente scatenati (liberati) da qualsiasi condizionamento, per dare un’anima a quella che io considero una delle opere più perfette e belle, alle quali ho potuto assistere nella mia vita.
Ne è venuto fuori un MOLIÈRE? Grande. Un Vittorio BONACCORSO? Non meno grande. E tutti, dico tutti gli attori, eccezionali. Una squadra affiatatissima che ha dato il meglio di se stessa.
Gino Carbonaro
4

2021/08/05

Pirandello - I Giganti della Montagna - Compagnia GoDoT - Castello di Donnafugata - 1. agosto 2021

Compagnia "GoDoT"

“I Giganti della Montagna"

 di Luigi Pirandello  

Castello di Donnafugata 
1 agosto 2021 

 Alta Lezione di Teatro 

                                            di Gino Carbonaro

      Confesso. Dopo aver visto lo stupendo “Avaro” di Molière, presentato su quella incantevole scalinata del Castello di Donnafugata, ero curioso, non poco, di vedere come avrebbe affrontato il tema la “Compagnia GoDoT”, cioè, il nostro Vittorio Bonaccorso, regista, con il Pirandello dei “Giganti della Montagna”. Spiego il perché. Pirandello non è Molière. L’“Avaro” è commedia. “I Giganti della montagna” sono un dramma, che odora di tragedia (e di grecità). Dramma postumo, fra l’altro, complesso, di cui Pirandello non ha avuto il tempo di dare direttive a registi teatrali. Opera non facile, poco gettonata nel teatro italiano. Unica eccezione quella del mitico Strehler, che riuscì (così si racconta) a proporre qualcosa di molto interessante. Risulta perciò chiaro che il nostro Vittorio-Regista vuole misurare la sua capacità nel gestire un cavallo difficile da dominare. Da qui la mia curiosità. Duplice. Ripeto. 

 a. La prima? Per capire cosa intendeva veramente proporre al pubblico Pirandello. 

b. La seconda? Vedere come avrebbe pilotato il tutto la “Compagnia”. Noi tutti sappiamo che la grandezza di Pirandello sta nei contenuti dei suoi drammi. 

    Nel “Così è (se vi pare)”, la trama presentata agli spettatori vuole far capire che non esiste “la verità” assoluta su qualcosa, ma esistono “le verità” che sono tante quanti sono i punti di vista. Dunque? Non esistono certezze. E si tratta di un lite-motive che rappresenta l’anima del dramma, che laurea Pirandello “filosofo”, subito definito “relativista”, prendendo a prestito l’aggettivo-sostantivato (relativista) dalla Fisica di Einstein. E, diciamo pure, che la definizione non è lontana dal vero. Ma, il “Così è (se vi pare)” è datato 1917, mentre “I Giganti” vengono portati in scena nel 1937.

   Certamente venti anni separano i due drammi. Anni durante i quali Pirandello matura la sua filosofia dell’esistere, e prende esatta coscienza del ruolo del Teatro e della sua filosofia. Filosofia che è messa a punto, e consegnata, a “I Giganti della Montagna”. Insomma, a dirla in altre parole, Pirandello è filosoficamente “agnostico”. E, all’agnosticismo arriva anche dalla osservazione (ruolo-e-funzione) del Teatro, dove “tutto” è maschera e assunzione di ruoli diversi. 

     Qui, nel Teatro un individuo che nella vita di tutti i giorni è impiegato-salumiere-padre, o chissà quanti altri ruoli può vivere, salendo sul palcoscenico, indossando i panni dell’attore, indossa una maschera, diventa altro da sé, non è più il personaggio della vita, ma un altro, in una sorta di transfer diventa quello che i Greci chiamavano “ypokrités” (colui che-sta-sotto). Proprio da qui germoglia e si costruisce l’agnosticismo filosofico di Pirandello, montato su una credibile “ipotesi”: “Se la vita è palcoscenico”, dove tutti impersoniamo un ruolo, ognuno di noi, anche nella vita è un attore che recita agli altri il ruolo che più gli piace. Come dire che? Ognuno di noi è un “ypokrités” che quotidianamente nasconde il vero se stesso. Questo è quello che ritiene Pirandello nel proporre drammi che, per la tangente sfiorano la tragedia, perché di nessuna persona (“persona” - in latino -“maschera”) è possibile intercettare cosa si nasconde dentro. La bellezza di queste intuizioni (non certezze o verità, ché non esistono), è contenuta in questa pièce dei “Giganti della Montagna”, sorta di Teatro (quello della baronessa Ilse), inserito nel Teatro della vita, dove il Teatro-arte, non è capito da “Giganti-della Montagna-ignoranti” che vivono di materialità. Non è facile capire come l’esistenzialismo che dominò la prima metà del XX secolo (vedi Jaspers, Heidegger, Sartre) possa essere stato catturato dal Teatro di Pirandello, ma è certo che, a chiusura della vita del grande drammaturgo “siciliano” questa pièce (“I Giganti della Montagna)”, contiene “tutta” la filosofia di Pirandello, quella che in un flash di concetti (sempre riferita agli umani) è riportata qui di seguito. 

“Pupi siamo 
Lo spirito divino entra in noi 
E si fa pupo                                                             Pupo io Pupo Lei / Pupi tutti. 
Ognuno poi 
Si fa pupo per conto suo. 
Quel pupo che può essere 
O crede di essere”

                    (Luigi Pirandello) 


     Giungendo alla conclusione che 

 “Tutti gli uomini sono strani 
 Tranne tu ed io. 
 E, anche tu sei un po’ strano”. 

 Ma qui, al Teatro di Donnafugata - ho già detto - mi sono recato per vedere come se la sarebbe cavata la “Compagnia GoDoT”. E anche qui la sorpresa. Aver notato che il Teatro di "Vittorio e Federica" hanno la “riconoscibilità”. Tu ne vedi un frammento, un frattale, e puoi dire che “questa” è realizzazione teatrale della “Compagnia GoDoT”. E lo si vede subito dalla rutilante fantasia dei passaggi teatrali, dal principio estetico, che il pubblico rileva già in apertura. Ci riferiamo alla qualità delle luci. Fantasmagoriche. Luci che evocano stati d’animo, e trans-portano lo spettatore in un mondo lontano-irreale-surreale-immaginato, mondo sognato o immaginato, che esiste senza esistere.

     Immediatamente in accoppiata vincente? La musica. Linguaggio universale che evoca, suggerisce, trasmette emozioni, accompagna la parola, fa da involucro e sostanza alla scenografia. Ah! Dimenticavo la scenografia. Quelle scale inondate di luci, quei ficus giganteschi, che evocano storie lontane, e non di meno il vestiario degli attori: bello, originale, strano, impensabile. Sempre in contrasto con la realtà, con questo nostro mondo. E ancora? Non bisogna dimenticare la coreografia. Stupenda. E quello che è il fiore all’occhiello della serata. Dove i personaggi si muovono quasi lo spettacolo potesse essere un gioco di forme, quasi  danza continua che incanta non meno delle parole. E ancora, tocco di originalità, la introduzione di un coro nuovo, impensabile, che dialoga con i protagonisti, e richiama la drammaturgia greca, qui facente però parte intima del dramma. 

      In ogni caso, il percorso-del-nostro-Bonaccorso prevede (anche lui, come Pirandello) che il teatro è vita, e la “sua” vita (quella di Vittorio) è il Teatro, e nel suo Teatro ci sono anche i giovanissimi e, perché no? i bambini. A dimostrare che noi adulti non abbiamo mai considerato che “les enfants sont prodigieus”, che i bambini hanno potenzialità non ancora ben conosciute. E questi giovani, questo bambini della "Compagnia GoDoT", hanno avuto un ruolo non secondario in questo dramma, dimostrando livelli di maturità eccezionali. Tutti. Nessuno escluso. 

     Chiudo dicendo che sono stato incantato dalla capacità interpretativa delle due attrici cardini della serata, la grande Federica Bisegna e la eccezionale Rossella Colucci. E spettacolari, shakespeariani, mi sono apparsi i tre (o quattro) soliloqui di Vittorio Bonaccorso. 

     Musica, poesia, arte, filosofia, scenografia, spettacolo. Assolutamente promossi. Tutti. soprattutto il regista e ognuno nel suo ruolo. Compresi i fonici e direttori delle luci Marco e Andrea Iozzia. Grandissimo, come sempre il nostro Pirandello. 

   Spettacolo da non perdere.


                                      Gino Carbonaro

2021/04/14

CONFUCIANESIMO Giappone

 

Gino Carbonaro gino.carbonaro.italy@gmail.com

13 ott 2020, 10:53
Paola

GIAPPONE CINA ORIENTE

CONFUCIANESIMO

   ARMONIA  Ideogramma Kanji 


IL RUOLO DEL CONFUCIANESIMO NELLA CULTURA ORIENTALE


       Per capire il Giappone, e di riflesso la cultura orientale (Vietnam, Thailandia, Cina, Corea) bisogna tenere presente il ruolo del Confucianesimo in queste società. 


     Il Confucianesimo  non è una religione, ma una dottrina *etica* applicata alla vita degli uomini, ai quali viene suggerito il modo migliore di condurre la propria esistenza, senza alcun riferimento alla religione.  Dunque? Dottrina, senza rituali e preghiere. 


Confucio (K’ung-fu-Tsu), vissuto a cavallo fra il VI e il V sec. 

  1. Cr., era semplicemente un Maestro, educatore di giovani appartenenti all’aristocrazia cinese. 


     Tenuto conto che non aveva programmi ministeriali che avrebbero potuto dirgli cosa insegnare alle nuove generazioni, fissò il concetto che la cosa più importante che un giovane avrebbe dovuto imparare era il *rispetto* verso gli altri. Rispetto che conteneva  in sé *benevolenza, rettitudine,  decoro,  fedeltà, onestà e saggezza*. Valori universali.


       E fissò il concetto che il fratello più piccolo doveva rispetto al fratello più grande, i capofamiglia dovevano rispetto ai datori di lavoro, e tutti poi dovevano rispetto all’Imperatore.


       Insomma una scala gerarchica, una piramide sociale, nella quale l'unica legge era rappresentata dal reciproco rispetto di tutti verso tutti. Ed è principio che si ritualizza tuttora in una serie di inchini reciproci e di distanze da “rispettare” a seconda dello status delle persone.     


       Solo così (questa è la filosofia di Confucio), una società può vivere in SerenitàArmonia. Armonia che, come concetto, è fissato in un bellissimo ideogramma, che oggi è possibile trovare esposto (bene in mostra) in tutti gli uffici pubblici del Giappone e della Cina, per ricordare che questo è il primo dovere (e obiettivo)  che tutti gli uomini, e tutte le collettività, devono perseguire.  Armonia che è legge che governa l’Universo.  


       Di fatto, Confucio-educatore indica la strada affinché ogni individuo possa vivere onestamente in serenità per raggiungere la perfezione morale. Ed è filosofia che “porge” la mano alla religione. 


      Questa dottrina piacque molto all’imperatore cinese del tempo, che l’appoggiò imponendola ai suoi sudditi. Il *rispetto* doveva essere di tutto, anche della proprietà individuale. Ed era legge. 


      Però, va aggiunto che il rispetto presuppone un obbligo, non solo di coloro che nella scala sociale stanno più in basso, ma è anche di coloro che stando più in alto hanno la *responsabilità* morale nei confronti di chi sta “sotto” la loro guida e tutela, di quanti eseguono i suoi ordini con coscienza e precisione.  


       Tanto è provato dal fatto che in Giappone, il capo che dirige un'azienda (per il bene di tutti) lavorerà più di tutti, ma nella malaugurata evenienza fallisca il suo compito, diventerà un uomo privo di rispetto e sentirà l’obbligo (morale) di togliersi la vita.  Troppa è la vergogna per avere sbagliato, per non avere onorato il suo compito. Seppuku o Harakiri è detto questo antico rituale dei Samurai che, per il disonore dell’errore commesso, sono obbligati a tagliarsi il ventre con la spada. 

 

      In realtà, il Confucianesimo non prevede il Seppuku, ma prevede l’obbligo morale dei superiori di lavorare per il bene dei dipendenti.