La storia del Fascismo
rivisitata a distanza di sessant’anni
Modica. Era l’autunno del 1947, quando la bucolica quiete di una città di provincia fu sconvolta dall’arrivo di alieni. Agli occhi dei Modicani, l’evento richiamava alla memoria l’arrivo di un circo esotico con persone mai viste, che da pesanti camion con rimorchi scaricavano strani marchingegni. Si disse allora che a Modica si doveva girare un film intitolato “Il vecchio con gli stivali”.
La popolazione, sospettosa all’inizio, fu subito conquistata facendola parte dell’evento cinematografico. Giovani studenti, vestiti da avanguardisti, parteciparono alle riprese del film marciando fra labari e bandiere dell’Impero; uomini della strada, contadini, donne con scialle d’epoca furono coinvolti in un evento di cui nessuno conosceva contenuto e finalità, ma che era considerato interessante. Alla fine, l’entusiasmo della popolazione fu totale. La partecipazione gioiosa.
Ma, erano tempi diversi. Tempi in cui ogni paese degli Iblei era una grande famiglia, quando i trasporti avvenivano a schiena d’asino e per mezzo di carri, e si cucinava ancora con frasche e carbone nella “tannura”. Tempi in cui la gente salutava “baciamulimanu” e il latte si vendeva per strada, munto alla bisogna, dalle mammelle di capre o mucche. Periodo sereno, insomma, quando tutti accettavano la realtà: mancanza di lavoro e fame, incertezza del futuro e arroganza del potere, convinti che il mondo era stato sempre così.
Ferdinando Briguglio, giovane e intraprendente produttore siciliano, trovò a Modica la “location” ideale per un film che fu il primo girato negli Iblei del dopoguerra, una scenografia naturale offerta dall’ambiente, in linea con quanto richiesto dal neorealismo italiano. Tutti felici, insomma, ad eccezione della baronessa Cascino, risentita dal fatto che Massimo Girotti le aveva soffiato la cameriera offrendo a quest’ultima 10.000 lire al mese!
Le riprese del film durarono quattro mesi, e per tutto quel tempo, città ed abitanti furono parte di un progetto di cui sfuggiva la portata. Per l’occasione, i Modicani, ebbero cose nuove da guardare e da raccontare. E si parlò di inviti a cena, del bellissimo Biagino Manenti che corteggiava le attrici del set, di corna che ornarono la testa di qualche persona, e soprattutto dell’avvenente Massimo Girotti, che restò indelebile nella memoria di molte signore.
Ma, gli anni dell’immediato dopoguerra rappresentavano per tutti l’alba di un nuovo giorno. Si aprivano le finestre al sole di una vita nuova. La macchina sociale messa a forzato riposo dalla guerra, ripartiva lentamente, e il film “Anni difficili”, rappresentò il segno tangibile di una economia che si rimetteva in moto.
Poi, le riprese finirono, la troupe tirò i remi in barca, ringraziò e salutò tutti. Dopo qualche tempo il film fu proiettato a Modica alta, al cinema Aurora. E però, durante la proiezione si registrò una atmosfera strana. Gli spettatori intuirono che il film era una cosa seria. Chi aveva vivo il ricordo della guerra sentì che la storia raccontata apriva ferite che stentavano a rimarginarsi. In alcuni passaggi il film, più che neorealista, era iperrealista. Scene di bombardamenti, per chi li aveva vissuti, evocavano indicibile angoscia. Rivedere federali e podestà fascisti in tutta la loro tracotanza richiamava alla memoria un passato storico che aveva seminato parole e raccolto guerra, promesso gloria e prodotto sofferenze e lutti.
Il film che pure era stato girato con l’aiuto dei modicani, non rispondeva alle aspettative della gente comune. Soggettista, sceneggiatori, attori e regista erano riusciti a trasmettere i messaggi del film: caricatura di un sistema e sofferenza dei deboli, potenti che dopo la guerra cambiarono pelle, la fame di chi era costretto ad arruolarsi volontario per poter garantire a se stesso un piatto di minestra. Tutto questo faceva male. La coscienza di ognuno che tende a rimuovere i brutti ricordi era costretta a ricordare, a valutare, a tirare conclusioni da quella che era stata la storia degli italiani. Per questo, il film deluse alquanto le aspettative dei modicani, che forse credevano di andare al cinema per assistere a una romantica storia d’amore fra Massimo Girotti e la conturbante Delia Scala. Tanto avrebbe potuto dare un film americano. Invece, qui si raccontava la storia di un uomo, che per non essere licenziato dal lavoro era stato costretto a iscriversi al partito fascista, a indossare camicia nera e stivali, a partecipare alle parate militari. Ma, quando l’Italia perde la guerra, il protagonista perde il lavoro e anche il figlio ucciso dai tedeschi. Ma, dolore non meno grande per il nostro protagonista (e per gli spettatori) veniva dalla amara considerazione che, chi era stato al potere negli anni del fascismo, era rimasto al potere anche in seguito. Il film, che era una ferma denunzia al fascismo, ebbe “vita difficile”. Al suo apparire, il film fu ostacolato dalla Commissione Censura, composta tutta da funzionari fascisti di prima della guerra che Togliatti aveva confermato nella carica; fu ancora accusato di qualunquismo da alcuni giornali, ma alla Camera dei Deputati fu difeso da Andreotti, che riuscì a fare sbloccare il film consentendone l’approdo al Festival di Venezia.
Dopo sessant’anni, restaurato e alla sua “seconda” visione, e rivisto a distanza di tempo, il film risulta documento terribile e reale, spaccato di storia reale sotto ogni profilo: opera d’arte cinematografica, documento storico e antropologico assoluto.
Gino Carbonaro