2011/06/17

Il fico & la donna, storia etimologico-linguistica

Il fico e la donna. Analogie sessuali

   Il fico e il suo frutto sono stati da sempre associati alla donna. Nell’antichità romana l’albero sacro alle donne era il caprifico (fico delle capre o fico selvatico, ’u ficaşŧŕu). Dea protettrice era Giunone Caprotina, che a Roma veniva festeggiata alle “none” di luglio,[1] giorno in cui le donne si recavano fuori delle mura, e presso un vecchio caprifico sacrificavano alla loro dea.
   Per i Greci, la parola fico (σύκον) indica sia il frutto della pianta che l’organo sessuale femminile.[2]
φ

   È curioso il fatto che la φ (fi, phi o effe, ventunesima lettera dell’alfabeto greco) è simbolo grafico che richiama alla mente il sesso femminile (fica), mentre ricorda il frutto del fico. La fessurina del fico maturo stillante miele e il rigonfiamento del sesso femminile stimolavano proiettivamente la fantasia dei Greci.
   In linguistica, φ (phi) è segno della vita e di ciò che dà vita: da notare le parole che hanno inizio con la effe: femmina, fessura, fica, feto (colui che vien fuori, alla luce), Fetonte (figlio del Sole), fiore (che darà il frutto della natura), frutto, fertilità, fecondità, fallo (colui che dà la vita), falò (che dà luce) facondo, fonte, favola; sono termini che indicano ciò che “vien fuori”, che aprendosi dà vita. Ma, anche proli-fica (da facio, fare, creare) è colei che genera molta prole.

Nelle simbologie che operano in questo campo, va ricordata una anonima canzone siciliana intitolata La Ficu che recita così:                                                                                                “La vitti ’mpintaa ’n-árvulu/ la ficu ca pinnìa/ 
Ed era trôppu âuta/ piġğhiari ’n-la putìa/ Di sutta taliànnula/ lu meli ci currìa/ 
Di `đa vuccuzza  amabuli/ lu meli ci spannìa/ 
Essennu sutta `đ’arvûlu/ ’na rama `n’affirrai/ 
Ficuzza mia, certissumu/ `pi `certu ti manćiai. [3]







[1] Le none corrispondono al 7 luglio. (Vedi à  Macrobio, Saturnalia, Utet, p.189/191)
[2] Vedi à Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano, Sandron, 1951, p. 970
[3]  La vidi appesa a un ramo, la fico (va tenuta al femminile) che pendeva/ ma era troppo alta e non potevo afferrarla/ Guardandola di sotto vedevo scorrere il dolce miele da quella amabile boccuccia/ (Però) essendo sotto l’albero riuscii ad afferrare un ramo e certamente Ficuzza mia, riuscì a prenderti e a mangiarti. (F. Paolo Frontini, Eco della Sicilia, Ricordi, 1936, p.7-9). Il tema del frutto appeso al ramo e non raggiungile è allegoricamente presente nella letteratura antica. Da ricordare la poesia nella quale Saffo paragona il suo amore a una mela: “Come la mela alta rosseggia sul ramo più alto/ La dimenticarono nella raccolta. No! non la poterono cogliere. (Saffo, Fr. 105 a)

                                                 Gino Carbonaro

Cunnu & Cunnura, storia etimologico-linguistica


Cúnnu, cunnùra, cuđdùra, cúđdurèđda


di Gino Carbonaro



Cunnu è sinonimo di ştìçċhiu. L’etimo è latino: cunnus è la vulva, quella che ha la forma di “V” o di un cuneus. Cúnnus o cunnùra, in latino, era anche il nome di un pane, che aveva la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, davano una forma vagamente ovale al pane, quindi segnavano il centro con un colpo della mano a taglio, infine ripassavano la parte incavata con un coltello: era il taglio, che durante la cottura nel forno, si allargava lentamente, e si arricciava e si indorava al centro (riđdu) prendendo la caratteristica forma del cunnus.

Nella mitologia greca, orzo, frumento, pane, e il dolce, succulento e calorico frutto del fico, erano sacri a Démetra (Dea-mater) divinità greca della vita e del femminino, che aveva fatto scoprire al genere umano i cereali e i frutti che danno energia, e consentono all’uomo di stare in posizione eretta: la cúnna (o cunnùra) era dedicata a Démetra. Questo pane, solitamente di orzo (nella Grecia di una volta) e di grano duro (in Sicilia), si fa tuttora in quasi tutti i paesi della provincia di Ragusa e ne conserva la forma, trasmessa dalla tradizione, e il nome: cuđdùra (e/o cunnùra). Gli uomini, ai quali le donne lo porgono, lo mangiano ancora con gusto e piacere. C’è da rilevare che la cunnùra, prima di essere infornata veniva baciata, e kunéo (κυηέω) in greco vuol dire “baciare”: cunnùra è, anche, “colei che si bacia”, e il pane si baciava prima di essere infornato. Le donne di una volta, facendosi scherzosamente i complimenti fra di loro, erano solite dire: “Ha’ ’na cuđduređda a `mênz’ê cosci” (ha un panetto in mezzo alle cosce): il riferimento era alla forma turgida del sesso femminile.

Sempre a Scicli, pistòlu è forma di pane al maschile, così come la cuđdura è forma di pane al femminile. Etim. il termine deriva dal latino pistor-ōris = fornaio, ma vuol dire anche pestello o pestone. Come dire che, a pranzo e cena, i nostri progenitori mangiavano pane propiziando la vita sulla tavola imbandita: lo prova la forme itifallica del pistolo e il simbolo del sesso femminile nella cuđdura o cunnùra, l’antico pane latino, il cunnus.   

In tutte le cose serie, qualche volta non manca un tocco volgare. Nella Sicilia antica, poteva accadere che due donne litigassero. E se la cosa per la quale si litigava non piaceva ad una delle litiganti, era possibile che volassero frasi pesanti del tipo, per esempio:"Anfilatillu nto cunnu!"  E così tutto finiva nel basso corporeo! 

                                                               Gino Carbonaro

Scheda da "La Donna nei Proverbi Siciliani, Thomson, Oxford, 2003

Considerazioni allegate da Antonella Spadafora da Cosenza

Posted on 



cucù
Il fatto che in fiorentino il coniglio venga chiamato “conigliolo” mi ha sempre fatto sorridere, pensavo fosse una storpiatura vezzeggiativa, come accade con ”figliolo” …. se in Toscana le cose si chiamano come si chiamano, però, c’è sempre un motivo sotto, come ho avuto modo di rendermi conto mille e mille volte, e in questo caso la parola conigliolo riflette ancora meglio di coniglio l’etimo della parola, dal latino CUNICULUS, che vale tanto per l’animale quanto per via o foro sotterraneo (da cui “cunicolo”).
Per traslato, dunque, l’animale viene identificato con la sua tana, poichè l’abitudine di scavare cunicoli lo caratterizza e lo identifica.
Cosa bizzarra, o forse no, durante un corso di Filologia Romanza alla Complutense la docente ci fece notare come il coniglio e il cunicolo condividessero la radice etimologica anche con la parola latina che  indica popolarmente i genitali femminili, cunnus (cosa cava, fessura, buco), da cui il castigliano coño e il francese con, e non solo: in tutti i nostri dialetti meridionali u cunnu significa la stessa cosa.
E non è un caso, ovviamente, che il coniglio (e la lepre con esso) sia un animale archetipo del mondo simbolico sessuale, del bestiario selenico, associato alla semantica della fertilità. Anche la festività della pasqua nelle sue origini pagane (si celebrava Eostre, dea assimilabile a Venere, e la parola per Pasqua in inglese è appunto Easter) vede la lepre associata alle divinità della luna, dunque ai cicli della fertilità.
E, cosa interessantissima, in Sicilia si fa ancora un pane che, ci spiega Gino Carbonaro (e mi compiaccio della scoperta del suo blog!!!!) è dedicato a Démetra, la Dea Mater che ha fatto scoprire all’uomo i frutti e i cereali. Questo pane si chiama appunto cuđdùra:
Cúnnus o cunnùra, in latino, era anche il nome di un pane, che aveva la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, davano una forma vagamente ovale al pane, quindi segnavano il centro con un colpo della mano a taglio, infine ripassavano la parte incavata con un coltello: era il taglio, che durante la cottura nel forno, si allargava lentamente, e si arricciava e si indorava al centro(riđdu) prendendo la caratteristica forma del cunnus.        (…)
Questo pane, solitamente di orzo (nella Grecia di una volta) e di grano duro (in Sicilia), si fa tuttora in quasi tutti i paesi della provincia di Ragusa e ne conserva la forma, trasmessa dalla tradizione, e il nome:cuđdùra (e/o cunnùra).
E allora mi è proprio venuto spontaneo pensare, e speriamo che Gino mi legga e mi risponda, ai cúđduriađdi cosentini, che sono ciambelle salate e fritte di pasta di patate, tipiche della vigilia di natale: servono a spezzare il tradizionale digiuno del 24 dicembre in attesa dell’abbondante cena.
la pronuncia del nome distingue i cosentini doc dai limitrofi, perchè bisogna essere indigeni per riprodurre il suono cacuminale della d!! Spesso si vede la grafia “cuddruriaddri” e fuori da Cosenza, in Sila ad esempio, li chiamano Cullurialli o Cullirielli, perchè il suono cacuminale nella loro varietà dialettale non esiste.
Quello che mi chiedo è se le nostre ciambelle cosentine si chiamino così perchè sono dei piccoli pani con un buco nel centro, così da rappresentare una forma propiziatoria e ben augurale! 
Dal blog qui sotto riportato
Blog Name: Lost in Arno
Blog Name: Lost in Arno
                                                                              Blog URL: http://lostinarno.wordpress.com





Minchia di Sicilia, una storia etimologico-linguistica




Mínçhia!
  
     Minçhia è il pène che porta bene, ma dà péne! Il Proverbio rileva che una volta la gente si sposava per togliersi un pensiero di minçhia, senza rendersi conto che se ne metteva mille altri nella testa. In questo caso, la decisione (quella di ammogliarsi o di maritarsi) non era stata presa dalla testa di sopra, che è quella deputata a decidere razionalmente, ma dalla testa di sotto, che dà ascolto alle pulsioni istintuali dell’Es e trascina la carne verso i deprecabili richiami del sesso. Per questo, a chi si era incaponito di sposarsi, si era soliti dire: “Ha fatto una scelta del káżzo!” Ed era un giudizio corretto.

 Etimologicamente, il termine minçhia ha nobili ascendenze nella lingua latina, derivando dal verbo míngere (orinare), da cui minzione (l’atto di míngere) e minçhia (l’addetto alla funzione del míngere, e ad altre cose). Ma, nel siciliano antico, minçhia! è una esclamazione che condisce, infiora ed insapora i discorsi della gente; per questo il termine lo trovi (metaforicamente, si intende) sulla bocca di tutti, essendo utilizzato in mille contesti e con mille funzioni diverse. Uno incontra un amico che non vede da tempo e affettuosamente gli dice: “Ma ’unni minçhia ha’ ştatu!”, cioè, dove cavolo sei stato? Un ragazzino è cresciuto più del previsto? L’esclamazione mista a meraviglia è spontanea: “Minçhia! come ti sei fatto grande”. Ma, l’epìteto può essere anche usato in modo esortativo, fraterno, facendo appello al Creatore: “Fa’ preştu, minçhiacaticriàu!” per dire “sbrígati, fai presto, diamine!” Ma, l’esclamazione può anche esprimere disappunto: “Ma, chi `minçhia vôi?” Per dire, cosa diavolo vuoi? E c’è ancora quella che rinvigorisce un avverbio di negazione; per esempio, uno non vuole addivenire alla richiesta di un altro? la risposta è lapidaria, concisa e precisa: “Ştamínçhia ti dugnu! Cu şta funćia’i mínçhia ca vêgnu!” Come dire:Sta’ fresco! Non ti do nulla… méttiti in testa che non vengo”.  Ma l’interiezione in oggetto viene usata anche per esprimere disprezzo: “Ştu minçhiuni! şta côppŭla’i mínçhia; ştu sucaminçhia; ştu minçhiai mari. [1] A seconda dei casi, però, il termine può registrare anche affettuosa considerazione nei confronti di un povero diavolo: “Chíssu è ’n-poviru minçhiunażzu! Cunta minçhiati niviri…” [2] Ma può essere anche minimizzante: “Fiçi ’na minçhiata!” Ha fatto una fesseria, oppure, “Ma, chíssa è ’na minçhiunata ’i nenti!” Questa è una cosa da niente. 
 Il termine, certamente osceno e triviale, infiora anche i proverbi: “Crídiri è curtisìa, di cu li cunta è la minçhiunerìa”.[3] Ma, se un evento è bello, come una cosa mai vista, orgogliosa di sé e di tutto rispetto, allora si dice: “È-ni ’na cosa minçhiunuta”, cioè, una cosa splendida, mai vista. In questa accezione, il termine, abbastanza ripulito da ogni bassa volgarità, esprime tutto il suo naturale candore e pudore, e può essere usato dalle persone per bene di ogni sesso e ceto sociale e, all’occorrenza, anche da bambine, monache, preti e persone di Chiesa. Da ricordare, infine, che nel 1927 Ragusa diventò Provincia avendo la meglio su Modica. I Modicani amareggiati lamentavano:“`Rausa provincia e a Muorica şta minçia!”  Ragusa è diventata provincia e i modicani sono rimasti con tre palmi di naso. "Na zunnata 'i menti!"

Gino Carbonaro 
da "La Donna nei Proverbi Siciliani"


[1] La minçhia’i mari è il cetriolo di mare: mollusco color marrone che vive nel nostro mare, colonizza fra le rocce della battigia. Ha forma di péne afflosciato quando sta fermo e arrotolato: Oloturia (scient. Holoturia tubulosa).
[2] Ma quello è un povero sventurato, queste sono cose da poco, va bene, ha fatto una stupidaggine.  
[3] Credere alle cose che ti raccontano è atto di cortesia, di chi li racconta è la minchionerìa, la stupidaggine.