2018/08/22

CARNIBELLA, Gaetano, Considerazioni a margine della sua poesia

Considerazioni sull’ermetismo
e sulla poesia di Gaetano Carnibella

La foresta degli specchi
      
                                                                di Gino Carbonaro



   Gaetano Carnibella mi passa (brevi manu) il suo ultimo libro di poesie.
Dalla sua mano, alla mia mano che lo accoglie. Il gesto apparentemente semplice è però denso di significati.


    In quel libretto elegante, titolato “La foresta degli specchi”, l’Autore mi consegna una parte di se stesso: il suo pensiero, la sua filosofia dell’esistere, i suoi sogni, il suo amore per la poesia. C’è timore e tremore in quella consegna. Il libro non cessa di essere di chi lo ha scritto, ma certamente diventa mio. E io so che lui diventerà parte di me, mentre il contenuto del libro rappresenta il pensiero dell’Autore, il suo modo di interagire e di relazionarsi con la realtà.


    Intanto, sfoglio incuriosito il libretto delicato, e vi leggo un immediato amore per la eleganza, la finezza e la cura degli editori: grazia dei caratteri scelti, preziosità della carta, design di copertina. Insomma presentazione in eccellenza. Un piccolo gioiello.


    Io da amante dei libri, ne registro la bellezza. Ma è il titolo che mi colpisce innanzitutto: “La foresta degli specchi”, che a me pare voglia indicare al lettore qualcosa di molto profondo. Se i protagonisti del libro sono gli uomini, siamo noi che viviamo in una foresta di specchi, dove le cose che ci circondano riflettono immagini, che subito si consegnano ad altri specchi per ritornare distorti e irriconoscibili là da dove sono partite. Una foresta è la vita. Dove non è facile capire, comprendere, districarsi. Tutto sembra essere un sistema di maschere. E subito la mia attenzione è richiamata da una poesia dove il poeta scrive (Dioniso, p. 40):


Ombre io vedo
Solo ombre
Polvere di tristi corde di violino


Dioniso, ti prego
Mesci il vino.


    Il titolo ha il fascino dell’intrigo. Più che il dire, la poesia suggerisce qualcosa che il lettore ha il compito di decifrare.


   Dioniso è divinità greca. Ed è l’unico Dio mascherato dell’Olimpo greco. Dio che è per metà uomo (perché figlio di Semèle, una donna) ma ancora divinità potente perché figlio di Giove, re dell’Olimpo che di una donna si era innamorato e da lei aveva avuto quel figlio.


    Ma, Dioniso è dio misterioso proprio perché coperto dalla maschera. Nessuno sa dire se è maschio o femmina, vecchio o giovane, folle o savio. Di fatto, dimora per sei mesi negli Inferi dove le dee hanno relegata Semèle (che aveva avuto l’impudenza di accogliere il seme di un dio), e per sei mesi sale nell’Olimpo solare con le altre divinità. Metà uomo, metà Dio, metà costretto a vivere nelle tenebre, per l’altra metà alla luce. (Ed è forse la Natura?) E però, Dioniso è l’unica divinità che può capire gli umani, e proprio perché uomo può capire le loro pene, le loro sofferenze. Perché sofferenza è la vita. Ed è ancora, Dioniso è il dio del vino che scioglie le pene degli umani, e lo libera dalle angosce.


    Carnibella che conosce la funzione del vino, ne riprende il tema in altra poesia (Muro di vita mia, p.73)


Muro di vita mia!
Sei vino scuro
Solitaria compagnia.


    La chiusa della poesia sottolinea il bisogno di dimenticare qualcosa che il poeta non riesce a decifrare. Il peso dell’esistere “Dioniso, ti prego, mesci il vino…(p.40) .. Vino scuro, solitaria compagnia” (p. 73). Vino per per sciogliere l’angoscia del poeta. Vino che ritorna ancora in un’altra poesia (Nuvola nera, p. 62)

Berrò
Nella coppa
I tuoi pensieri
Tutti gli umori


Brillo poi,
Di fuoco avvinghierò
I tuoi polsi,
morsi, sorsi
Su e giù tutta la notte
Senza mai fermarmi.
     
    Ma, il riferimento è ancora alla cultura greca che è presente nelle poesie di Gaetano Carnibella. Leggiamo insieme (Le mie ragioni, p. 53)..


Sui palchi
E sui sentieri scoscesi
Vedo gli amuleti sospesi.


Gorgoni
E artigli di gabbiano
Che dal mare
Coi loro gridi
Mi portano lontano.


Aruspici, Onfali,
Oracoli e Santi,
Placano così le notti
Degli eterni infanti.


   Non c’è bisogno di fare ricorso alla mitologia greca per capire che la “Natura” che ci circonda è “Foresta di specchi”. Mistero ricoperto di maschere. Enigma da decifrare. Groviglio da sciogliere.


    Si capisce che la poesia di Carnibella segue il dettato dell’ermetismo, di una corrente poetica che riflette la precisa volontà di cogliere in estrema sintesi la realtà nascosta delle cose, il mistero che ci circonda, per presentarla al lettore, che avrà anche lui il compito di decifrarne il messaggio. Quello di chi scrive.   


    In questo caso, il poeta acquisisce il ruolo che era stato della Sibilla cumana. Nell’osservazione della realtà, il poeta restituisce quello che percepisce e che riceve. I versi colgono il dicibile e l’indicibile, il comprensibile e l’incomprensibile della realtà, ma l’ambiguità rimane.  


    Nei fatti, la poesia (ermetica) di Carnibella si presenta sotto forma enigmatica. Il poeta lancia una sfida all’intelligenza del lettore, che è costretto a decifrare per cogliere i vari livelli del messaggio poetico, che non è solo logico, quanto piuttosto ricco di significati profondi. Poesie brevissime che si dicono ermetiche, come apertamente confessa il poeta in Andante (p.130).


Luzi, Montale,
Quasimodo,
Caproni, Ungaretti,
Stanno come i gatti
sui tetti …


Affetti?! Macché:
Solo sottili dispetti!!


    Ed è confessata la sua appartenenza alla corrente poetica del primo Novecento con il suo elogio della brevità. Il riferimento ci riporta a Ungaretti, il poeta che  si serve della poesia per cogliere la realtà che lo circonda per bloccarla, fissando il concetto con pochissime parole. Di lui va ricordato il famoso verso-poesia “Mi illumino di immenso”.


    Ma, va ricordato che Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto (1888), là dove due millenni prima era germogliata la Scuola Poetica Alessandrina di Mosco, Bione, Callimaco, Teocrito anche, poeti che infastiditi dalla lunghezza delle opere epiche, avevano condannato la  lungaggine della poesia epica gridando infastiditi: “Grosso libro, grossa sventura!” Ed era la prima storica contestazione contro le poesie chilometriche. Ed era elogio della brevità poetica.


    Leggendo le poesie di Carnibella, a me pare di poter cogliere ancora un collegamento significativo con gli Haiku giapponesi, poesie brevissime costituite da tre versi composti da 5-7-5 sillabe. La brevità fissata dalla tradizione giapponese intende cogliere un aspetto volatile della realtà. Tre brevissimi versi che non poche volte si presentano come potenti sciabolate da Samurai, concetti che richiamano alla memoria il pennello che il pittore-poeta giapponese usa per costruire uno shodo, ideogrammi capaci di cogliere in grande sintesi lo Zen delle cose. Lo Zen, va detto, è l’essenza della realtà, quella che solitamente sfugge all’osservatore superficiale. Ed è termine che è presente nel tedesco Zein (per l’appunto Essenza), e nell’italiano essENZa, che il concetto contiene. Leggiamo  una poesia di grande sintesi del nostro Carnibella (Complimento! P. 56).    


Quel giorno,
Destino,
Non mi guardasti in faccia!


… e ancora (in Sine nomine, p. 78)


Ma poi
amare,
amare,
a che serve amare?


    E tornano gli interrogativi che il poeta rivolge al cielo, interrogativi che non hanno eco, sui mille inspiegabili enigmi che la realtà pone ad ognuno di noi.


    Ma è chiaro che le chiavi di lettura della poesia sono diverse. Nella sua brevità, gustiamo insieme la bellezza di questi versi (La bellezza dell’ombra, p. 13)


La mia
anima
solitaria
guarda
la bellezza
dell’ombra,
mentre tu
ahimè!
mi sfuggi.


E quest’altra ancora.. (Tra notte e giorno, p.21)


Sulla riva
ho bevuto
il tuo umore
vita,
sei solo
un breve
rumore.


   E sono versi che imprigionano la mente lanciando una considerazione che chiama in causa la filosofia, perché è vero che la vita è un breve rumore. Ed è amarezza che ritorna in altra poesia (Lutto, p. 38)


Albe non vedo
All’orizzonte,
Il cielo è muto
Non risponde.


E ancora quest’altra (L’eterna tristezza, p, 74)


Così
tramonta
il giorno…


e la notte
si
addolora


E sono amari gli interrogativi in altra composizione
(Novembre incalza, p. 70).


Novembre incalza notturno
Mentre i morti
Aspettano il loro turno


Quello dell’affetto dei vivi
Che emettono
Solo brevi sospiri.


Ma vanno considerati i riferimenti al vento
Che per i greci era “pneuma” l’anima delle cose e della vita..
(Borea! p. 70)


Borea…
Perché così tanto ti amo?
Vento!


Che dire ancora? Che vale leggere questo distillato di poesie. Poche alla volta. Per riflettere, per nutrire l’animo, per gustarle come si fa con tutto ciò che nutre l’animo. Perché anche l’animo deve essere nutrito. Di cose belle.


      Gino Carbonaro