Spiagge, mare, villeggiatura ..
una volta!
Come cambiano i tempi!
Da sempre, e sino alla metà del secolo scorso,
qui negli Iblei la fascia costiera era deserta
e le spiagge erano lande abbandonate
che i pescatori osservavano dal mare.
Quasi tutto, poi, era proprietà
degli ultimi latifondisti siciliani,
che cercavano di cedere le sabbie delle dune
in enfiteusi a chi ne faceva richiesta.
Lo scopo era quello di ripulire il terreno e impiantare vigneti per realizzare un reddito.
Fra l’altro, le spiagge di sabbia dorata,
protette alle spalle da fitte barriere di dune e canneti, si raggiungevano con difficoltà
attraversando a piedi o a dorso di asino o di mulo, strette e sabbiose “carrate”.
Spiagge incantevoli e selvagge, che oggi definiremmo naturali, accarezzate dalle onde di un mare incredibilmente azzurro, pulito e sereno, dalla cui spuma i Greci immaginarono era nata Afrodite, dea della bellezza.
Spiagge e mare che accarezzavano l’animo quando accaldati per le difficoltà di quell’arrancare a piedi sulla sabbia delle carrate, si raggiungeva il colmo di una duna, dalla quale, a sorpresa, si apriva la magica visione del mare con tutta la sua bellezza e tutta la sua frescura. Spiagge solitarie, stazioni predilette da ammofile arenarie, tamerici salmastre e arse, poligoni delle sabbie, carpobroti dalle foglie grasse e carnose dal fiore generoso color fuxia, habitat privilegiate del bellissimo giglio marino, bianco e profumato, che si schiude tuttora alle brezze marine.
Spiagge isolate e solitarie non solo d’inverno, ma anche d’estate, perché fino ai primi degli anni Cinquanta non esistevano ancora strade litoranee e non era giunta in Sicilia la nouvelle vague che generò la moda del costume, del bagno, dell’andar per mare in barca, e della casa al mare. In quegli anni, non esisteva l’idea di vacanza, e pochi avevano tempo e soldi da dedicare alle ferie.
Ma va ancora detto che pochi avevano un rapporto privilegiato con il sole. E, se la società era divisa in nobili e plebei, la bronzatura della pelle la diceva lunga sulla estrazione sociale delle persone.
Plebei? Coloro che avevano la pelle annerita dal sole: contadini, soprattutto, e quanti lavoravano all’aperto. Nobili? Gli altri. I ricchi che vivevano in città, all’ombra degli aviti palazzi e non avevano bisogno di andar fuori per lavorare. Le nobildonne, poi, qualora avessero deciso di mettere il naso fuori di casa, nelle giornate di sole, facevano uso di “parasole” per proteggere la pelle dai raggi solari. E va ricordato che in Giappone vige tuttora una percezione similare del sole. E andando per le strade di qualche cittadina giapponese non è difficile incontrare delicate signore in kimono, che proteggono il viso dai raggi solari con eleganti ombrellini da sole. Anche in quella parte di mondo, la bronzatura bolla le classi subalterne.
E tornando in Sicilia, va ricordato il proverbio che recita “Fimmina janculidda unnici misi l’anno è malatedda”, e l’altro ancora che ricorda “Unni trasi u suli, nun trasi u dutturi”.
Questo non significa che non si andava a villeggiare. Ma, per fare questo bisognava possedere una villa. In campagna. E chi l’aveva, fuggiva la città per trascorrere i torridi mesi estivi nella frescura della campagna, per godere la sua “aria fina”. Si diceva proprio così. Ma, in campagna ci si trasferiva d’estate perché mancando nelle città un valido sistema di fognature, gli ambienti cittadini diventavano invivibili per quanto di maleodorante spazzatura o d’altro stazionava d’estate (ma non solo) nelle strade. Tanto evidenzia Raffaele Poidomani quando in “Carrube e Cavalieri” parlando delle vacanze a Pozzallo scrive: “Ma, prima del respiro del mare, assai prima di qualsiasi forma di odore che prendesse contatto con l’olfatto, giungeva alle nostre nari bruciando le mucose, l’aria delle cunette. Fognature scoverte queste, canalizzazioni dove si ammassavano i detriti organici della plebe, aspre digestioni proletarie, massicce angosce di fave poco condite, pesce di scarto fritto in olio cattivo,” .. e così via.
Mare? Bagni? Sole? Non entrano ancora nella cultura delle persone, e la famiglia Moncada-Poidomani, che da Modica si trasferiva annualmente a Pozzallo affittando la casa di donna Nela per il mese di agosto, non possedeva un villino sulla spiaggia.
Comunque, fino al 1960, lo status di spiaggia, spettava a quella di Raganzino a Pozzallo, alla spiaggia di Donnalucata e a quella di Mazzareddi, oggi Marina di Ragusa. Litorali che era possibile raggiungere a mezzo di strade statali o comunali. Per il resto, da Maganuco, a Sarciuri (Cicciuri), dalla piccola spiaggia di Cava d’Aliga, alla Filippa, si trattava di spiagge non facilmente accessibili, poco conosciute e incontaminate.
Faceva un piccolla eccezione Cava d’Aliga che subito dopo la seconda guerra mondiale d’estate ospitava una ventina di famiglie. Amanti del mare che tutte le mattine si incontravano sulla spiaggia, e di sera si riunivano a lume di luna (difatti, non c’era energia elettrica) per raccontarsi storie, fare comunione fra loro, cantare insieme accompagnati dal suono di una romantica fisarmonica e godere la frescura offerta dalla brezza marina. Infine, si salutavano dandosi appuntamento per il giorno dopo, di nuovo, sulla spiaggia.
Lì, al centro della piccola baia falcata di Cava d’Aliga, ai primi degli anni Cinquanta era possibile notare una capanna messa su con canne marine, dove una anziana, povera signora, viveva da anni alla maniera di Diogene. L’acqua era lì vicino, perché a quei tempi sorgenti di acqua pura zampillavano un po’ ovunque fra gli scogli vicino al mare.
Per il resto, il promontorio di Bruca era coperto da un vegetazione di tamerici (bruca o vruca, in siciliano) da ciuffi di canne marine, agavi, fra le quale trovavano spazio due o tre casupole tormentate dai venti. Determinava un forte impatto ambientale la presenza di uno squallido edificio adibito a stazione della Guardia di Finanza, in seguito trasformato in ristorante.
Ma, fu a Raganzino che a partire dagli anni Venti i primi imprenditori cominciarono a montare sulla spiaggia complessi palafitticoli costruiti con legni e tavole. I cosiddetti chalet, per dirla alla francese, che contenevano cabine numerate, affittate a ore. Struttura che consentiva alle famiglie di poter indossare il costume da bagno, preistorico, e artigianalmente fatto in casa col sistema della calzamaglia. E siccome il denudarsi aveva a che fare con la morale e con quello che avrebbero pensato i preti e la gente, il novello costume da bagno, di lana o di cotone, ebbe solo l’impudenza di sagomare un pochino le forme dei maschi e delle donne, badando bene a coprire quanto era vietato dall’allora vigente buonsenso.
Considerato poi che la lana immersa nell’acqua gonfiava e si appesantiva, i costumi, tutti rigidamente in nero, poi blu scuro e marrò, ebbero le bretelle per meglio contenere i pesi: sia quelli dei seni delle signore, che quanto d’altro pendeva nel corpo dei maschi.
Ma agli inizi, le prime persone che si avvicinarono al mare si toglievano scarpe,calze e camicia restando in canottiera, e ripiegando più volte i pantaloni lunghi per non farli bagnare. Non pensavano al bagno, ma solo a rinfrescarsi i piedi con l’acqua del mare. Le donne poi, quelle che portavano i bambini sul bagnasciuga ruotavano più volte le gonne per sollevarle, infilandole dentro le mutandine. Scene originali, spesso comiche, per noi. Ma era proprio così.
Tutto cambia verso la metà degli anni Sessanta. E più velocemente ancora con la grande rivoluzione del ‘68, cui va aggiunta la crescita del benessere economico, la nascita delle serre, la creazione di strade litoranee che sventrarono la macchia mediterranea e misero in contatto paesi e stazioni balneari da Scoglitti a Pozzallo. Da qui il boom dell’edilizia e della agricoltura intensiva, l’aggressione alle coste, l’indebita appropriazione delle dune e dei promontori trasformati in blocchi di cemento armato, e così via.
Intanto, col progresso, i costumi da bagno diventarono monopolio della industria tessile, e qualche giovane donna, ma solo a partire dalla metà degli anni Sessanta, ebbe il coraggio di apparire sulle nostre spiagge indossando il “bikini”, il famoso “due pezzi” che metteva in mostra l’ombelichetto e pure il pancino. Lo scopo? Farsi prendere dal sole “paro paro” e abbronzare quante più parti del corpo protette da un intonaco di creme. Qualcuno però, soprattutto i maschi, godevano nel guardare in anteprima le armoniose fattezze dei corpi femminili esposti al sole.
Il mondo cambiava. Sesso e mare diventavano sinonimi. Le donne si distendevano sulla calda sabbia, al sole d’estate, per far dire a una canzone del tempo: “Sei come una lucertola. Tutto il giorno al sole sulla sabbia che brucia nell’odore del mare”. Insomma, era nato un nuovo progetto di vita e di morale. Era nata una nuova civiltà!
Gino Carbonaro
gino.carbonaro.italy@gmail.com
Nessun commento:
Posta un commento
Puoi cambiare questo messaggio sotto Impostazioni > Commenti