Riscoperta del passato
Canonico
Orazio Spadaro
pittore della luce
di Gino Carbonaro
Ricordo del canonico Spadaro
A Modica, il canonico Orazio Spadaro abitava
a poco più di cento metri da casa mia. In Corso Garibaldi n. 124; lui, proprio
sotto la Chiesa
di San Giorgio; sul vico Giallongo, dall’altra parte del Corso Umberto, abitavamo
noi.
Io, da piccolo, lo incontravo spesso.
Appariva a sorpresa dalla via Fratantonio, alto, magrissimo, intabarrato nella
sua tonaca nera sulla quale portava spesso una mantella, anch’essa nera, con in
testa l’immancabile cappello da prete dalla larga falda. Scendeva lentamente,
con difficoltà, i gradini di via Magg. L. Barone.
Erano i primi degli anni Cinquanta e lui,
il canonico Spadaro, aveva di già superato i settant’anni.
All’inizio, io non sapevo chi era questo
personaggio che attirava tanto la mia attenzione, ma un giorno, il nostro sacerdote
si trovò a passare, mentre mio padre ed io eravamo fuori, sul marciapiede, davanti
al nostro studio fotografico. Mio padre lo osservava in silenzio, poi, all’improvviso
esclamò: “Quello è un grande pittore!”
Fu così che conobbi il canonico Spadaro,
con questa inattesa e lapidaria considerazione di mio padre, ma fu un giudizio
che si scolpì nella mia mente, e che custodii per sempre nella mia vita.
Mio padre, appassionato d’arte, era fotografo
di professione, e mi portava spesso con sé quando si recava in Chiesa per servizi matrimoniali, e accadeva
non di rado di trovare dipinti del canonico Spadaro, là dove si andava. Mio
padre non mancava mai di osservarli, e alla fine aveva sempre da dire bene di
quelle pitture che guardavamo con molta attenzione e molto rispetto.
La Chiesa di Pozzo Cássero
Un giorno, il caso volle che insieme si
andasse nella Chiesa del Sacro Cuore di Pozzo Cassero. Lì, la sorpresa fu
grande. La Chiesa, molto luminosa, mi sembrò una Galleria d’arte sacra: San
Pietro, un po’ calvo con le chiavi in mano, S. Giovanni che battezza Gesù, e la
colomba dello Spirito Santo in alto; San Francesco di Paola, sguardo ascetico
rivolto verso il cielo con corona in mano, opera molto bella; il ritratto da
una immagine nota di Santa Gemma; Sant’Ignazio di Loyola; Sant’Antonio di
Padova; San Giorgio a cavallo mentre uccide il Dragone e, ancora, una bella Crocifissione.
Era quella la Chiesa, nella quale il
canonico Spadaro aveva trascorso buona parte della sua vita espletando il suo
ruolo pastorale.
Capii, in seguito, perché il nostro
sacerdote-pittore avesse deciso di accettare, già nel 1924, l’invito della nobildonna
Grazietta Castro, quello di reggere la
piccola chiesa di campagna.
La proposta, giuntagli quando era nel
pieno della sua maturità di uomo e di pittore, gli sarà sembrata un dono del
Signore. Lì, nella pace reale di quell’angolo di campagna, nel francescano
silenzio, dove è possibile ancora oggi cogliere il respiro della natura, lui
avrebbe potuto appagare la sua grande aspirazione: quella di vivere per gli
altri realizzando la sua vera natura di sacerdote, di uomo riservato e schivo,
e soprattutto quella di pittore.
La sua religione era la pittura
Forse, la sua religione era la pittura, e
comunque, mai pittura fu più ricca di soggetti religiosi. Nei fatti, e certo
con le dovute cautele, quella Chiesa disadorna sarebbe stata la sua piccola Cappella
Sistina.
Ma la sorpresa, per me ragazzo, non fu
determinata dalle grandi pale presenti all’interno della Chiesa, né dalle
interessantissime icone della Via Crucis,
dipinte con grande amore, con una pittura dalle pennellate agili e fresche; la
vera sorpresa, per me e per mio padre furono due quadretti che trovammo, pochi
giorni dopo, esposti nel salotto di una casa privata: il viso di una giovane
Madonna Addolorata e soprattutto il volto straziato dalla sofferenza di un Cristo giovane: il viso appena rivolto
verso l’alto, la bocca dischiusa, il bulbo oculare dominato dal bianco, la
corona di spine sul capo. Il quadro, stupendo, caravaggesco per la forza
realistica, registra la sofferenza dell’Uomo, forse di tutti gli uomini, e ha
le connotazioni di una preghiera modulata con i toni del colore. Nessun
discorso fatto con le parole potrà mai trasmettere, far capire agli altri
quello che può aver provato Gesù, condannato a morte e al pubblico ludibrio,
ingiustamente, e ora affranto dal dolore.
Il canonico Spadaro sentiva fortemente il
personaggio di Gesù Cristo, non tanto il suo messaggio evangelico, quanto la
sua sofferenza, la sua ingiusta condanna e di riflesso la nostra colpa,
indiretta, metafisica. E dipingeva il viso del Cristo, come prova documentale
di un danno arrecato a un innocente: quasi atto di accusa, documento di un
patimento ingiusto, la cui colpa avrebbe potuto ricadere su tutti noi.
Il ritratto di Gesù è, comunque, stilisticamente
figlio della cultura ottocentesca, ma la realizzazione del soggetto umanizzato,
che sposa romanticismo e realismo, ha una luce nuova che il nostro pittore
mutua forse dal Tiziano, suo pittore preferito, ed è soggetto che prende le distanze
dagli stereotipi, che solitamente caratterizzano la pittura sacra del xix sec.
Modernità del canonico Spadaro
Modernità e grandezza del pittore non si
evincono solo dalla opere sacre, che seguono modelli dettati da una tradizione
plurisecolare, dai quali il canonico Spadaro, dato il suo ruolo sacerdotale e
la sua indole, non avrebbe potuto mai discostarsi, e che dovevano rispondere
alle aspettative della committenza, soprattutto, dei fedeli che sono i veri
fruitori delle opere sacre.
La modernità di questo artista è nel suo
farsi parte di una corrente pittorica italiana, quella di cui diremo più avanti,
e si evince dalle opere di piccole
dimensioni con soggetti profani, quelli che il canonico Spadaro realizzava per
diletto, e nei quali il nostro pittore non si sentiva vincolato agli obblighi
della committenza.
Era nei piccoli quadri, oltre che in certi
ritratti (vedi quello della madre) che
il pittore si libera, segue il suo sentire, la sua fantasia, la sua poetica, il
suo modo di fare arte e di fare pittura. Ci riferiamo a soggetti dove domina la
campagna, il mare, il paesaggio, dove senti la suggestione del verde dei prati,
del cielo celeste, del giallo delle nostre estati bruciate dal sole. È in
queste opere che il nostro pittore mette in pratica le tematiche legate al rapporto
luce-percezione, così come suggerivano i più moderni orientamenti della pittura
italiana e francese.
Da queste opere (quelle di piccolo formato, si è detto) si evince che il canonico
Spadaro era consapevolmente legato ai maestri italiani dei primi decenni del xx sec., e che avesse perfetta
conoscenza della corrente pittorica che partendo da Giovanni Fattori e dai
macchiaioli, transitava attraverso il divisionismo di Giovanni Segantini, il
colorismo di Francesco Paolo Michetti, sino
alla pittura del romano Giulio Aristide Sartorio.[1]
E sembra certo, così come qualcuno ha scritto,
che verso il 1908, il canonico Spadaro abbia frequentato a Roma lo studio del
Sartorio, e che da lui abbia potuto prendere lezioni di pittura.
Tanto può essere affermato, se si guardano
le opere del pittore romano, non per cercare una univocità di soggetti con le
opere del nostro prete-pittore, ma per confrontare il modo di gestire la
pennellata, l’uso degli impasti e gli accostamenti dei colori, che in entrambi tengono
conto dello spettro luminoso rilevabile nell’arcobaleno, e soprattutto la
volontà di rendere la pittura figlia della luce. Tanto insegnavano certi
impressionisti francesi e certamente tutti i “coloristi” italiani.
Lo scopo, per i pittori di cui abbiamo
parlato era quello di accendere di luce il quadro.
La pittura come messaggio di purezza
spirituale
Questa lezione del “colorismo
naturalistico” italiano, il canonico Spadaro non la dimenticò mai. Difatti, se
è vero che il San Giovanni Evangelista
(1931) della Chiesa di S. Giovanni in Modica Alta è opera piena di un candore luminoso,
è solo nelle opere profane e di piccolo formato che il nostro pittore, si è
detto, entra di diritto a far parte della corrente dei “pittori della luce”.
A questo secondo gruppo di opere, appartiene
lo stupendo "Campo di papaveri" (coll. privata) dove è possibile rilevare
tutto il candore spirituale di questo sacerdote-pittore dall’anima pura. Nel
quadro senti l’aria cristallina della nostra campagna, la luce e le trasparenze
proprie della Sicilia, e puoi ancora sentire il profumo della primavera che
rinasce dopo il riposo invernale e si veste con fiori di mille colori. Ed è
possibile cogliere ancora il silenzio della campagna modicana, che il canonico
Spadaro riprende sotto l’aspetto bucolico
e georgico insieme, non arcadico come qualcuno ha scritto.
In queste opere,[2] vanno rilevati due aspetti: la scelta dei soggetti,
diversi da quelli religiosi in senso lato, e la purezza che il nostro pittore ritrova
nei bambini, nella campagna in fiore e nella luce di cristallo della nostra aria.
Come le cose che descrive, anche i colori sono
puliti, semplici negli impasti, capaci di esprimere la serenità del creato, soprattutto
quella incontaminata e primigenia, che in primavera si ritrova nella natura,
come nella fanciullezza ignara del peccato e del male che alberga negli uomini.
Da un punto di vista pittorico, alcuni di
questi quadri sono ripresi in controluce, in un coabitare di luci e ombre, vedi
l’opera Pergolato nel giardino. Temi difficilissimi
da realizzare per un pittore comune, ma che il canonico Spadaro sceglieva quasi
per scommessa con se stesso, per misurare la sua abilità di pittore, per cimentarsi
nel gioco di colori infiniti provocati dalle luci e dalle ombre.
Le due direttive della pittura del canonico
Spadaro
Nella pittura del canonico Spadaro si
rilevano, dunque, due direttive: la prima, orientata verso i soggetti sacri, quasi
tutti destinati alle chiese, che comprende opere convenzionali, dove il nostro
pittore tiene presente i principi “canonici” dettati dalla tradizione
ecclesiale. In queste domina una iconografia riconosciuta che richiama i concetti
di santità, tripudio, gloria, vittoria sul peccato.
Nella seconda direttiva, profana e laica,
domina la luce, la sanità (sinonimo di
santità?) di una natura intesa come creatura di Dio, natura capace di
sprigionare un vero, sublime, spirituale godimento dell’anima.
Insomma, presenza di Dio nei Santi dipinti
nelle chiese, e presenza di Dio nella purezza di una natura incontaminata:
quella che spesso la vita non ci fa notare e che non riusciamo ad apprezzare.
La vera pittura del canonico è da cercare
in questa sua seconda anima, in questo suo modo francescano di intendere la
vita, la religione, la pittura e la presenza del Creatore nel creato, nella sua
luce, nei suoi colori, nella sua bellezza incontaminata.
La pittura italiana a cavallo fra il xix e il xx
sec.
Per capire la corrente pittorica cui appartiene
il canonico Spadaro, dobbiamo andare indietro, alla seconda metà dell’Ottocento
italiano, quando nel campo della pittura si sviluppa una grande rivoluzione.
I pittori che da sempre avevano dipinto solo
all’interno dei loro studi e di ambienti chiusi, scoprono la bellezza della natura
e con essa la luce, che diventa elemento centrale dell’opera pittorica.
Il colore posto sulla tavolozza non è
luce, lo diventa se si adottano particolari accorgimenti al momento di distenderlo
sulla tela: con l’uso accorto di colori-fratelli, gli stessi che stanno gli uni
accanto agli altri nello spettro di luce dell’arcobaleno.
I pittori
italiani (chiamiamoli tutti “Pittori
della luce”, per comodità) e i pittori francesi della seconda metà dell’800
(Impressionisti) si conoscevano, ed
entrambi vivevano la suggestione della nuova scoperta, con ciò realizzando una
pittura più vicina a ciò che offriva la moderna scienza fotografica, il cui
etimo parla proprio di (de-)scrittura
(γραφία) con la luce (φως/φοτóς).
Giovanni Fattori, che era stato a Parigi, aveva
visto i quadri di Edouard Manet e aveva visitato lo studio di Camille Corot,
caposcuola riconosciuto degli impressionisti; Corot, a sua volta, aveva
soggiornato più volte in Italia. Tutti erano consapevoli della importanza della
luce solare, che fa cambiare colore alle cose a seconda della ore del giorno e
delle stagioni; luce che si poteva cogliere meglio in campagna, dove i pittori
si recavano per trovare nuova ispirazione e captare dal vivo le suggestioni
percettive offerte dalla luce naturale.[3]
La pittura, dunque, non si fa più all’interno
di uno studio, ma all’aperto, en plain air, a contatto con la natura, là dove
tutto è coperto da una atmosfera che rende romantici paesaggi, marine e campagne.
Il successo del canonico Spadaro
Nella
Contea di Modica della prima metà del xx
sec., il canonico Spadaro è personaggio molto isolato; ciò nondimeno fa parte della
corrente pittorica di cui si è detto; ed è consapevole del ruolo e della
funzione di quella pittura.
Che di lui, come pittore, si siano
interessati in pochi; che pochi abbiano preso in considerazione la sua pittura
da un punto di vista critico; il fatto che il nostro pittore non ha avuto risonanza
in campo nazionale; tutto questo è dovuto, in parte, alla sua modestia, al suo carattere
schivo e umbratile e al suo bisogno di appartarsi. Chi vive ed opera in
campagna, lontano dalla città e dai grandi centri culturali; chi non ama
partecipare a mostre, cioè a mostrare le sue opere per farsi conoscere, è
destinato a restare uno sconosciuto.
Si aggiunga ancora che la nostra provincia,
terra che è periferia d’Italia e d’Europa, nel passato non era in grado di rilevarne
lo spessore; e si capisce perché solo oggi, a quasi centoventicinque anni dalla
nascita, grazie alla intelligente iniziativa della dr.ssa Anna Malandrino e
alla sponsorizzazione del Liceo Classico
Umberto I° di Ragusa, nella persona del suo Preside prof. Vincenzo Giannone, si
è pensato di riconsiderare ruolo, funzione e grandezza di questo uomo solitario,
che visse facendo a gara con se stesso per non farsi notare, mentre, in realtà,
era al centro della attenzione di quanti, soprattutto pittori di provincia e
collezionisti, gli riconoscevano i meriti di un talento e di una superiorità
fuori di ogni discussione.
Gino Carbonaro
gino.carbonaro.italy@gmail.com
La famiglia
Assenza-Spadaro.
Le prime lezioni di
pittura che il canonico dà ai nipoti
Beppe e Enzo Assenza e
Il canonico Spadaro era zio di Beppe, Enzo e Valente
Assenza, i quali hanno sempre ricordato l’affettuoso legame avuto con lo
zio canonico, che aveva acceso la loro passione per l’arte, educato la loro
sensibilità, dando loro le prime importanti lezioni di pittura. I tre fratelli
modicani diventarono poi pittori, scultori e ceramisti di fama nazionale e
artisti non secondari nella storia dell’arte italiana del XX sec.
Di Beppe Assenza (Modica,1905 -
Dornach,1985), poi fondatore di una scuola di pittura molto conosciuta in
Svizzera, il prof. Emanuele Minardo, biografo ufficiale del pittore, racconta: “Nell’atelier dello zio, il piccolo Giuseppe osservava i
quadri con devota ammirazione: considerava quello studio un luogo sacro, e lo
zio era per lui non solo il Maestro, che gli risvegliava la capacità di penetrare
nell’arte, ma era anche la guida nella sua vita culturale. A quindici anni,
Giuseppe lasciò la scuola e iniziò, presso lo zio una preparazione più rispondente
ai suoi obiettivi artistici. Durante le lunghe passeggiate giornaliere,
attraverso i boschetti di cipressi, sotto alberi di ulivi, mandorli e carrubi
del paesaggio siciliano, lo zio teneva le sue lezioni. Il pio uomo,
compenetrato degli ideali di umanità, esponeva le sue conoscenze di storia
dell’arte e di storia sacra (…) A diciotto anni, lo zio gli consigliò di
cercare stimoli nuovi andando fuori della Sicilia. (Emanuele Minardo, Beppe
Assenza, Edi Argo, 2005) Beppe
Assenza fu seguace dei principi teorizzati dal pittore tedesco Rudolf Steiner.
Principi di Antroposofia che si
rifacevano alla teoria del colore di Wolfgang Goethe, e che si ridefinivano in
un rapporto particolare uomo-spirito-colore. Il colore era, insomma, il mezzo attraverso
cui cogliere le varie emozioni dell’anima e i messaggi più profondi
dell’essere, insomma la vera voce dello spirito umano. In questa sede, serve
rilevare come Beppe Assenza abbia fatto proprie le istanze dello zio canonico:
la intima fusione fra pittura e sacralità dello spirito. Lo zio, insomma, aveva
dato il suo imprinting culturale, quello che lo stesso avrebbe potuto definire “Chrisma”.
Enzo Assenza (Pozzallo
1913 - Roma 1983) ceramìsta e scultore, oltre che pittore, ha lasciato una Madonna in bronzo, presso la cattedrale
di Manila (Filippine); la ciclopica
interpretazione dell’Apocalisse in
ceramica policroma di 12x30 metri della Cattedrale di Saint Joseph ad Hartford (Connecticut, Usa)); la decorazione
absidale della Chiesa di Saint John ad Atlanta (Georgia, Usa); la stupenda statua di Santa Lucia, in legno dorato, della chiesa omonima di Buenos Ayres.
[4]
[1] Su Giulio Aristide Sartorio, che ebbe incarico di
dipingere scene della Prima Guerra Mondiale in Parlamento, i giudizi della
critica non sono positivi: lo si disse pittore “pomposo”. Ma forse il giudizio
va riveduto.
[2]
Fra le centinaia di opere che il canonico Spadaro
ha dipinto nella sua lunga vita ricordiamo: In
vacanza, Il cancello del villino,
Maggio in fiore, Girotondo all’aria aperta, bambino con arance e,
soprattutto “Pergolato nel giardino, tutte
in collezioni private.
[3]
In questo periodo fu messo in atto il cavalletto
mobile.
[4] “Il padre era
decoratore e lo zio, il famoso canonico Spadaro, era pittore. Ma fu nello
studio dello zio che Enzo, Beppe e Valente fecero le loro prime esperienze
artistiche, ed ebbero le loro vere lezioni di pittura”. ( Renato Civello, Valerio
Mariani, Gino Carbonaro, Enzo Assenza, Thomson, 1972).
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