Il fico e la donna. Analogie sessuali
Gino Carbonaro
Il fico e il suo frutto sono stati da sempre associati alla donna. Nell’antichità romana l’albero sacro alle donne era il caprifico (fico delle capre o fico selvatico, ’u ficaşŧŕu). Dea protettrice era Giunone Caprotina, che a Roma veniva festeggiata alle “none” di luglio,[1] giorno in cui le donne si recavano fuori delle mura, e presso un vecchio caprifico sacrificavano alla loro dea.
Per i Greci, la parola fico (σύκον) indica sia il frutto della pianta che l’organo sessuale femminile.[2]
φ
È curioso il fatto che la φ (fi, phi o effe, ventunesima lettera dell’alfabeto greco) è simbolo grafico che richiama alla mente il sesso femminile (fica), mentre ricorda il frutto del fico. La fessurina del fico maturo stillante miele e il rigonfiamento del sesso femminile stimolavano proiettivamente la fantasia dei Greci.
In linguistica, φ (phi) è segno della vita e di ciò che dà vita: da notare le parole che hanno inizio con la effe: femmina, fessura, fica, feto (colui che vien fuori, alla luce), Fetonte (figlio del Sole), fiore (che darà il frutto della natura), frutto, fertilità, fecondità, fallo (colui che dà la vita), falò (che dà luce) facondo, fonte, favola; sono termini che indicano ciò che “vien fuori”, che aprendosi dà vita. Ma, anche proli-fica (da facio, fare, creare) è colei che genera molta prole.
Nelle simbologie che operano in questo campo, va ricordata una anonima canzone siciliana intitolata “La Ficu ” che recita così: “La vitti ’mpinta‿a ’n-árvulu/ la ficu ca pinnìa/
Ed era trôppu âuta/ piġğhiari ’n-la putìa/ Di sutta taliànnula/ lu meli ci currìa/
Di `đa vuccuzza amabuli/ lu meli ci spannìa/
Essennu sutta `đ’arvûlu/ ’na rama `n’affirrai/
Ficuzza mia, certissumu/ `pi `certu ti manćiai. [3]
Ed era trôppu âuta/ piġğhiari ’n-la putìa/ Di sutta taliànnula/ lu meli ci currìa/
Di `đa vuccuzza amabuli/ lu meli ci spannìa/
Essennu sutta `đ’arvûlu/ ’na rama `n’affirrai/
Ficuzza mia, certissumu/ `pi `certu ti manćiai. [3]
[1] Le none corrispondono al 7 luglio. (Vedi à Macrobio, Saturnalia, Utet, p.189/191)
[2] Vedi à Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano, Sandron, 1951, p. 970
[3] La vidi appesa a un ramo, la fico (va tenuta al femminile) che pendeva/ ma era troppo alta e non potevo afferrarla/ Guardandola di sotto vedevo scorrere il dolce miele da quella amabile boccuccia/ (Però) essendo sotto l’albero riuscii ad afferrare un ramo e certamente Ficuzza mia, riuscì a prenderti e a mangiarti. (F. Paolo Frontini, Eco della Sicilia, Ricordi, 1936, p.7-9). Il tema del frutto appeso al ramo e non raggiungile è allegoricamente presente nella letteratura antica. Da ricordare la poesia nella quale Saffo paragona il suo amore a una mela: “Come la mela alta rosseggia sul ramo più alto/ La dimenticarono nella raccolta. No! non la poterono cogliere. (Saffo, Fr. 105 a )
Potrebbe esserci un rapporto fra il fico (frutto) maturo stillante miele e il sesso femminile. Di certo, per i Romani il fico selvatico era albero sacro alle donne. La scheda è inserita nel libro "La Donna nei proverbi siciliani" di Gino Carbonaro.
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