2020/11/22

CAMERA OBSCURA Camera oscura

  

Camera obscura


   di Gino Carbonaro


La camera oscura, che ho più volte ricordato, era il polmone dello studio fotografico di quel tempo, così come la cucina è tuttora il cuore di un Ristorante. Era lì, al buio che si realizzava la maggior parte del lavoro.

    

  Da noi, di camere oscure ce n’erano due. La prima, la più antica, era quella dove lavoravano i miei genitori, l’altra dove lavoravano i collaboratori di mio padre e in seguito io. Era una stanzetta di una decina di metri quadrati, priva di finestre, idealmente divisa in quattro parti, dove, entrando, a sinistra c’erano gli scaffali sui quali stavano in bella vista le riserve di carta fotografica per lavorare. C’erano tutti i formati, e tutte le gradazioni di carta fotografica.

·  Formato 4x6 cm. per le tessere  d’identità;

·  6x9 per le foto-ricordo di fidanzati e mezzo-busto da conservare nel portafogli;

·  10x15 “formato cartolina”, era detto, formato classico, per foto di persone all’impiedi, o piccoli gruppi;

·   

·  il 13x18, era il formato che rispettava la sezione aurea del raggio, e a me piaceva molto;

·  il 18x24, formato quadrotto;

·  il 24x30, il 30x40, il 40x50, il 50x70 e, subito dopo, appoggiati al muro erano posti i rotoli di carta fotografica per gigantografie.


  Questa non indifferente riserva di carta o cartoncino fotografico sensibile, era ancora suddivisa in gradazioni: Morbido (M), Normale (N), Vigoroso (V), Extra Vigoroso (EV), divisioni che servivano a compensare morbidezza o contrasto dei negativi. Se il negativo era morbido, si usava la carta vigorosa, e, viceversa, se il negativo era contrastato si usava la carta morbida. I quattro pacchi di carta prescelti si aprivano solo quando si spegneva la luce bianca e si accendeva la luce rosso-scura. Il foglio di carta fotografica, si sa, era coperto da un supporto di bromuro d’argento sensibile alla luce, e se un foglio di carta fotografica fosse stato lasciato alla luce bianca di una lampada o alla luce del sole, il foglio si sarebbe annerito in pochi minuti. Ovviamente, solo dalla parte sensibile.

 

Accanto a questi ripiani c’era l’archivio dei negativi e del lavoro già fatto, solitamente non in ordine, e qui finiva la parete sulla quale era poggiato anche un piccolo tavolo.

 

  Frontalmente c’erano tre potenti ingranditori, il “Lupo”, il “Siluro” e il Durst, adibiti a funzioni diverse. Due per ingrandimenti e gigantografie, uno per i dilettanti.

 

   Sulla parete di destra c’era la zona-lavoro. Prima a sinistra, c’era la stampante, costruita da mio padre artigianalmente, con la quale si svolgeva il 100% del lavoro di studio. In questa, si stampava bianco-nero solo per contatto “negativo-e-carta-fotografica” poggiati insieme su un vetro smerigliato sotto il quale si trovava una forte lampada che veniva accesa alla bisogna premendo un bottoncino. Subito accanto alla stampante c’era un ripiano di cemento su cui era poggiata la prima bacinella, quella dello sviluppo, dove si immergevano le foto appena stampate. Sulla bacinella dello sviluppo si trovava una pietosa plafoniera che emetteva tanta luce rossa da consentire all’operatore (o all’operatrice) di seguire il lento venir fuori delle immagini. Ed era processo che bisognava seguire con molta attenzione, e tirar fuori alla svelta la foto, quando l’immagine aveva raggiunto il livello ottimale di contrasto, per passarla ancora a destra in altra vaschetta sulla quale scorreva acqua corrente. Il lavaggio era indispensabile prima di passare la fotografia dallo sviluppo alla bacinella dove si trovava il fissaggio, sostanzialmente acqua dove erano sciolti reagenti (iposolfito di sodio, metabisolfito di potassio, e altri sali ancora) che bloccavano/fissavano per sempre la immagine della foto, che altrimenti avrebbe continuato a venir fuori senza fermarsi, sino a diventare nera.

 

    Io che sin da piccolo ho aiutato i miei genitori, avevo il compito di togliere le foto dal fissaggio, immergerle e lavarle molto bene in acqua corrente per eliminare totalmente i sali dalla superficie della fotografia. Dopo averle lavate, le riprendevo, e le appendevo con dei ganci, una ad una, a una cordicella per farle asciugare, come si fa con i panni appesi al sole. Una volta asciutte, le riprendevo, le rimettevo per categoria, le ritagliavo con una frastagliatrice…

 

FOTO n. 56

 

Frastagliatrice

 

… e le riponevo dentro le buste, pronte per essere consegnate al cliente.

 

    Come è possibile vedere, il mio lavoro era apparentemente secondario, anche perché si svolgeva alla luce del sole, ma rubava molto tempo allo studio.

 

   Da un punto di vista didattico era un intervento perfetto, perché io, bambino, davo il mio contributo partendo dalle cose più facili da fare, dalla periferia, per poi essere cooptato gradatamente verso le operazioni più complesse e centrali.


  La crescita nell’apprendimento del mestiere avvenne per me quando mio padre mi volle accanto a lui nella camera oscura e mi diede la pinza per gestire le fotografie che, appena stampate, venivano inserite nello sviluppo, per essere poi passate nel fissaggio. Ricordo benissimo. Mi sentii importante.  E, importante ancora mi sono sentito quando mio padre mi diede il carico di preparare gli sviluppi e i fissaggi per i negativi, e per la carta fotografica. Così, quando era necessario, prendevo il bilancino, avvicinavo a me tutti i prodotti chimici, li pesavo, li mettevo uno alla volta in un boccale, versavo acqua q.b. mescolavo fino a quando i prodotti chimici si scioglievano, e lasciavo poi tutto fermo per una notte, per far decantare le soluzioni. Il giorno dopo, prendevo un imbuto ponevo un fazzoletto sull’imbuto, e versavo il soluto in recipienti di vetro. Mio padre non si lamentò mai di nulla. Come dire che il mio lavoro di bambino era in regola. Comunque, non avremmo detto tutto, se dimenticassimo di ricordare che i veri protagonisti della “camera obscura” erano le due lampade rosse, di un rosso scuro, quasi invisibili, piazzate in due punti diversi della stanzetta  assieme a  una  lampada  che restava sempre accesa. Le due lampade rosse rendevano possibile vedere anche al buio, solo quando, dopo qualche minuto, gli occhi si abituavano a quella luce rossa, ma molto scura, che serviva a proteggere negativi e carte fotografiche che venivano definite “ortocromatiche”, sempre riferito alle emulsioni fotografiche sensibili a quasi tutte le bande dello spettro visibile, fatta eccezione per il rosso. A me, ricordo, piaceva definire daltonico il bromuro d’argento, che non era disturbato dalla luce rossa. “Pancromatiche”, invece, erano definite tutte le pellicole che sarebbero state disturbate da tutti i colori, anche dal rosso. Per questi negativi era d’obbligo lavorare quasi completamente al buio con l’ausilio di una quasi invisibile luce verde, ma sempre molto scura.


    Quando la luce era accesa, va detto, su un tratto di parete libera era posta in evidenza una stampa della Madonna delle Milizie a cavallo che, spada in mano, sbaraglia i Turchi che avevano occupato la Sicilia. Era un modo per ricordare in icona la  Madonna protettrice di Scicli e una pagina di storia passata.    

 

FOTO n. 59

 

Macchina fotografic scatola

Formato 6x9

 

FOTO n. 60

 

 

COMET Formato 4x6

Negli anni ’50 costava 3500 Lire

Era la macchina più venduta ai Dilettanti. 

                   Adesso immaginiamo di poter entrare insieme in una camera oscura, dove due persone stanno lavorando. Si chiede permesso. Si apre con cautela la porticina d’ingresso. Si sposta una tenda nera. Si evita di fare entrare luce dall’esterno. Si entra. E voilà. La prima impressione non è quella visiva, del buio totale o quasi che ti costringe a camminare alla cieca, ma l’odore acre di bromuri e sali e prodotti e reagenti chimici che colpiscono le nari, e ti fanno capire di essere in una zona off-limits. Poi, lentamente gli occhi si adattano alla poca luce che c’è, e finalmente riesci a vedere colui, o coloro, che stanno lavorando. Puoi vedere chi stampa (mio padre), vedi colei  che segue il lento apparire delle immagini immerse nello sviluppo,  e cura di immergerle nel fissaggio (mia madre).

 

   Di fatto, i miei genitori lavoravano stando all’impiedi, e trascorrevano le loro giornate al buio, come pipistrelli, quasi sempre in silenzio. Giornate intere. In quell’aria a dir poco non igienica, impregnata di acidi. Giornate di lavoro lunghe. Dalle tre/quattro del mattino sino alle undici di sera. Sempre rubando ore al sonno.

 

    Si trattava di una sorta di prigione necessaria e volontaria,  dalla quale i nostri protagonisti si allontanavano solo per andare in bagno, pranzare o cenare, o per andare nella sala da posa, se erano richiesti da qualche cliente. Ed erano questi i momenti in cui potevano vedere un po’ di luce del sole, e respirare un po’ di aria ossigenata. Ma, era proprio questa la caratteristica degli artigiani. Lavorare senza guardare l’orologio. Senza dire mai di no al lavoro che era vita, al lavoro che era sacro, per poi, magari, indugiare in conversazione con un cliente senza badare a quel tempo “perduto”, che serviva da relax per mettere in equilibrio il sistema nervoso. Ed era questo il loro eventuale riposo nel corso delle giornate.  

   
                                                         Gino Carbonaro

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