Gino Mariella
Nei ricordi di
Gino Carbonaro
1. Forse perché sono nato in mezzo alle fotografie,
anche i miei ricordi del passato sembrano sistemati in un album di immagini. Tu
giri le pagine, vedi figure e attorno a queste pensi.
La prima immagine che ho
fortemente fissata di te, mio carissimo Gino, risale alla quarta elementare.
Nell’aula ci sono due o tre grandi finestre che si affacciavano sulla
via Garibaldi (’a via Lonca, a Modica), una cattedra di fronte, il crocifisso al
centro, una lavagna, due armadi di colore celestino (ma chissà se erano celestini).
Poi l’immagine della maestra, la signora Bellassai, bionda, buona, che tutte le
mattine dopo le preghiere fa ripetere a tutti, per prima cosa, a memoria, la
poesia che aveva assegnato il giorno precedente.
Ed eri tu il primo che cominciavi
a ripetere. Tua era la pole position. E tu ti alzavi all’impiedi, diventavi
subito serissimo, piegavi il collo con una inclinazione sacrale e cominciavi a
ripetere senza una titubanza, senza una sbavatura. Perfetto. Scioccante per
tutti quelli che dopo di te avrebbero dovuto avvicinarsi a te come modello di riferimento.
Ecco, questo è il ricordo che
custodisco nella mia memoria in maniera indelebile. Anche perché si è ripetuta
per tanti mesi, tutte le mattine. Mai un errore, mai una impreparazione. È da
allora che per tuo tramite ho fissato in me il concetto della perfezione possibile.
Forse per questo eri la gioia
della maestra che ti voleva più bene di tutti, anche se, dolcissima com’era,
voleva bene a tutti.
Poi, a ripetere la poesia era un
altro ragazzo che era più bravo di tutti, ma meno bravo di te (forse, si
chiamava Giannone e oggi gestisce a Modica un ristorante agrituristico). Al
terzo posto, c’ero io, così, almeno, mi ricordo, poi, mi pare ci fosse Spillicchi,
che era figlio di un barbiere.
E qui, per quel che riguarda la
mia storia, c’entri tu, la tua persona; perché da primo della classe, quale ero
stato nella scuola elementare di Scicli, a Modica ero sceso di gradini e di
livello.
Con tutto ciò, in quella quarta
classe elementare fissai per sempre la mia percezione di te. Tu eri tu, con la
tua bella e già formata personalità, sana, discreta, tenace, complessa eppure
semplice, sempre un po’ più in alto di me; io ero io, con la mia personalità
che tu rispettavi.
Ma, era talmente meritato il tuo
primato in classe, eri così onesto nel manifestare le tue qualità, ed eri così
corretto nel rapporto con gli altri che non riuscii mai a considerarti un antagonista,
né un concorrente, né a nutrire alcun sentimento che non fosse di ammirazione
nei tuoi confronti. Sempre. Allora, come adesso. D’altro canto, con te non mi
sentivo un gregario, né un subordinato, né un perdente. Tu eri superiore e
basta. La maestra ti voleva bene (questa era la mia impressione) ma io non
sentivo che a me fosse stato tolto qualcosa. Stavo semplicemente bene, con te e
con gli altri, un po’ meno con me stesso che non riuscivo a sentirmi comodo nel
nuovo ambiente modicano.
2. A questa immagine, di
Gino Mariella che ripete a memoria la poesia quotidiana, si agganciano a
grappoli altri ricordi. Il fatto che era l’anno scolastico 1947-48, ed io ero
appena giunto da Scicli a Modica, dove mio padre aveva trasferito la sua attività
di fotografo.
Il passaggio da Scicli a Modica
era stato per me traumatico. Avevo perduto tutti i miei amici senza essere
riuscito a farne di nuovi, ma soprattutto mi veniva duro accettare il fatto di
non essere più il primo della classe, di non essere più il pupillo di una
maestra, e questa perdita di affetti mi faceva sentire solo. Venendo a Modica
era come se fossi diventato nessuno. Così, almeno, mi sentivo.
All’epoca – scusami la “disgressione” (diceva così, la
signora Mellini) – non era ancora nata mia sorella Flaminia, e io ero figlio
unico o, se si vuole, figlio solo, che conosce la solitudine.
Mia madre e mio padre avevano
tempo solo per il lavoro che non mancava, grazie a Dio, ma io che avrei avuto
tanto bisogno di attenzioni, li vedevo solo a pranzo e la domenica, quando li
aiutavo asciugando, tagliando e sistemando fotografie nelle buste, anche se loro
due restavano sempre rintanati nella camera oscura, e se mi serviva qualcosa,
comunicavo con loro con la mediazione di un citofono che mio padre aveva fatto
installare nella loro stanza di lavoro, oppure parlando a voce alta da dietro
la porta (sempre chiusa) della camera obscura.
Mi sentivo orfano, ma soprattutto
privo di affetto, di coccole si direbbe oggi. Era come se non avessi avuto una
madre. Deprivato di un mio diritto.
Mi sentii quasi un senso di
colpa, però, quando, conoscendoti meglio, qualcuno mi disse che tu avevi
perduto la madre; e giustificai meglio la maestra che si rivolgeva a te con una
attenzione speciale, con l’affetto di una madre.
Poi mi invitasti a casa tua, che
era sul Corso Umberto. Una casa con scalette per salire al primo piano,
stanzette di passaggio che si andavano allargando man mano che procedevi. Mi sembrò
la casa delle bambole.
In questa casetta minuscola, ma
linda, pulita, vissi un’altra indimenticabile esperienza: conobbi tua sorella, Iolanda,
che era molto più grande di te. Apparve all’improvviso, mi salutò, e si rivolse
a te con una dolcezza che io non avevo mai rilevato in una donna. E tu ti
rivolgesti a lei (così mi sembrò) come un figlio ideale si rivolge a una
madre ideale. Rapporti che non avevo mai registrato sino ad allora, e che nella
mia vita non riscontrai mai più in altre persone.
In quella apparizione sentii giungere con lei (con tua
sorella) un flusso di affetto, di amore, di bontà e di intelligenza che interagivano
con te e che davano vita ad una sorta di comunione spirituale fra voi due, ma
con tutto ciò, la casa mi sembrò un po’ vuota.
Tutte quelle cose, colsi in un attimo. E capii che
qualcuno ti aveva sostituito la madre con una donna diversa dalla mia. E mi
sembrò bella anche nell’aspetto, tua sorella, o forse lo era davvero.
Quella apparizione, quel
quadretto che era più di un idillio, è rimasto nella mia mente a farmi sentire
la bellezza e la forza del “femminile”. E certamente quella volta ti invidiai
quella sorella che trasmetteva sicurezza, dolcezza, rispetto, senso di responsabilità,
accettazione della vita e del destino e, soprattutto, amore. Insomma, quella
donna aveva quello che un uomo non poteva avere e forse non sarebbe riuscito a
dare. In conclusione, di quella donna mi colpì la personalità al femminile.
Ma te la invidiai solo per poco,
questa sorella che era tua e solo tua, perché capii subito che tu non avevi la
madre e io non avrei potuto pretendere per me anche una sorella come la tua.
Da subito, quella tua casa, mi
sembrò diversa da tutte le altre; mi sembrò un luogo santo, quasi fosse un
tempio, quotidianamente benedetto da Qualcuno. E ancora oggi, quando passo dal
corso Umberto e la vedo ristrutturata e dipinta di bianco, dico a me stesso che
quello è il giusto colore di quella casa.
3. Dopo quell’anno tu
scompari dalla mia memoria. Non mi ricordo di te alla quinta elementare, né
alla prima media. Poi, qualcuno mi disse che eri andato in seminario e mi
addolorai. Non ti vedevo seminarista, né prete. Immaginai che la scelta era
dettata da altre necessità. Forse economiche. Poi apparisti al quarto ginnasio,
dopo aver perduto un anno che nel frattempo avevo perduto anch’io, e il mio
cuore si riempì di gioia. Mi sembrava che l’ordine del mondo fosse stato
rispettato. Però ti percepii un poco triste, non mi sembravi più come quello di
prima, e stranamente non sembravi molto impegnato nello studio, e questo mi
faceva rammaricare. Al quarto ginnasio, i primi della classe erano Gianni
Barone, Mario Spadaro, che ora traduce versioni greche in Paradiso, Giovanni
Poidomani, e poi, forse tu, che eri sempre preparato, ma sul giusto.
Al quarto ginnasio tu studiavi
molto poco, soprattutto pochissimo greco e niente latino, ma sapevi sempre
tutto. Mi sembrava un miracolo. Però, ridevi al tuo solito, una risata
particolare, razionale, educata ma sincera, specie quando parlavamo del nostro
professore Licitra di educazione fisica e negli anni a seguire quando prendevamo
in giro la professoressa di greco, la signora Mellini che spiegava la Venere di
“Cinnìdo” (leggi Knido).
In quella quarta ginnasiale ti
rivedo con un pullover di lana bianca a strisce marrò (o viceversa) sempre
pulito, ma sempre lo stesso, che tu portasti anche negli anni successivi. Questo
è il mio ricordo. Ed era sempre lo stesso, quel pullover, e mi sembrava che si
andasse accorciando nelle maniche mentre per l’età ti crescevano le braccia.
Sinceramente mi faceva scrupolo il fatto che al tuo confronto io potessi avere
molte più cose materiali di quanto non ne avessi tu.
Di questi anni del ginnasio, tu
sei in una foto che io scattai nella palestra a tutta la classe. La scattai con
la Rolleiflex di mio padre che ora tengo in una vetrina. La macchina
fotografica era fissata sul cavalletto e usai l’autoscatto. In quella foto, tu
sei in piedi, pensoso, di lato, col pullover di cui sopra, io sono malamente
accovacciato su qualcosa, su una pietra, forse, dopo aver fatto la corsa per
entrare anch’io nella foto.
4. Adesso, l’album dei ricordi registra un altro passaggio. Ora siamo
al secondo Liceo, dove vivo una delle esperienze più forti della mia vita:
l’impresa epica, indimenticabile (e direi sovrumana) realizzata da te,
perché poteva essere realizzata da uno solo, che eri tu, e da nessun altro. Ma
vediamo i fatti che la memoria dissolve e il ricordo amalgama.
Era appena cominciato l’anno
scolastico 1956-57 o 57-58, non ricordo bene, quando ricevetti una telefonata
da Graziella Modica, la sorella di Enza, la mia fidanzata di allora, la quale
mi avanzò una proposta (stavo per dire “avance”). Mi disse che aveva
pensato (ma, in realtà aveva già deciso) di presentarsi per gli esami di
Stato per conseguire il Diploma Magistrale da privatista, continuando a
frequentare da interna il secondo liceo e mi proponeva di fare la stessa cosa.
Mi spiegò che ci sarebbe stato molto da studiare, che bisognava avere qualche
professore privato per la matematica del magistrale che era diversa, che
avremmo dovuto studiare psicologia e qualche altra materia. Condicio sine
qua non per sostenere questi esami: bisognava essere promossi a giugno. A
me, l’impresa, più che ardua, mi sembrò impossibile, perché a quel tempo i
privatisti dovevano presentare agli esami tutto il programma dei quattro anni
del Magistrale, e il programma dell’ultimo
anno del Magistrale era tutto nuovo, dal momento che non coincideva con
quello del secondo Liceo. Io, invitato a partecipare, dissi sì, in parte perché
mi sentii adulato per essere stato invitato, ma soprattutto perché non riuscivo
mai a dire di no; ma – ricordo come fosse adesso - pensai immediatamente di coinvolgere anche te
nell’impresa e, sempre al telefono, lo dissi a Graziella che accolse con
entusiasmo la proposta. Perciò ti telefonai subito dopo.
Qui la sorpresa! Non avevo
cominciato a esporre il fatto e non avevo finito di proporti l’invito, che tu
avevi già detto di sì. Razionale e intuitivo come sei, avevi capito che quella
era una sfida che avresti potuto e voluto accettare. Una occasione ti veniva
incontro e tu la coglievi al volo.
Così fissai un altro punto della
tua personalità: il fatto che ti piacevano le sfide e ancora, che per te il sì
è sì, e il no è no! E ogni impegno preso con te stesso e con gli altri andava
rispettato sino in fondo. Questo eri, e questo sei ancora.
Così, ci incontrammo tutt’e tre,
Graziella, tu ed io, per concordare alcune cose (l’acquisto di libri,
soprattutto) e valutare le difficoltà; e fu proprio in quell’incontro che
venne fuori per me la prima novità e difficoltà: per fare gli esami di Stato al
Magistrale “bisognava fare il tirocinio”, cioè frequentare alcune classi
elementari di pomeriggio, tre volte la settimana, e due ore per volta, senza
fare assenze e per tutto l’anno. Al tempo veniva sottratto altro tempo!
In quel momento, e con quella
novità, capii che io non avrei potuto farcela, non potevo déranger, diciamo
squilibrare il mio pomeriggio sottraendo allo studio la parte migliore
della giornata, per riuscire, poi, tornando a casa, a trovare ancora tempo per seguire i programmi che i nostri
professori svolgevano a marce forzate. Il secondo liceo era un anno fondamentale
che non si poteva seguire al servizio di due padroni; nessuno avrebbe potuto
farcela, nessuno poteva avere tanta energia e tenacia psicologica, mentale e
fisica (per non dire intelligenza e memoria) per realizzare un
progetto da sogno: studiare il programma di “cinque anni” e alla fine riuscire
ad essere promossi comprimendo il tempo a poco più che nulla. La scuola di una
volta non era quella di oggi! Capii allora che quella impresa non era
assolutamente possibile per me, ma non poteva essere possibile per nessuno.
Fu solo per non mettere in crisi
il vostro entusiasmo che partecipai alle prime due settimane di tirocinio, e
comunque sino alla fine di ottobre, e subito sentii di avere squilibrato i miei
pomeriggi di studi. Certo quelle poche lezioni di tirocinio mi fecero vedere e
capire un mondo diverso; imparai tante cose. Ma, con rammarico mio e vostro,
trascorse le prime due settimane, alla fine
di un tirocinio pomeridiano, all’uscita dalla scuola, vi spiegai la mia
impossibilità a continuare per i motivi sopra detti, e mi defilai mortificato e
con rammarico per essere venuto meno ad una parola data.
Ci fu da parte tua e di Graziella una punta di delusione
mista a disappunto (che il vostro viso lasciò trasparire), che in verità
durò meno di quanto avessi previsto, per dare spazio subito dopo ad una sincera
comprensione nei miei confronti.
Il più convinto nell’impresa, a
distanza di due o tre settimane, però, mi sembrasti solo tu, e capii che senza
di me o di Graziella, tu avresti continuato senza titubanze, dubbi o
tentennamenti, anche da solo; e se Graziella che era stata la promotrice
dell’impresa continuò, poi, sino alla fine (lei con l’aiuto di qualche
professore privato, tu studiando da solo), questo fu forse merito tuo.
Adesso, che ero uscito dal
gruppo, per me c’era solo da assistere all’impresa dall’esterno, come uno che
ama il calcio e va a vedere allo stadio la partita che giocano gli altri. Ma
restavo dell’opinione, come lo sono ancora oggi, che quella impresa era
impossibile. Ma eri tu a dimostrarmi, come sempre, che l’impossibile doveva
potersi piegare a categoria del possibile.
5. Ma, la sorpresa, in quel
secondo Liceo, fu un’altra. Da quando cominciasti a studiare da privatista, e
il tempo avrebbe dovuto a rigore di logica mancarti proprio perché studiavi
cento materie diverse per quegli esami di Maturità Magistrale, con mia
sorpresa, cominciasti a diventare più bravo in classe, perfetto come quando eri
alla quarta elementare; e anziché avere i soliti, scontati e comodi sei con
qualche sette, cominciasti ad essere sempre preparatissimo, a prendere gli otto e anche qualche nove. Ero
incredulo. Non credevo ai miei occhi. Era come se la scommessa fatta con te
stesso (ma io ero testimone esterno) ti avesse fatto venir fuori il
meglio di te stesso. Mi sembravi come una Ferrari che anziché avere le solite
quattro o cinque marce delle macchine normali ne avevi sette e forse qualcuna
in più. In ogni caso sviluppavi un numero di cavalli mentali al di sopra della
media. Ed io ero nella media.
Un giorno, passai da casa tua per farmi dare da te degli
appunti di filosofia. Io ero nei guai perché non riuscivo a memorizzare il
libro di testo, mentre tu avevi già svolto quella parte di programma! Ti trovai
seduto al tavolo mentre studiavi. La scena è storica. Non perché stavi
studiando storia, ma perché rilevai un’altra peculiarità del tuo carattere. Ecco
il quadro: ti alzasti per prendere in un angolo gli appunti che ti avevo
chiesto e ti sedesti di nuovo per studiare, mentre continuavi a parlare con me.
Di fatto facevi tre cose diverse nello stesso momento: parlavi con me, leggevi
il libro di storia e riscrivevi le cose importanti. Studiavi applicando il
migliore dei metodi di studio: quello di trascrivere i concetti e fissarli per
iscritto, ma allora non lo sapevo, e non lo avevo ancora capito. Ma, come
facevi a studiare se parlavi con me? Quello che mi colpì, però, fu il tuo
rapporto con il libro di storia: uno sguardo sdegnoso, concentrato, che era di
superiorità, nei confronti della pagina del libro che stava sul tavolo alla tua
sinistra; il mento appoggiato sul pugno del braccio sinistro, mentre con la
destra scrivevi quello che ritenevi di trascrivere, con la tua grafia serena,
chiara ed elegante su un quaderno. Mi fece impressione, ricordo, il fatto che
il quaderno era tenuto fermo dal braccio che scriveva.
Capii che non potevi perdere tempo, ma tu, anche stavolta
non mi toglievi niente, perché rispondevi alle mie parole e continuavi a
conversare (mentre continuavi a scrivere).
Compresi esattamente che ce la stavi mettendo tutta, e che
ti eri impegnato a vincere quella scommessa. Andai via salutandoti, mi vergognai
un poco per avere chiesto la utilizzazione di appunti fatti da te, che tu avevi
perché avevi già svolto quella parte di programma, e lungo il ritorno a casa
allungavo il passo per cercare di non perdere tempo togliendolo allo studio. Cercavo
di imitarti almeno in questo.
Quell’anno tu ed io non ci parlammo molto. Avevo
l’impressione che tu venissi a scuola per riposarti. Capivo che tu studiavi
molto, ma facesti pochissime assenze, forse due o tre giorni in tutto l’anno, e
comunque, di meno di quanto non eri solito farne negli anni precedenti. In
realtà, eri sempre lo stesso, nel carattere e nell’umore. Unica differenza che
notai su di te fu nel viso. Mi sembrasti solo un po’ più pallido, un poco più magro.
6. Così, giunse la fine dell’anno di quel nostro
secondo liceo classico. Tu fosti promosso con voti altissimi, e acquisivi il diritto[1] a
sostenere gli esami da privatista per conseguire il Diploma di Maestro.
Graziella Modica, invece, si trovò rimandata a settembre con cinque nel solo
latino. La scuola di una volta era diversa, la pensavano giusta, e Tuzzu
La Rosa, che non volle venire a compromessi con se stesso, in effetti
distrusse una speranza. Come dire: summa justitia, summa injuria! Ed era
(paradossalmente) ingiusta proprio per il suo amore per la giustizia. Graziella, poverina, pianse
molto e forse piange ancora al ricordo di quell’anno infausto. Tu, invece, ti
presentasti agli esami da solo, e li superasti, e a casa tua dovresti avere il
papiro di quella impresa che nessuno ha mai cantato e che forse neppure i tuoi
figli potrebbero capire.
L’anno successivo, al terzo liceo, eri fra i banchi con
noi, scherzoso come sempre, ma mi sembrò che il tuo impegno fosse scemato
ancora un po’. Come un nobile, ricco e grasso, mentre noi studiavamo duro, tu,
sereno, vivevi di rendita. Ora ti godevi il meritato riposo. Come sempre,
comunque, sapevi tutto. Anche questa volta, come alla quarta elementare, la tua
superiorità non offendeva nessuno. Io ti percepivo come sempre. Tu non avevi
vinto su di me che mi ero defilato da quella impresa, ma avevi vinto per te e
su di te. E tanto ti bastava.
7. Dopo la maturità liceale ti perdo di vista. Poi
mi informo e so che sei a Roma. Hai vinto un concorso alla Ferrovie dello Stato
o al Ministero, non ricordo. Insomma, avevi scelto di lavorare, o forse non
avevi scelta. Il mio desiderio era di incontrarti, e ti venni a trovare nel
posto di lavoro, in una stanza luminosissima, piena di luce perché una parete
molto alta era tutta finestre.
Mi dicesti che facevi il segretario di un sindacalista,
una persona che poi vidi e mi sembrò un uomo molto avvenente oltre che
importante. In quella stanza, in quel momento, mi sentii scomodo, quasi con un
senso di colpa nei tuoi confronti, perché io frequentavo l’università con i
soldi di mio padre, mentre tu che avresti dovuto più di me avere il diritto di
frequentare l’univer-sità facevi il segretario di qualcuno. Io non ti vedevo
segretario di nessuno. Ma tu accettavi. Non recriminavi. Non ti lamentavi. Non
invidiavi nessuno. Accettavi quello che la sorte ti dava con una rassegnazione
unica, quasi con allegria. Perlomeno, così pensavo io. E quanto sopra, ritengo
di poter affermare perché io ho conosciuto tante persone, e tutte hanno avuto
sempre qualcosa di cui lamentarsi: della sorte, degli altri, del mondo, della
politica. E fra questi ci sono sicuramente anch’io. Ma tu non hai mai parlato
male con me di nessuno, e questo non è nella natura degli uomini e tanto meno
dei modicani. In questo eri simile a mio padre. Persone rare, uniche.
Di quella visita ricordo che bussai a una porta, ti vidi
seduto a un angolo davanti a una macchina da scrivere, mi sorridesti, mi venisti incontro e insieme ci avvicinammo
al tuo angolo di lavoro discutendo; ma, appena seduto alla tua scrivania, con
molta discrezione cominciasti a infilare fogli nella macchina da scrivere e
continuasti a lavorare. La scena era la stessa di quelle che già conoscevo:
quella di quando studiavi a casa tua, leggendo, scrivendo e continuando a
conversare con me. Io avrei voluto andar via, pensavo anche di disturbare, nel
senso che interrompevo il tuo lavoro, ma tu mi esortasti a continuare la
conversazione. E questa fu la scena. Tu avevi alla tua destra un mazzo di
lettere alle quali dovevi rispondere, e in realtà leggevi, battevi sui tasti
con due sole dita, ad una velocità incredibile (ma dove avevi imparato a
scrivere a macchina, mi chiedevo!); nel mentre partecipavi alla
conversazione parlando, scrivendo, leggendo, sfilando fogli quando la lettera
era finita e girando pagine per iniziare a rispondere a un’altra lettera.
Ricordo che mi avvicinai incredulo alla tua macchina da scrivere e ai fogli che
avevi scritto per cercare di vedere con la coda dell’occhio, come san Tommaso
se era vero o frutto di allucinazione la scena alla quale stavo assistendo. E
notai che le lettere erano scritte sul serio con una impaginazione elegante,
professionale. Questo sei stato tu da sempre. Lavoro, senso del dovere, precisione,
perfezione, onestà.
8. Poi cambiasti reparto e lavoro, questa volta sotto
la direzione di un capo che misurava il lavoro ai suoi dipendenti. Poche pratiche
al giorno e il lavoro si accumulava. Alla tua velocità tu sbrigavi le tue cinque
pratiche quotidiane in cinque minuti e poi stavi ad annoiarti tutto il giorno.
Ma, anche in quell’ufficio venne l’estate, il dirigente andò in ferie e tu
suggeristi ai tuoi colleghi di far trovare al capo il lavoro smaltito, finito,
fatto, ritenendo di fargli una cosa gradita. Il mese di ferie volò, il capo
ritornò, e visto il lavoro smaltito si incazzò, ti rimproverò, tornando a
fissare la regola. Le pratiche da fare dovevano essere cinque al giorno! Questa
volta – povero Gino Mariella - avevi sbagliato qualcosa. Mi raccontasti tu
questa storia qualche tempo dopo e più che disappointed o amareggiato,
mi sembrasti smarrito per il fatto che non eri riuscito a capire qualcosa degli
uomini, della vita.
L’altra pagina del mio album di ricordi ti rivede quando
abitavo al numero 65 di via della Frezza a Roma, e venivi a farmi visita. Ora
sei vestito elegante. E’ inverno e indossi un cappotto spigato, forse anche
questo a righe marroncine e bianche. Ma mi pungeva non poco percepirti
lavoratore o segretario di qualcuno e senza laurea: proprio tu che ai miei
occhi portavi in testa l’alloro della laurea.
Andavamo a cenare in una rosticceria in via del Corso, e
una volta indugiammo non poco a guardare le belle gambe accavallate di una
bella cassiera e io mi trovai a fare un commento che poi dimenticai e che tu mi
hai richiamato alla memoria qualche tempo fa.
9. Ma il tempo passa, e di nuovo ci perdemmo di
vista. Molti anni dopo che ero andato via da Roma ed ero già sposato (ma
forse anche tu eri sposato) tornai a informarmi di te e venni a trovarti
una estate, in una casa al mare, alla Filippa di Donnalucata, a sorpresa,
questa volta. Un abbraccio, un sorriso, lo scambio di quattro parole. C’era mia
moglie con me e rividi tua sorella.
10. Un altro paio di volte ti venni a trovare in un
ufficio alla Stazione Termini, forse quando venivo a Roma per concorsi.
Dirigevi qualcosa. Gestivi appalti di treni andati in disuso e traghetti delle
Ferrovie dello Stato da smantellare. La parola appalti mi fece pensare che
l’ufficio avrebbe potuto essere poco pulito. Un luogo dove ci si poteva sporcare
molto facilmente. Ma io pensai che Gino Mariella non avrebbe mai fatto nulla
che avrebbe potuto macchiare la sua coscienza e non farlo dormire sereno di
notte. Comunque, incrociai le dita e mi rivolsi a Chi ti ha protetto da sempre
e vigila su di te.
A quel tempo abitavi già a Via delle Cave, n. 4. Mi desti
l’indirizzo e i numeri di telefono. Forse mi dicesti che ti eri laureato. Dico
“forse” perché non sarebbe stato nel tuo carattere dire a qualcuno: “Mi sono
laureato”, come non avrai mai detto a nessuno: “Io ho due diplomi di scuola
superiore”. Discrezione, modestia, educazione. Sei sempre stato splendido ai
miei occhi.
11. Quest’anno, infine, Gianni Barone in visita a
casa mia suggerì: “Perché non telefoniamo a Gino Mariella!” Colsi al
volo l’idea e ti telefonammo. La sorpresa per me fu quella di sentirti piangere
dall’altra parte del telefono. Tua moglie stava male e dicesti una frase che mi sconvolse. Dicesti: “Qualcuno
mi pensa!” Una frase che alle mie orecchie arrivava assurda, quasi come un
ronzio di mosche. Proprio a me che ti ho pensato sempre come a un modello di
vita mi dicevi: “Qualcuno mi pensa!” Ma io non sono qualcuno. Io sono un
testimone della tua vita e so io cosa dire di te a Qualcuno se Questi avrà bisogno
di testimoni. Dirò che la vita per te è stata “rispetto” degli altri, del
lavoro, amore, senso di responsabilità e del dovere, onestà. Parola che oggi
non trovi più nei vocabolari, concetto che non pare possa ascriversi più a nessuno.
Io, ai miei alunni, non ho mai mancato di parlare di te,
mio caro Gino Mariella, di un tale che quando era bambino era già adulto anche
se ha custodito sempre un fanciullo dentro di lui.
In quella telefonata compresi la tua sofferenza. Capii,
allora, ma lo avevo già capito nel passato, che tua moglie, per te è tutto: la
madre che non hai avuto, tua sorella Iolanda che non era vicina. Capivo che tua
moglie era stata il tuo tutto.
Di tua moglie, che io non conosco, mi avevi parlato già
prima nel mezzo di qualche conversazione, e avevo sentito il profumo di lei
senza vederla, come accade quando sei in un giardino e senti l’odore di un
fiore senza vederlo. Capii che Lei era stata per te il porto dove avevi fatto
riposare il tuo cuore, il tuo immenso bisogno del femminile e abbracciando Lei
abbracciavi tutte le donne di cui avevi sentito il bisogno nella vita e che non
avevi avuto. Doveva essere qualcosa di sublime, certo di diverso, questa donna,
e tu, allora mi sembrasti felice, parlando di Lei.
In quella telefonata capii ancora che nella vita avevi
accettato tutto, ubbidendo alla legge spietata della necessità, ma ora non eri
disposto ad accettare una ipotesi: che anche i tuoi figli, come te, potessero
restare senza madre e tu senza l’affetto di un modello di moglie-sorella e
madre. Per patire questa tremenda punizione dovresti aver commesso una colpa.
Ma quale? Il diritto di questa società insegna che le punizioni si scontano se
ci sono colpe. Ma un figlio, quale colpa ha commesso per non avere avuto una
madre? Questo potresti chiederti. E qui non c’è spiegazione. Qui la logica è
risucchiata dal mistero e riusciamo a stento a comprendere con la nostra
piccola intelligenza che Dio è grande, e noi siamo parte di lui.
12. Ti voglio bene, mio carissimo Gino. Io non ho
invidiato mai nessuno, ma ho solo ammirato alcune pochissime persone. Tu sei
una di queste.
13. Questo è il ricordo che ho di te. E ora che hai
aperto uno studio di avvocato mi confermo nell’idea che da sempre, a giro di
vite e dando tempo al tempo, sei riuscito a realizzare i tuoi obiettivi, i tuoi
sogni. Un augurio. Che tu e la tua famiglia possiate vivere sereni per ancora
altri mille e poi ancora mille anni e che i tuoi figli possano capire veramente
cosa hanno per padre. Un uomo. Un uomo eccezionale. Un uomo etico!
Gino
Carbonaro
Ragusa/Roma 12 ottobre 2002
P.S. L’11 settembre 2004, due anni dopo questa lettera, mi
hai telefonato dalla “Filippa” e sei
venuto a casa mia. Abbiamo pranzato insieme. Mi hai portato un regalo: i tuoi
figli, Luca e Stefano, i tuoi gioielli. Dolcissimi, educatissimi, bellissimi,
pieni di salute, intelligentissimi come il padre e di sicuro come la madre.
Avete sommato le qualità di entrambi voi due e le avete moltiplicato in maniera
esponenziale. Come sei fortunato sotto questo aspetto. Come siamo fortunati
anche noi sotto questo aspetto. E tua sorella, la dolcezza personificata. Che
bella giornata. Che bel regalo che mi hai fatto. Peccato! era l’11 settembre.
Un grande giorno. Ti voglio bene Gino. Io non ho avuto un fratello. Mi
capisci? Ora, ti prego, quando parli con
tua moglie, la sera, quando spegni la luce, dille di me.
[1] Era
necessario essere promossi a giugno per poter sostenere gli esami di maturità
magistrale. Ed era un principio illegittimo, perché agli esami di Stato dovevi poi presentare tutto il programma dei
quattro anni! Oggi è diverso. Oggi si
portano programmi e parti di programma non volto.
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