Carusanza
un'opera di Giuseppe Cavarra
di Gino Carbonaro
Questo libro, Carusanza, di Giuseppe Cavarra sembra venire da lontano. Da una
dimensione spazio-temporale non definibile. Da un mondo che non c’è più. Là
dove le montagne parlano al cielo e il gheppio domina il vento e il silenzio
avvolge ogni cosa. Qui, ai limiti della realtà, sorge Límina, un paese antico, cullato dal tempo. Qui, in questo angolo
dei Peloritani, fra burroni e dirupi di capre, sono i natali e la fanciullezza
di Cavarra. Così, leggendo Carusanza, rivedo
montagne di fiaba. Respiro aria pura. Assaggio quel vento. Faccio mio il
silenzio, mistico, di quei luoghi.
Carusanza è un diario
dell’anima. Dialogo, forse monologo, che il poeta instaura con se stesso o con
i suoi fantasmi, ai quali cerca di ridare una parvenza, un corpo, una
definizione. Carusanza è un parlare
dolce, sottovoce, che un figlio fa con la Madre , oggi cenere muto, di un passato che
continua a vivere ancora nel presente della sua anima, della sua mente. Modo
per testimoniare un affetto, per confermare una identità, una corrispondenza elettiva
di sensi amorosi.
In questa operazione, l’evento è reso
possibile dal linguaggio. Bellissimo, inusitato, strano, diverso, vichiano. Linguaggio che pare levigato dal
tempo e vibra di una luce antica. È il parlare dei Liminesi, di coloro che
hanno abitato quei luoghi di mito, che sono vissuti per millenni in questa
isola di strapiombi e granito. Isola nell’isola. Essenza delle essenze.
In queste poesie, le parole sono pietre,
macigni, austeri, pesanti, forti. Pietre posate, una accanto all’altra, incastonate,
come muri a secco, logici nella loro positura, monumentali, maestosi, funzionali,
messi lì per ignorare venti ed e-venti
e sfidare il tempo. Pietre per costruire un ricordo, un riparo, un argine
capace di vincere contro le tempeste del nulla, della indifferenza, della
superficialità, del vuoto. Parole, per non cadere in quegli sbàusi ca l’òcchju nun tocca mai u funnu, intendi,
anche, lo strapiombo della morte.
Questo piccolo libro è come un nuraghe. Un
monumento (solitario) che non grida
la sua presenta. Ma è proprio lì, nel suo interno, custode di silenzi sacrali,
che cova la vita.
C’è in questa opera una forza che non è
consueta nella poesia. Un linguaggio arcaico, ma elegantissimo, finissimo, come
vuole la raffinatissima cultura di questo figlio della terra sicula, di queste
montagne austere che grondano storia. Immagini, ricordi, evocazioni, pensieri
vaganti, un filo di filosofia appena occultata, mistero del nostro esistere. Un
libro bello. Un dono che Giuseppe Cavarra fa alla sua Terra, ai suoi cari di un
tempo e a quelli di oggi, al suo essere stato “altro” da quello che è ora. Profumo
di nepitella. Verde e giallo di una selvaggia ginestra, riservata nel suo
vivere di roccia. Un libro che è documento, atto, testamento. Libro che, nella
estrema sintesi di chi conosce le siccità estive della nostra terra, e sa quanto
vale il poco che è tutto, custodisce un numero non definibile di messaggi, che emergeranno
lentamente, come fiori che aspettano il tempo per germogliare. Perché questo
non è libro di una sola lettura. È libro che va gustato, assaporato, pensato,
apprezzato, capito, poi, metabolizzato. Il suo messaggio appartiene a tutti.
Antologia di Spoon River? Forse sì, un poco, per quella volontà di evocare
fantasmi. Ma, in Lee Edgar Masters il
punto di vista è un altro. L’atmosfera è cimiteriale, le anime-morte sono
parlanti e protagoniste. Qui, è come davanti a un grande tribunale della
storia. D’altro canto Masters era stato un poco anche avvocato. Spoon River è una sorta di Inferno
dantesco visto da una angolazione diversa. Spoon River è altra cosa.
In Carusanza,
l’io-narrante è figlio di una terra sana e santa. Se proprio necessita un
accostamento, questo libro ha, semmai, un referente greco, omerico. Se di analogie
bisogna parlare, potremmo accostare Lee
Edgar Masters e Cavarra, insieme all’altra
grande Antologia, quella Palatina, alessandrina, dolce, forte, memoriale,
essenziale nella sintesi che non dà spazio all’effimero.
Gino Carbonaro
Ragusa, 22 novembre
’05
Gentile prof. Cavarra,
Due giorni fa, passando dal Centro Studi
F. Rossitto, Umberto Migliorisi mi ha dato il Suo libro, Carusanza. Io avevo sentito parlare di Lei, e forse in qualche
Premio Vann’Antò, l’ho anche intravista, ma nulla di più. Umberto mi ha
invitato a leggere il libro e a scrivere le mie impressioni quando avrei avuto
tempo. La stessa sera, però, incuriosito, cominciai la lettura di questo libro,
che mi sembrò subito diverso, strano nelle sonorità, atipico nel suo
linguaggio, nei suoi contenuti, ma anche di non facile lettura. Lessi più volte
le prime sei o sette poesie, poi spensi la luce, pensando a chi scriveva in
questo modo così nuovo.
La mattina dopo ritornai a leggere ancora
altre poesie, poi ritenni giusto scrivere le mie impressioni a penna (io non scrivo a penna da anni); ma,
scrissi una lettera a Umberto, e più tardi lo chiamai e gliela lessi. Mi invitò
a modificare l’apertura perché lo scritto era rivolto a lui e non era elegante.
In buona sostanza, sono delle mie “sincere” impressioni. Io, solitamente,
scrivo poco, e certo non avevo proprio adesso il tempo, né la concentrazione,
per una recensione, dal momento che sto mettendo a punto una mia conferenza dal
titolo Da Meyerbeer a Favara, Poesia e Musica Popolare Siciliana, che
terrò - come Le avrà detto Umberto
- a Messina presso la Filarmonica Laudamo , in Via Laudamo, alle 19 del giorno 30 novembre.
Comunque, la lettura delle Sue opere non è
finita. Ora il dolce Umberto mi ha passato un altro Suo libro, Vamparizzi, del 1975. Un altro libro che
mi sembra con la “L” maiuscola.
En
passant, devo dire che mi è piaciuta la veste tipografica di Carusanza. Veramente un gioiello di arte
libraria, soprattutto mi è piaciuta l’incisione. E se ce l’ha Lei, la tenga
cara.
Un caro abbraccio, e l’augurio di poterci
incontrare al più presto, magari a Messina il prossimo mercoledì 30 novembre.
Gino
Carbonaro
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