La storia del Mulu
Totò
e del suo padrone Tanuzzu,
accaduta a Niscemi qualche anno fa, rappresenta un
documento
di archeologia culturale
giunto sino a noi dalla notte dei tempi.
di Gino Carbonaro
Nella Sicilia di qualche tempo fa,
l’asino, il mulo rappresentavano la ricchezza di una famiglia.
Da sempre, fedeli compagni dell’uomo,
questi animali venivano adibiti nei lavori più pesanti ed ingrati: dai
carrettieri per il trasporto di merci e derrate; dai contadini come animali da
soma e per arare i campi; nei frantoi per girare le macine.
Chi scrive, ricorda quando, decenni fa, al tramonto, i sagrati di
alcune chiese si riempivano lentamente di carri che tornavano dalla campagna, e
venivano sistemati gli uni accanto agli altri in bell’ordine, con le aste in
aria, mentre gli animali venivano avviati nelle stalle, che solitamente si trovavano
all’interno delle piccole case dei contadini.
Sino a non molti decenni fa, stalla e
camera da letto dei nostri contadini erano sotto lo stesso tetto, separati
appena da una tenda o da un tramezzo di canne e gesso. Animali e uomini, gli
uni accanto agli altri.
Questa era la norma. Il modello, arcaico,
risaliva alla notte dei tempi. Si pensi all’ovile di Polifemo descritto nella
Odissea di Omero. La sera il gregge era accolto all’interno della grotta, al
riparo da lupi e malintenzionati, guardato a vista dal legittimo proprietario.
Lo stesso fanno tuttora i pastori sardi introducendo le pecore pregne o malate
e gli agnellini all’interno del nuraghe, e lì passano insieme la notte.
Se Gesù, come si racconta, è nato in una
mangiatoia, è segno che per Giuseppe e
Maria era naturale alloggiare in una grotta, accanto a questi preziosi amici
dell’uomo.
In passato, gli animali che
vivevano in paese erano numerosi: animali da lavoro, soprattutto, ma c’erano
anche le mucche dei venditori di latte, le greggi che a notte, tornavano negli
ovili di paese, qualche maiale con la sua figliolanza, e conigli posti dove c’era
spazio, e galline, che di giorno sostavano nelle gabbie davanti le porte di
casa, ma di notte venivano introdotte in casa; e ancora gli immancabili cani,
gatti, topi e chi più ne ha più ne metta.
La differenza fra ieri e oggi? Tanta e
nessuna. Oggi, l’inquinamento è rappresentato dall’ossido di carbonio che rende
l’aria irrespirabile e fortemente tossica; ieri l’inconveniente era
rappresentato dalle tonnellate di escrementi, che gli animali disseminavano per
le strade e che la gente povera raccoglieva per concimare gli orticelli. Un
antico proverbio siciliano recitava: “L’acqua è oru. A merda è trisoru!” L’acqua è come l’oro, ma il letame è tris-oro, vale cioè tre volte più
dell’oro.
Era ricchezza, insomma, non deodorata. Ma,
nei tempi antichi, uomini, animali e cose venivano identificati dagli odori. Il
fiore odorava da fiore, il mulo da mulo, gli uomini da uomini. Odori che
cambiavano da persona a persona ed erano tanto più marcati in quanto l’acqua si
attingeva alla fonte o nelle pubbliche fontane, e in casa non c’era acqua per
uso igienico, né esistevano fognature. Nessuno aveva gabinetto e sciacquone,
doccia e bagno per limitare le esalazioni personali; e, quanto era rifiutato
dallo stomaco durante le ventiquattro ore, veniva raccolto da carri “strafitenti”
addetti alla bisogna. Forme di civiltà primitiva, ed espressione di una
fognatura mobile.
Ed era odore di santità, quello dei
monaci, e delle monache, soprattutto, cui era proibito toccare acqua e
parti del corpo impure, proprio per un principio di castità. Il sapone, si
diceva, era invenzione di Satana.
E, se i paesi erano di necessità costituiti da una
sommatoria di case-stalle, è chiaro che l’atmosfera all’interno dei nuclei
abitati era pesante.
Dagli odori, che raggiungevano ad ogni piè
sospinto le papille olfattive degli abitanti, si salvavano i ricchi che
vivevano i piani nobili dei loro palazzi, e potevano usufruire delle brezze che
visitavano le loro camere e provvedevano al ricambio dell’aria.
Con l’arrivo dell’estate, però, esalazioni
delle concimaie cittadine e mosche aumentavano in maniera esponenziale; per
questo i benestanti si trasferivano in campagna, per respirare un po’ di “aria
fina”, si diceva proprio così, per distinguerla dall’aria grassa di paese.
Sono cose che fanno parte della nostra
storia recente e che non vanno dimenticate.
Il mulo Totò e il suo padrone
Tanuzzu
Il mulo
Totò di Niscemi e il suo padrone Tanu (o Tanuzzu)
protagonisti del poemetto di Tanino Preti, rappresentano un reperto di
archeologia culturale giunto sino a noi dalla notte dei tempi.
Tanuzzu, seguendo il modello
paterno e quello trasmesso dalla tradizione, accoglie tuttora il mulo
all’interno della sua casetta; d’altro canto la stalla è stata lì da sempre, a
memoria d’uomo, così gliel’aveva lasciata il padre in eredità.
Ma l’animale Totò, una volta fedele
compagno di lavoro del vecchio ottantenne, ora è solo animale di compagnia,
fratello di sofferenze del suo vecchio padrone. Ed è a lui, al suo amico
animale, che Tanuzzu chiede conforto alla sua solitudine, ed è con lui
che parla il linguaggio universale dell’amore. Idillio, che può essere ritenuto
assurdo agli occhi di chi non ama gli animali, ma è evento che si registra
ovunque una persona tiene in casa un animale verso cui rivolge le sue cure.
La civiltà e il tempo
Ma, il tempo passa, tutto cambia (πάντα
ρέι) e la civiltà avanza. Così, quell’anonimo abituro (quello
dove vive Taninu col suo mulo) che ancora qualche decennio fa era situato
appena fuori dell’abitato di Niscemi, viene raggiunto, prima, conglobato subito
dopo dalla massa di conglomerato cementizio, figlio della ricchezza, del
progresso e di una nuova logica del vivere.
Quello che per millenni era stato un fatto
naturale, la convivenza dell’uomo con l’animale, sotto lo stesso tetto,
immediatamente diventa un avvenimento non più logico, non più accettabile.
I nuovi vicini di casa di Tanuzzu,
in buona sostanza le persone civili, non possono sopportare gli odori che
esalano da quel tugurio immondo, dove le bestie convivono con gli animali, e
denunziano il responsabile alle Autorità Sanitarie, che, accertati i fatti,
multano il colpevole.
Motivazione. Il mulo puzza e la puzza al
naso disturba i vicini di casa.
Il Sindaco di Niscemi, fatto partecipe
della delicata questione, decreta che il Mulu Totò potrà svernare (’ntà
mmirnata) nella sua stalla, accanto al suo padrone, ma transumerà in
campagna, e alloggerà fuori dell’abitato, nei sei mesi estivi (’nta
staçiuni), non appena i terreni schiumano le prime erbe e arrivano i primi
calori.
Ed è sentenza salomonica, che discende da
un diritto che Tanuzzu ha acquisito per usu capione, tenuto conto
che non è stato lui ad andare verso il paese civile, ma il progresso a farsi
suo vicino di casa.
Scontro di civiltà, dunque, fra passato e
presente, fra persone per bene che pensano molto bene al loro bene, e un uomo
povero, indifeso, e inascoltato nelle sue umane ragioni.
Tanuzzu da Niscemi, defensor
bestiae, convinto della sua innocenza, disorientato, non riesce a capire
perché l’umanità niscemese si ostina a rendere il suo mulo orfano del suo padre
e amico, colpendo entrambi di un dolore che non è proporzionato al danno che
essi possono arrecare ai loro vicini di casa; né riesce a capire perché le
amministrazioni cercano di fare un problema di un falso problema, distogliendo
l’attenzione dai veri problemi.
Un monumento al Mulu Totò
(e
al suo padrone)
A questo punto, l’imprevisto. Una parte
della cittadinanza si ribella al decreto del Sindaco, e si attiva per far
costruire un monumento al mulu Totò e al suo compagno; perché è giusto
tramandare ai posteri una pagina della nostra storia passata: riconoscimento al
Mulo e indirettamente a tutti gli animali da soma, che hanno aiutato l’uomo
nella strada del progresso, anche se alla fine sono stati costretti ad abbandonarlo
davanti alla porta che lascia entrare solo le bestie, ma non gli animali.
In parole povere, è come se in Egitto
qualcuno avesse deciso di elevare un monumento alla memoria non solo del
Faraone, ma anche a quelle migliaia di schiavi che hanno costruito
materialmente le piramidi: il merito è anche loro. Così per gli animali.
E la casa con stalla di Tanuzzu? È
anch’essa un reperto di antropologia culturale che va salvato dalle insidie dei
folli e conservato come parte del nostro passato, che tutti vorremmo
dimenticare e di cui nessuno cerca di parlare.
Ci auguriamo che tanto venga fatto.
Gli ultimi cantastorie
Tanino Preti, musicanti bonu, ma
soprattutto uomo di vera cultura e ultimo dei cantastorie, sensibile e baciato
dalla musa della poesia, sente lo stridore di questo mondo che ritiene di
conoscere la verità e di gestire la giustizia, mentre costruisce attorno
all’uomo un inestricabile labirinto di leggi, dalle quali pochi riescono a
districarsi.
E canta, non la storia di un mulo, come
dice il titolo, ma la storia eterna di una umanità che spesso perde di vista le
coordinate della vita e la luce della Stella Polare.
In questo poemetto di 55 strofe, che segue
lo schema della canzuna siciliana, Tanino Preti racconta a se stesso
e agli altri, quanto è accaduto a Niscemi, rivolgendosi a qualcuno disposto ad
ascoltarlo, e che gli possa spiegare perché non si devono amare gli animali? E,
quale male può aver fatto un uomo, che ha scelto come compagno della sua
vecchiaia un mulo? Rilevando che Gesù amava gli uccellini dei campi, S.
Francesco ammansiva i lupi, e tutti sappiamo che la natura è creatura di Dio e
pertanto bisogna proteggerla e preservarla.
E allora? – si chiede Tanino Preti -
perché c’è gente che provoca incendi e incenerisce i boschi, perché ci sono
persone che praticando la caccia terrorizzano e uccidono creature di Dio?
Anche lui, Tanino Preti, come il
protagonista della sua storia, non capisce il mondo in cui vive, e si ostina a
convivere con i suoi valori, con i convincimenti, quelli che tengono conto, che
gli animali sono nostri fratelli e vanno amati e curati, se necessario. E se un
uomo aiuta un animale che ha bisogno, è segno che lui è la mano di Dio.
Questo canta l’ultimo dei cantastorie, quasi
vox clamans in deserto, ora che la civiltà ha capovolto la gerarchia dei
valori sociali.
Il mulu Totò e la Baronessa di Carini
In buona sostanza, il principio colto da
Tanino Preti è lo stesso che gli antichi cantastorie rilevarono nella baronessa
di Carini. In quel tempo, la cultura vigente condannava a morte la donna, che
aveva tradito il marito. Poco importava che si trattasse di un uomo storpio,
gobbo, vecchio e cattivo, e che avesse preso in moglie una donna giovane e
bella, che non aveva scelto di sposarlo.
La legge del più forte, che allora era
quella del maschio, giustificava la morte cruenta della baronessa di Carini per
mano del proprio stesso padre.
Il cantastorie di una volta, aveva sentito
l’assurdo in ciò che la cultura dell’epoca giustificava, e denunzia il fatto
davanti a un nuovo tribunale, quello del popolo, offrendo a tutti una nuova
versione dei fatti; quella che reclamerà i diritti dell’amore, e renderà eroina
colei che la legge e la giustizia avevano condannata.
Così per il mulo Totò e per Tanuzzu,
la legge moderna segna con il bisturi i confini fra ciò che è giusto e ciò che
è sbagliato, fra chi ha ragione e chi ha torto. Tutto può sembrare logico e
giusto, ma il nostro cantastorie non accetta la versione ufficiale dei fatti e
passa all’opposizione, denunziando alla società le incongruenze di quella
sentenza e le assurdità di questo mondo.
Cuntu e cantu
Un antico modo di dire siciliano
recitava: “Nun cantu e nun cuntu”, per significare che una persona non
aveva voce in capitolo, che non valeva niente. Al contrario, era molto
importante, per tutti, colui che nei tempi antichi cuntava e cantava, cioè, il Cantastorie, una sorta di cantautore
che componeva, cantava, recitava passi di storia minore.
Come gli antichi aedi di greca memoria, il
cantastorie rappresentava l’anima popolare, colui che custodiva e consegnava ai
posteri l’épos di un popolo.
Chi scrive ricorda ancora Ciccio
Busacca, Turiddu Bella, personaggi passati oggi alla storia delle
tradizioni siciliane. Arrivavano di domenica mattina sulla piazza più
importante del paese, montavano il palchetto, molto spesso utilizzando il
portabagagli della loro Seicento; esponevano
il telone con i riquadri sul quale era dipinta la storia che avrebbero
dovuto raccontare e cominciavano ad arringare la folla accompagnando il canto,
crudo ma bellissimo, con la chitarra.
Erano loro, i cantastorie siciliani, che
portavano nei paesi, l’eco dei grandi personaggi e degli eventi che il mito aveva
consegnato alla storia.
Ma, cuntu e cantu nascevano
insieme. Difatti, cuntu è la parola-che-è-concetto “sonoro”, nel senso
che si veicola nell’aria per giungere alle orecchie dell’ascoltatore; il canto utilizza anch’esso il suono
che è modulato in melopea: dunque suono-concetto, il primo, suono-melodia il
secondo.
Tanino Preti, poeta per
elezione, musicista per nascita, intellettuale onesto, che conosce la
poesia del grande poeta niscemese, Mario
Gori, coglie al volo un evento misinterpretato della nostra tradizione: la
storia di Tanuzzu e del suo mulo,
e ne fa una storia cantata, che si fa subito poesia. Storia, si è detto, che
parte dalla realtà del fatto, ma si trasforma subito in evento metastorico che
diventa favola e si fa mito; delicatezza di un racconto che trasporta il
vissuto in una atmosfera surreale. Certamente, ci sono in essa forti pennellate
di costume, vedi il carrettu cu la vutti prontu a ’nsaccari sicchia
strafitenti, ma si tratta di eventi che il nostro cantastorie recupera
dalla memoria e che la stessa dissolve.
Gino Carbonaro
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