2012/02/20

Fuori Gioco di Salvatore Scalia

Fuori gioco

Un libro di Salvatore Scalia

                                                                      di Gino Carbonaro


I libri si dividono in due categorie. Ci sono quelli buoni, che fanno riflettere, meditare, e che perciò arricchiscono; e quelli che non lasciano né emozioni, né traccia dentro di noi.


Tutti i libri di Salvatore Scalia, appartengono alla prima categoria, cioè ai libri che fanno pensare, che diventano parte di noi, e insieme accrescono il patrimonio della nostra cultura e ci rendono più saggi.


È giudizio forte quello che stiamo avallando, ma, è onesto che chi scrive si faccia garante di ciò che dice.


“Fuori gioco” (Gli Specchi, Marsilio Editore, 2009) è l’ultimo libro dello scrittore etneo. Qualcuno lo definisce “romanzo”, ma può essere considerato alla stregua di una tragedia, di diritto una pièce teatrale che invita alla riflessione.  


L’opera parla di un calciatore di provincia che vive la giusta ambizione di diventare giocatore di serie A. Dapprima, la sorte sembra premiarlo, perché riceve una convocazione da una squadra nazionale. Il provino va bene, ma una macchiolina sulla radiografia dei polmoni lo fa escludere. Sogni e speranze vengono distrutte in un attimo per lui, per il padre che si realizzava nel figlio, per i tifosi che auspicavano un suo successo. Dalla delusione alla lenta emarginazione sociale del protagonista, il declino è inesorabile. Il padre comincia a rivolgere le sue attenzioni a un altro figlio, la madre gli rinfaccia di avere abbandonato gli studi, gli amici che hanno trovato un lavoro lo considerano un fallito, fino a quando, una domenica, poco prima di dare inizio alla partita, gli viene intimato di rivestirsi. Un suo antico compagno di squadra, ora dirigente sportivo, gli comunica il licenziamento in tronco. Caduto in disgrazia, viene abbandonato a se stesso anche dalla sofisticata signora Corvaja, moglie del sindaco, che lo aveva utilizzato come cavalier servente e amante. Il fallimento è totale. Ora il racconto diventa analisi di un ambiente dove ognuno si alimenta di chiacchiera e vaniloqui, dove tutti si nutrono di luoghi comuni e falsi valori. 


Ma, Paolo Malerba è solo una faccia della medaglia, l’altra è costituita dal paese etneo di Mascalucia, con le sue abitudini, il suo “gossip” al bar della piazza, le sue cattiverie, le sue storie di corna, le piccole collusioni con i malavitosi locali e qualche omicidio. Storie di ordinaria follia, storie di un microcosmo che ruota sempre uguale, su se stesso, eppure prototipo di un mondo più grande.
     
Si rileva così che la vita è un gioco dove c’è chi perde e c’è chi vince. E vincono sempre coloro che non hanno scrupoli, furbi e “sperti”: quelli che conoscono le regole del gioco della vita, o se le inventano, e se è necessario sanno anche barare. Chi non conosce quelle leggi è liquidato, è messo “fuori  gioco”.


In questo racconto, si sviluppa una sottile trama filosofica quando l’autore va alla ricerca di un perché, di un come, di un quando che possa spiegare il perché della vita. È in questa ricerca la sostanza e la forza del libro.


Comunque, “Fuori gioco” registra ancora un valore aggiunto per il taglio sociologico e antropologico che lo caratterizza: descrizione di forme mentali, sistemi di vita, beghe familiari, gerarchie capovolte di valori, pennellate sul matto del villaggio, curiose consuetudini di giovani provinciali. Per questo, il vero protagonista del libro, si è detto, resta il paese di Mascalucia, appollaiato sulle pendici dell’Etna, dove ogni persona pensa e agisce alla stregua del vulcano di cui sente dentro di sé quel ribollire che vomita fiamme ed energie distruttive quando meno te l’aspetti. La legge del vulcano è per Scalia la legge degli umani, spietati, imprevedibili, insensibili al dolore degli altri, senza anima, agiscono, ma senza dare un perché alle loro azioni.      


La bellezza dell’opera va anche ricercata nei monologhi che l’io narrante instaura con la natura, quell’inebriarsi al profumo delle ginestre, quel seguire l’improvviso battito d’ala di una gazza, nella vertigine offerta dal panorama che guarda l’infinita distesa del mare, dalla montagna coperta di neve, che maschera i sotterranei turbamenti del vulcano. Sono pennellate che ritornano ciclicamente nel corso del libro e rappresentano delle pause di quiete nel tumulto dei sentimenti di Paolo Malerba.


Il risultato creativo dell’opera è raggiunto per mezzo di una scrittura funzionale al racconto, aderente al tema, semplice, pulita, che non concede nulla al vezzo estetizzante, e perciò capace di trasmettere emozioni.


Il finale dell’opera che registra la lucida follia e la scomparsa del protagonista non va commentato, va letto, perché è qui che il racconto si chiude in modo da lasciare il lettore pensieroso, in un dilemma che non si risolve. Con l’amaro in bocca. 

                                                                 Gino Carbonaro


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