Gino Carbonaro racconta le sue impressioni dopo la lettura
de "Il figlio della ruota" di G. Stornello
Per acquistare un libro appena pubblicato e trovare il tempo e la volontà per leggerlo ci vuole un perché. Il perché è dovuto a un invito fattomi da un'amica, che mi suggerì di leggere “Il figlio della ruota” di Gianni Stornello. Il titolo non mi era nuovo. Della presentazione di questo libro mi aveva parlato Domenico Pisana, ma il titolo non l’avevo capito. Il figlio di una ruota? ruminavo fra me e me. Pensavo alla ruota di un carro. Ora, a mezza voce, e per la seconda volta, la mia amica mi suggeriva di leggere il libro, mentre io ascoltavo con un solo orecchio e per giunta distratto. Distratto, ma incuriosito, perché, chi mi suggeriva la lettura non mi voleva rivelare nulla del contenuto.
Acquistai il libro, lo sfogliai. L'editore era "Prova d'Autore", notai la presenza del bollino della Siae, vidi che l’edizione era numerata. Solo 250 copie stampate, e la mia era la 90^ copia, firmata dall’Autore. Adesso capivo che ruota era quella dove una volta si portavano i bambini abbandonati. E ruota 0 “tummunu”, come l’autore in seguito preciserà, era collegata a una Chiesa o a un convento. Cominciai a leggere.
Dopo pochi righi ero dentro la storia. L’amo era stato gettato dallo scrittore e io avevo abboccato. Sorpresa! La scrittura, che non faceva pensare a un fatto letterario, ma a una sorta di verbale redatto da un cronista ottocentesco. Scrittura che scorreva fluida, chiara, funzionale al racconto. Se avessi dovuto dire a quale autore avrei potuto paragonare questo scrittore avrei detto a Giulio Cesare, del “De Bello Gallico”, di cui mi veniva in mente l’inizio: “La Gallia è divisa in tre parti...” Insomma, un diario, una relazione, un verbale scritto a quattro mani perché una volta l’io narrante è il protagonista della storia, il figlio della ruota, Nirìa, altre volte, si suppone possa essere lo scrittore. I due moduli di scrittura, già adottati da Milan Kundera, capaci di affrontare la storia da diversi punti di vista, sono intercettabili per l’uso che l'autore fa, di tondo e corsivo.
Dopo pochi righi ero dentro la storia. L’amo era stato gettato dallo scrittore e io avevo abboccato. Sorpresa! La scrittura, che non faceva pensare a un fatto letterario, ma a una sorta di verbale redatto da un cronista ottocentesco. Scrittura che scorreva fluida, chiara, funzionale al racconto. Se avessi dovuto dire a quale autore avrei potuto paragonare questo scrittore avrei detto a Giulio Cesare, del “De Bello Gallico”, di cui mi veniva in mente l’inizio: “La Gallia è divisa in tre parti...” Insomma, un diario, una relazione, un verbale scritto a quattro mani perché una volta l’io narrante è il protagonista della storia, il figlio della ruota, Nirìa, altre volte, si suppone possa essere lo scrittore. I due moduli di scrittura, già adottati da Milan Kundera, capaci di affrontare la storia da diversi punti di vista, sono intercettabili per l’uso che l'autore fa, di tondo e corsivo.
Tornando alla scrittura, ci si chiede a cosa serve il linguaggio? Certamente a comunicare. E questo cronista/scrittore stava comunicando. Ma, il fatto era un altro. Quando fui costretto a fermarmi di leggere per rispondere al telefono, mi ritrovai “disappointed”, perché ero stato costretto a interrompere la mia lettura, e ora mi ritrovavo desideroso di tornare al libro per continuare la storia. Adesso ero avvinghiato. Inchiodato. E spesso anche emozionato, perché preso dal racconto, preso di forza, chissà con quale éscamotage, dallo scrittore. Ma non era malìa, era la bellezza, la pulizia della scrittura, la verità del racconto, la sincerità di uno scrittore che voleva restare aderente ai fatti e che escludeva ogni narcisismo scrittorio. In poco tempo, ritenni di trovarmi davanti a un capolavoro vero. Sentii il bisogno di ringraziare la mia amica e di anticiparle il mio giudizio. Certo, compromettente, se ancora avevo letto solo una parte del libro. Ma, nella e-mail che le inoltrai, feci come il bottaio che dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Le dissi che il libro era eccezionale, ma, aggiunsi, che bisognava andar cauti, perché il lungo racconto è per uno scrittore come una maratona per un atleta. Si comincia simulando il passo del centometrista, ma spesso si cede a metà strada o nel finale. E pensai a un aereo sulla pista di decollo. L’inizio del romanzo segnala la partenza, non il volo.
Invece, la sorpresa, per me sicuramente gradita. Mentre leggevo sentivo di fare tifo per lo scrittore. Qualche giorno prima, fra l’altro, parlando di Franco A. Belgiorno, avevo suggerito agli amici che mi ascoltavano, che era giusto considerare la possibilità di inserire "Ciccio" nel Parnaso di quei nostri scrittori, che si erano segnalati in questo campo letterario. E facevo il nome di Raffaele Poidomani, di Carmelo Assenza poeta, e di Belgiorno.
La Provincia di Ragusa è cresciuta culturalmente. Però, dissi anche che c’erano altri scrittori in lista di attesa. Lo dissi perché lo sentivo.
Ora, leggendo “Il figlio della ruota” una idea faceva capolino nella mia testa. Forse era questo un altro scrittore da mettere accanto ai nostri grandi. Al momento non mi veniva di accostare questo lavoro a “Terra Matta” di Vincenzo Rabito. E però, pensai che in questi ultimi anni, i libri che hanno lasciato un segno dentro di me sono: “Storia di Genji, principe splendente” di Murasaki Shikibu, un romanzo scritto nell’anno Mille da una scrittrice, che dà il via alla letteratura giapponese, e “Terra Matta” di Vincenzo Rabito. E ora? Ora che ho finito di leggere il libro, mi sento di dire che questo romanzo è eccezionale. Che ha lasciato un segno nella mia persona. Romanzo terribile anche per la sua semplicità, essenzialità, bellezza. E se il giudizio si dà al libro, implicitamente si dà al suo autore, cioè a Gianni Stornello.
Ma, cosa tratta questo libro? Tratta una storia narrata da un protagonista, ragazzo illegittimo (inteso “U figghiu ra rota”) nato da un rapporto fra una serva (criata) e un agiato nobilotto, vedovo, padre di due figli legittimi, che di fatto riconosce il figlio illegittimo, chiamato Nirìa, ma legalmente non fa nulla per dargli il suo cognome. La vita di questo ragazzo, Andrea-Nirìa e della madre Rosa, non è semplice, ma i fatti raccontati fanno emergere uno spaccato della vita di tutti i giorni in quell'ambiente di Ispica, che è la città dell'autore, e degli umani, con persone buone, cattive, perverse, invidiose, egoiste, profittatrici, ma la storia dà allo scrittore Gianni Stornello l’opportunità di ricordare e accettare usi, costumi, tradizioni e superstizioni della sua gente. Così, scopri che a Ispica/Spaccaforno/ Collecalandra, nella ricorrenza del "Giovedì Santo, che si chiama festa", con il popolo che andava/va in chiesa “portando una “cosa” di cera, un bambino (di cera), un braccio, una gamba, una testa, un busto, un semplice cero, di quello grande (ma c'è chi ricorda di aver visto anche fegato, cuore, mani, piedi). Si trattava di persone che avevano ricevuto un miracolo, e portavano un dono per ringraziare il "festeggiato", che ha ricevuto la grazia.
Ma, il gioiello del libro è costituito dall’inserimento di modi di dire siciliani (è quello che è detto "pastiche" linguistico): çiancia ccu l'uocchi e cu lu cori, oppure, era senza né testa né cura, e anche, chista è l’acqua supra o fuocu, e così via). E ancora di abitudini, come questa: “La madre che aveva partorito era considerata impura per quaranta giorni e, se il bambino veniva battezzato durante questo periodo, alla madre non era consentito assistere alla cerimonia, ed era perciò costretta a restare fuori dalla chiesa".
Ma entrare nei particolari non fa bene alla comprensione dell’opera, che è come un affresco cristallino, trasparente di un momento storico, di una società, di una città, della sventurata vita di un uomo nella particolare dinamica di gruppo, e non può essere spiegata mostrando un frammento, un particolare. Per questo ci sentiamo anche noi di suggerire senza timore la lettura dell'opera.
Comunque, fra i meriti dello scrittore, la capacità di penetrare la psicologia umana, creando ancora una ragnatela perfetta di racconto intrecciato, senza alcuna sbavatura, con anticipazioni e suspense.
Per la essenzialità della scrittura, mi viene da paragonare questa opera ad alberi di olive appena potati da esperti "mastri d’ascia" che, nel sistemare gli alberi creano come fossero bonsai, opere bellissime che ricordano la poesia della natura. Poesia, dunque, anche in questo splendido libro del quale non è possibile anticipare nulla al futuro lettore, e ringrazio non poco la intelligenza della mia amica, che non ha voluto anticiparmi nulla del libro, quasi a voler dimostrare che ogni parola detta prima, e in più, rappresenta quasi sempre una interferenza, che può disturbare il futuro lettore.
Merito dell’opera? Alla lettura, troppe sono le emozioni che riesce a trasmettere al lettore. Ma, è proprio l'emozione, la cartina al tornasole che dà la prova di trovarci davanti a un’opera d’arte vera. Il finale, poi, dà la misura dell’Autore.
Chiusura forte, come i due accordi finali di un Tango. Una sorpresa, una commozione, che fa inumidire gli occhi.
Voto. Sì, diamo il voto! Dieci pieno, ma senza lode. Perché, mentre il IV capitolo è stupendo, l’XI ci sembra inserito surrettiziamente. Il racconto riportato nell'XI cap. è sociologicamente interessante, ma a me pare non funzionale al racconto creando uno iato che spezza in due il libro.
Nelle prossime edizioni, l’Autore potrebbe valutare la possibilità di toglierlo.
E ancora. Il personaggio meglio descritto? Maria Figura. Leggere per sapere chi è, e capire il perché.
Gino Carbonaro
gino.carbonaro.italy@gmail.com
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