Sosteneva uno scrittore del passato che il primo giudizio critico è quello del tipografo, perché è lì fra linotype e tavolo di composizione, che viene fatta in silenzio la prima diagnosi di un autore e di un’opera. È il tipografo – continuava lo scrittore – che valuta “a naso” l’opera e ne misura la validità, con un giudizio professionale e disinteressato.
Ho ripensato a questo autore, quando ho saputo che Roberto Cannata, Calogero Lo Bello e Pietro Ottimo, titolari de “La Grafica”, la nota tipografia modicana, qualche anno fa hanno voluto fare un omaggio all’amico scrittore Franco Antonio Belgiorno, pubblicando in edizione fuori commer
cio I guardiani di nuvole, un libretto di una quarantina di pagine, contenente trentadue ricordi di personaggi modicani, ora scomparsi, che appartengono alla giovinezza dello scrittore, e sarebbero stati dimenticati, se Belgiorno non li avesse fissati nel ricordo di pagine di splendida poesia.
Sotto il profilo letterario, "I guardiani di nuvole! sono schede commemorative, che lo scrittore dedica alla memoria di personaggi umili, per l’importanza che gli stessi rivestono nella memoria dell’autore e per l’immaginario collettivo dei modicani, ai quali questi personaggi appartengono.
Idealmente, "I guardiani di nuvole! richiamano alla memoria le epigrafi della Antologia Palatina, la storica silloge di epigrammi greco-alessandrini, che fissano in estrema sintesi e bellezza il ricordo di persone segnate dalla sorte e dalla morte; e fanno pensare ancora alla Antologia di Spoon River (che alla Antologia Palatina si ispira, oltre che per il contenuto dell’opera, anche per il titolo).
"I guardiani di nuvole", come i personaggi di Edgar Lee Master, sono vissuti ai confini della società, in una sorta di limbo sociale, senza far male a nessuno, semmai ricevendone, e cercando di essere accettati dagli altri.
"I guardiani di nuvole" sono i paria della società, gli emarginati, come Neli Scaccia e Vanni u piecuru, gli alienati come U Cavaleri Poidomani, figure semplici e sorridenti, come «Angiledda, profumata e bella come i fiori di capperi, che andava raccogliendo lungo le lenze di Cartellone»; creature che sembrano appartenere a un mondo altro, dimenticate da Dio e dagli uomini.
Sono questi i personaggi ai quali Belgiorno rivolge la sua attenzione, quelli che invita al suo cenacolo letterario, per gustare ancora il sapore delle cose autentiche, perché solo dove c’è povertà c’è semplicità e non trovi la alienazione che provoca la ricchezza e il benessere.
Così, rivedi Vannìnu re sponzi scendere nei pomeriggi estivi con una cesta piena di mazzetti di gelsomino, che avrebbe venduto ai signori seduti al Circolo Unione o al Caffè Orientale: questo è il lavoro che si era inventato Vanninu per racimolare qualche lira, per sentirsi parte dell’insieme, e dare un valore alla sua giornata, un significato alla sua vita. «Ora – scrive Belgiorno – è anche lui uno stelo di fiore, una memoria del tempo perduto, un vascello che scivola nel mare del nulla, e si lascia dietro la scia ineguagliabile del suo carico profumato».
Immagini che si dissolvono, parole che suonano musica consegnata al vento, che si fa carico di trasportarla sulle nuvole, dove Vanninu raccoglie ancora gelsomini per profumare gli altari del Paradiso «col suo odoroso groviglio di bianco».
Ne "I Guardiani di nuvole", vengono rievocate queste presenze-assenze, figure alle quali Belgiorno restituisce una dignità che percepisci superumana; personaggi unti dal Signore, ma segnati dalla sorte, che come fiori di campo hanno lasciato una debole, ma dolce e intensa traccia del loro passaggio su questa terra.
Così, Luiggìnu l’uoviru (il cieco) che batte il tamburo facendosi guidare per mano da un bambino, fa il banditore per guadagnarsi la vita: «Ora imbonisce in Paradiso e dà la sveglia alle nuvole, chiama a raccolta i paesi aerei, quando è ora di ornarli con le trine degli arcobaleni, e in quei borghi assolati, in quei villaggi dove i ciechi sono tutti vedenti, non ha bisogno di chi lo conduca per mano. Sta battendo che tutto va bene, tapum, che la città è felice, tapum; che la gente ha finalmente scoperto la giustizia e l’amore, tapum. Sta sognando nella sua pacifica morte». Ed è poesia eletta, e della più fine, quella che abbiamo appena riportato.
E Pietru c’ô frischiettu, che per poche lire, suonava ad orecchio, con meraviglia di tutti, qualsiasi motivo, «fosse il Concerto n° 3 per violino di Mozart o la Quinta di Beethoven, non avrebbe sbagliato una nota».
E il signor Di Rosa, che «per un modesto obolo offriva schedine della Sisal» che preparava di notte «in una foresta di uno, ics, due... perduto nell’ossessione di far ricchi i suoi simili». Lo vedevi apparire da lontano, alto, allampanato, «gongolante e pacifico», sventolando le schedine, passando da un marciapiede all’altro alla ricerca di clienti, e quando ti arrivava vicino gli sentivi sussurrare sottovoce: «Milioni, milioni!». Poi, d’un tratto non si vide più: si disse che era morto.
Di questi personaggi, l’autore non dimentica nessuno, e ricorda Matteu, che tutte le mattine raccoglieva i «sacchetti con i fondi del caffè per le brodaglie che davano all’ospizio». Figure di un mondo dove tutti avevano un ruolo preciso e cercavano di inventarsi un mestiere per vivere.
Ora, sono tutti dissolti nella nebbia, dileguati come ombre, «perché anche di ombre è fatta la vita, e di titoli e blasoni non è mai risorto un ricordo che si accompagnasse alla purezza e alla innocenza della povertà». Figure immense, simboli, che diventano eterni, ora che l’autore li ha trasportati nell’iperuranio della sua fantasia, nell’Eden dei ricordi. Ed è mestizia dell’anima, ed è dolore, quello che trasmette questa poesia, dal tono flebile, che canta sottovoce le cose che vanno
via, «perché la vita macina la memoria e la porta al macero della gloria».
Sembra un bouquet, questo libretto, o anche un concerto di musiche giocate sui toni minori del blues, che cantano elegiacamente la vita.
E c’è ancora Zuddu, che se n’è andato per sempre dai Ponti di Pulera, «... e ora sta seduto in un cupo silenzio sulla soglia del suo tugurio, nel fresco della sera che profuma di garofani e menta, in mezzo al volo basso di miriadi di rondini, dimenticato da Dio, come un pacchetto d’uomo che nessuno viene a ritirare». E siamo al tema centrale della meditazione poetica di Belgiorno: al senso della “dipartita” e della “assenza”, della esistenziale separazione della parte dal tutto, della spartenza e della solitudine, da lui sentita come massimo dei mali, forma di lacerazione dell’io, che lo scrittore vive come evento fatale e tragico della vita; e sono temi centrali della tradizione poetica siciliana.
Solitudine, spartenza, dimenticanza sono il leitmotiv che accompagna la produzione poetica di Belgiorno; temi che, a volte, si rifugiano nello sfondo e sembrano attenuarsi, ma che ricompaiono all’improvviso per materializzarsi nel grido della “disperanza”, o della speranza perduta, che nutre l’angoscia dell’esistere; elementi che assumono una valenza tragica. Ed è la prova che tutti sono andati via, tutti sono scomparsi e ci hanno lasciati, qui nel deserto della solitudine! Così, Angiledda, che «si perse dentro a un tramonto e portò via la nostra infanzia»; Donna Cuncittina, che «si spense nel sonno, e forse sognò i gradini del cielo mentre li saliva uno per uno»; ed è andata via anche Rosetta Di Rosa, la dolcissima, che scomparve in un giorno, con la famiglia, cacciata via dalla miseria.
Spartenza, solitudine, dimenticanza sono temi classici, ontologici dell’esistenzialismo poetico di Franco Antonio Belgiorno, che si prefigge ora un’impresa impossibile, quella di trattenere al di qua del «limitare di Dite» e della dimenticanza, che è forma di morte, quei personaggi che hanno nutrito la sua giovinezza, «perché la vita non può arrendersi alla falce della morte». Ed è questo che fa la misura e la grandezza della poesia di Belgiorno.
E siamo al “Tempo”, altra categoria dell’esistere, che è il vero protagonista dell’opera di Belgiorno. Il Tempo che è signore e padrone delle cose, il Saturno Kronos, che divora le sue creature; il Tempo che dà e ruba gli affetti, le albe, i tramonti, le bellezze, la vita, «il tempo che ci fa orfani di affetti, ... il tempo che incendia il passato ... anche le briciole di vita, che si racimolano alla luce del sole di casa»: il tempo che blocca ogni cosa, ed è per questo, che ... «l’angolo del vicolo dove scompare don Tanuzzu è ancora senza lampadina».
Tempo crudele, che paradossalmente ama le sue creature e «incorona i fichidindia di giallo e di rosso, e tinge gli ulivi d’argento, come se la polvere... del tempo... fosse caduta sulle loro foglie».
Ma sulla solitudine degli esistenti e come forma di reazione all’oblio, si erge il canto del poeta, mentre la voce della poesia si fa memoria: custode dei ricordi e del tempo perduto. È così che l’amarezza del pessimismo si stempera e si addolcisce nel farsi poesia, e il poeta, che è lirico, si fa poeta epico, in quanto interprete dei sentimenti di tutti. Ultimo degli aedi di greca memoria, Franco Antonio Belgiorno, dall’alto della sua splendida casa di Cartellone, canta sulla cetra dei ricordi, l’immagine di Modica, ora pietrificata nell’afa estiva, ora addormentata avendo preso per cuscino una collina, ora «come ombra che salda i frammenti della sua sostanza sulle pietre e sul cielo», e materna ne custodisce anch’essa le memorie della vita. Ed è poeta vero, Belgiorno, che usa le parole come fossero note, con le quali evoca musica, echi, suggestioni, e quindi consonanze di amore per questi fratelli minori della grande e incomprensibile storia degli umani. E sono belle le cose che scrive, i personaggi che descrive, le suggestioni che trasmette, che emanano un’energia e una verità che è vita, soffio vitale, che è spirito, onda che ti porta e ti trasporta: ed è microstoria che ti fa pensare, ma soprattutto poesia che ti fa sognare e ti fa interrogare sul mistero della vita, sulla bellezza delle piccolegrandi cose che muoiono e vengono salvate dal ricordo. Ed è bello quando la scrittura trasforma in simboli, i personaggi di tutti i giorni, poggiando il discorso anche sulla filosofia dell’esistere, che il lettore non manca di cogliere fra le righe di queste pagine stupende.
Gino Carbonaro
In “Pagine dal Sud”, aprile 2008.
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