Gli Iblei e la "Grande Guerra"
Rievocazione della "Grande Guerra" a distanza di un secolo
Grandi Guerre, Grandi Banche, Grandi Scrittori
Una "Contro-Storia"
della Prima guerra mondiale
scritta
della Prima guerra mondiale
scritta
Dal prof. GIUSEPPE BARONE
Delle guerre, sappiamo quello che si legge nei manuali di storia, a scuola, e quello che raccontano giornali e televisioni. Ma, parole e immagini, nomi di re, battaglie e imperatori non dicono tutto di un evento. Chi legge riceve informazioni fredde che spesso giungono da tempi e spazi lontani. E se qualche notizia è tale da disturbare la sensibilità di chi legge, difficilmente sconvolge la routine della nostra giornata.
Della “Grande Guerra”, i libri
raccontano che un giovane serbo, diciannovenne, di nome Gavrilo Princip, il 28
giugno del 1914 uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco
Ferdinando, principe ereditario al trono austro-ungarico, in visita
ufficiale a Sarajevo (Bosnia). Da quei primi colpi di pistola mirati alla
fronte di un uomo (non l’avesse mai fatto!) si provoca una reazione a catena
che innesca la più grande guerra di tutti i tempi. Conflitto che fece esplodere
il mondo. Catastrofe che provocherà lutti e sofferenze incredibili per
l’umanità. Massacri provocati da sopiti desideri di rivalsa, volontà di
sopraffazione, interessi economici e ideologie contrastanti, e da mille altre
cause custodite nel codice genetico del genere umano. Guerra che scompigliò le
economie degli Stati, e sconvolse il tessuto sociale del tempo. Obiettivo?
Sterminare un “nemico” per rendere più potenti i vincitori. “Bellum omnium
contra omnes”. Guerra di tutti contro tutti, l’avrebbe definita Thomas
Hobbes. Conflitto! Dove agli umani viene fuori il primordiale istinto di
aggressione animale: la volontà di rappresaglia contro il suo simile. Per
questo, dopo la Prima Guerra Mondiale nulla tornerà come prima, se si pensa che
uscirono dal teatro della storia quattro potenti dinastie imperiali: gli Czar
di Russia (cancellati dalla rivoluzione del 1917), gli imperatori di
Asburgo d’Austria-Ungheria, gli Hohenzollern di Germania e l’Impero Ottomano.
Per una guerra che generò fiumi di sangue,
e sconvolse il globo terrestre, i richiamati alle armi furono 60 milioni. Al
marasma che fece seguito all’omicidio di Sarajevo (considerato il “Casus
belli”, insignificante fiammifero che dà origine a un incendio), l’Italia
non poteva chiamarsi fuori. Perciò dichiara guerra all’Austria. E fu
evento che vide la più bella gioventù armata di moschetto, costretta ad
uccidere per non farsi uccidere. Conflitto! Dove la posta in gioco era la
vita. La promessa ricompensa, per ogni soldato? Una medaglia di metallo al valor
militare, e, nel migliore dei casi, il proprio nome scolpito in aeternam rei
memoriam, su un monumento ai “Caduti di Guerra” nella piazza del proprio
paese.
Combattevano tutti come leoni - scrive il
prof. Giuseppe Barone - quei baldi giovani, per diventare eroi, ma qualcuno
dalla Gran Bretagna fa eco con sarcasmo, che di leoni si trattava, ma comandati
da asini. Questo, per ben fissare il concetto che la vita di un soldato in
guerra era spesso nelle mani di imbecilli privi di scrupoli che usavano gli
uomini come carne da macello.
Con la dichiarazione di guerra, comincia
in Italia una massiccia propaganda per giustificare la necessità del conflitto
e far capire ai giovani che andare a combattere significava salvare l’onore
della Patria e della propria famiglia. Tutto questo mentre i futuristi e l’
“intellighenzia” del tempo decantavano la bellezza della guerra
considerata “sola igiene del mondo” e auspicavano un “tiepido fumante bagno di
sangue”, che - si disse - avrebbe cancellato la mediocrità del presente. Come è
possibile vedere: “La follia gestiva le menti”.
Per questo evento, il ministero della
guerra richiamò alle armi 5 milioni di italiani, il fiore della gioventù, un
sesto della popolazione nazionale, e registrerà in seguito 650 mila caduti, e
oltre un milione fra dispersi, prigionieri e vittime della spagnola. Questi i
dati. Ma, le cifre appena riportate non dicono della sofferenza umana di quei
soldati abbandonati notte e giorno in mezzo al fango, alla pioggia e al gelo, costretti a
convivere con lo spettro della morte. Questa è storia che non interessa le
statistiche.
Diverso è il punto di vista dello
storico ibleo prof. Giuseppe Barone, il quale sostiene, a ragione, che la vera
storia della “Grande Guerra” può essere conosciuta solo se si interroga chi
l’ha vissuta. Solo se si fruga negli archivi locali e si rileggono i numerosi
diari di guerra scritti da chi voleva lasciare una testimonianza, disperata, di
quella che fu la sua vita in una guerra di trincea, di quella che fu definita
“la più grande catastrofe umana dell’era moderna” prima di un’altra guerra
mondiale.
Ad aprire
inediti squarci di luce su questa realtà, dando vita a una “contro-storia”
della Grande Guerra, è il prof. Giuseppe Barone nella sua ultima, magistrale
opera titolata gli “Iblei nella Grande Guerra”.
Si tratta di un lavoro richiesto all’illustre storico dalla Banca Agricola Popolare di Ragusa, che nella
ricorrenza del Centenario della Prima Guerra Mondiale ha inteso onorare la
memoria di quei giovani soldati Iblei che hanno dato il loro tributo alla
guerra. Progetto di inestimabile valore storico, che ha messo in luce una
parte di realtà poco conosciuta sino ad ora. Ricerca storica che mancava in
questa terra degli Iblei.
Parte da qui l’attenta ricerca del nostro
“Uccio” Barone. Fatica immane, la visione di diari, lettere, fotografie e
documenti di quanti, dalle trincee hanno messo per iscritto quello che doveva
sopportare un soldato che combatteva una guerra alla quale cominciava a non
credere. Soldato che non capiva perché combatteva e per chi combatteva. E soprattutto perché avrebbe potuto e dovuto morire.
Nella ricerca, un supporto importante è
dato dall’ “Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano” che dal 1999 raccoglie
diari di guerra, oltre che dall’archivio storico del Comune di Ragusa e da
documenti custoditi da famiglie che un secolo fa hanno avuto antenati in guerra.
Eccezionale ancora, a corredo del libro, la documentazione fotografica che proviene da collezionisti privati, quasi tutti locali, e da Musei e Archivi di Stato.
Eccezionale ancora, a corredo del libro, la documentazione fotografica che proviene da collezionisti privati, quasi tutti locali, e da Musei e Archivi di Stato.
Qui di seguito l’apertura del prof.
Barone che analizza gli eventi alla stregua di un antropologo.
“Nonostante la propaganda e la
pedagogia patriottica elaborata dalle classi dirigenti, per milioni di
combattenti l’idea di Patria resta un concetto incomprensibile o si identifica
con l’odio e il disprezzo verso le autorità politiche e militari responsabili
di mandare i giovani a morire in prima linea (…), per questo, caporali e
sergenti vigilavano sugli umori delle truppe, stando sempre all’erta per il
rischio di ammutinamento nei battaglioni”.
Ed è proprio il tenente Emanuele Distefano, ragusano, a riferire
di disertori che durante gli attacchi si fingevano morti per sottrarsi agli
scontri. Per questi veniva applicata la fucilazione sul campo che però
non funzionava come deterrente al malcontento diffuso”.
A prova di quanto si è
detto, il nostro Distefano scrive:
“Si doveva passare per le armi un disertore. Perché l’orribile spettacolo fosse di monito ai soldati, il colonnello Regazzi volle che tutto il Reggimento fosse presente (...) Quando l’eco della fucileria rintronò cupamente nella valle, e l’infelice si accasciò al suolo, tra i soldati serpeggiò un fremito di vendetta”.
“Si doveva passare per le armi un disertore. Perché l’orribile spettacolo fosse di monito ai soldati, il colonnello Regazzi volle che tutto il Reggimento fosse presente (...) Quando l’eco della fucileria rintronò cupamente nella valle, e l’infelice si accasciò al suolo, tra i soldati serpeggiò un fremito di vendetta”.
Di fatto - scrive il prof. Barone - i
nemici che aveva il soldato erano due, entrambi temibili: uno era il nemico
vero che stava davanti, al di là della trincea, l’altro era rappresentato dagli
Alti Comandi, dalla disciplina spartana, e dai carabinieri che dietro le spalle
avrebbero fucilato i disertori. Erano questi i segni che non davano al soldato
il senso della Patria.
Sulle
condizioni dei soldati, vale ancora la testimonianza del sopra ricordato tenente
Distefano che testimonia sulla vita dei soldati:
“Di notte, la baracca assumeva l’aspetto di un covo di animali. L’aria appestata da odori nauseanti era irrespirabile. Alcuni russavano a terra. A destra e a sinistra i miei soldati giacevano nelle posizioni più sconvenienti ed emanavano una puzza che dava le vertigini. Quelli che stavano sulle tremanti cuccette superiori lasciavano cadere su di me fango e pidocchi”.
“Di notte, la baracca assumeva l’aspetto di un covo di animali. L’aria appestata da odori nauseanti era irrespirabile. Alcuni russavano a terra. A destra e a sinistra i miei soldati giacevano nelle posizioni più sconvenienti ed emanavano una puzza che dava le vertigini. Quelli che stavano sulle tremanti cuccette superiori lasciavano cadere su di me fango e pidocchi”.
In così precarie condizioni
igieniche, sottonutrizione e qualità scadente del vitto - rileva il prof.
Barone - era inevitabile la diffusione di malattie infettive: colera e
tubercolosi, infezioni intestinali, polmoniti e altro che decimavano i reparti.
Nota ancora il prof. Barone che il
soldato è costretto su un terzo fronte a combattere un’altra guerra: contro
invisibili microbi e batteri che facevano strage più delle artiglierie e dei
gas asfissianti.
Qui ancora, un’altra testimonianza del
soldato Angelo Di Stefano, scalpellino di Vittoria che nel suo diario annota:
“La giornata era piovigginosa. Noi eravamo tutti bagnati fradici. Sdraiati pancia a terra sul fango. Come porci. Tra il freddo dell’acqua e la paura della morte tremavamo da capo a piedi. Sembravamo le pecore del macellaio destinate al coltello. Quando viene ordinato l’attacco, nessun capello sulle nostre teste era in forma naturale. Erano rizzati come chiodi. Era la morte che ci compariva (...) Né il Vesuvio, né l’Etna cacciavano tanto fuoco come le mitragliatrici, fucili, bombe, shrapnel nemici, mentre le granate lanciavano in aria corpi umani frantumati (...) Il suolo era un pantano di sangue che si mescolava con l’acqua. E tutto si colorava di rosso. Oh Dio! Se è vero che esisti come puoi permettere tanto! E aggiungi ancora.. “ i lamenti dei moribondi e le grida dei feriti che laceravano il cuore. Ma chi poteva soccorrerli? In quei momenti ognuno pensava per sé. Ubbidendo agli ordini, tanti erano i soldati che andavano all’attacco, e tanti restavano stecchiti sui reticolati. Ci sentivamo al patibolo”.
“La giornata era piovigginosa. Noi eravamo tutti bagnati fradici. Sdraiati pancia a terra sul fango. Come porci. Tra il freddo dell’acqua e la paura della morte tremavamo da capo a piedi. Sembravamo le pecore del macellaio destinate al coltello. Quando viene ordinato l’attacco, nessun capello sulle nostre teste era in forma naturale. Erano rizzati come chiodi. Era la morte che ci compariva (...) Né il Vesuvio, né l’Etna cacciavano tanto fuoco come le mitragliatrici, fucili, bombe, shrapnel nemici, mentre le granate lanciavano in aria corpi umani frantumati (...) Il suolo era un pantano di sangue che si mescolava con l’acqua. E tutto si colorava di rosso. Oh Dio! Se è vero che esisti come puoi permettere tanto! E aggiungi ancora.. “ i lamenti dei moribondi e le grida dei feriti che laceravano il cuore. Ma chi poteva soccorrerli? In quei momenti ognuno pensava per sé. Ubbidendo agli ordini, tanti erano i soldati che andavano all’attacco, e tanti restavano stecchiti sui reticolati. Ci sentivamo al patibolo”.
Nessuno storico di professione ha
mai riportato per iscritto documenti così veri e crudeli. Ma, questa è la
guerra! Ed è questa la vera storia della follia umana che scatena i conflitti.
Di fronte a questa realtà -
continua il prof. Barone - colpisce la compostezza e la coralità con cui
si condividono il dolore e il lutto nella famiglia allargata, l’accettazione
della sorte avversa come una variabile assegnata dell’esistenza.
E continua all’interno del libro, riportando passi di "Terra Matta" del chiaramontano Vincenzo Rabito, il quale
“penzava che il latro covermo mi aveva chiamato per antare a farimi ammazzare”.
Come dire - aggiunge
il prof. Barone - che l’arrivo della cartolina-precetto, a livello popolare,
veniva percepita come una violenza dello Stato contro la povera gente.
E, amaramente continua
Rabito “.. in pochi ciorni sparava anch’io e ammazzava come uno brecante (…) In
questa carneficina che ci a stato deventammo tutte macellaie (...) Più non
erimo soldate cristiane. Erimo tutte diventate pazze. Che magare certe volte ni
sparammo tra noie, perché non sapiamo dove era il nemico (...)
Il solo nostro conforto
era la bestemmia a tutto l’ore, d’ognuno con il suo dialetto. Chi butava
bestemie alla siciliana, chi li botava vénite, chi le botava lompardo, e chi
era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero
conforto.
Cosa aggiungere ancora? Che il libro ha
tante chiavi di lettura. Chi legge si trova per prima cosa di fronte ad
un’opera letteraria, subito dopo rileva l’opera di storia vera, che nasconde un
intendimento: quello di dimostrare che questa “Historia magistra vitae est!” (la storia è maestra di vita).
Leggendo questo libro comprendiamo meglio chi è l’uomo, la sua psicologia, la sua potenziale cattiveria, il menefreghismo delle classi dominanti, la sofferenza che è costretta a soffrire da sempre la classe subalterna, e ci fa chiudere dicendo che questa è la vita!.
Che dire del suo Autore? Che
“Uccio Barone” in questo libro ha messo l’anima. E chi legge, come è accaduto a chi scrive, può in molti passaggi ritrovarsi gli occhi lucidi di commozione. In ogni caso va rilevata la struttura dell’opera, la prosa
coinvolgente, una magistrale interpretazione dei fatti.
Una opera che va considerata un ritratto di famiglia, diciamo di questa nostra provincia (che durante la guerra mondiale non era provincia). Questo il suo dono fatto a tutti noi.
Un elogio dunque (atto dovuto) che viene da estendere ai dirigenti della Banca Agricola Popolare di Ragusa che hanno creduto e investito in questo meraviglioso progetto.
Una opera che va considerata un ritratto di famiglia, diciamo di questa nostra provincia (che durante la guerra mondiale non era provincia). Questo il suo dono fatto a tutti noi.
Un elogio dunque (atto dovuto) che viene da estendere ai dirigenti della Banca Agricola Popolare di Ragusa che hanno creduto e investito in questo meraviglioso progetto.
Gino Carbonaro