Memorie del Carrubo
Testimone antico degli Iblei
Considerazioni a margine dopo la lettura di
"Memorie del Carrubo" di Elio Ripoli
Gino Carbonaro
Elio carissimo,
Ho ricevuto ieri il tuo “Memorie del Carrubo”.
Ti ringrazio. Ero curioso e ansioso di leggerlo. Qualcosa dentro di me mi diceva che mi sarei trovato davanti a un lavoro interessante.
Ed è stato proprio così.
Ho letto i primi quattro capitoli ieri pomeriggio,
ma ho cominciato (e finito) di leggerlo in piena notte, quando solitamente mi sveglio per una ventina
di minuti per poi riprendere il sonno nuovamente. Invece, l’ho letto d’un fiato, emozionalmente,
senza potermi né volermi fermare, malgrado
gli occhi di tanto in tanto dicessero di no.
Poi, quando ho finito, non ero più lo stesso di prima (forma di catarsi di aristotelica memoria) certamente modificato dentro di me dalla lettura di questo lavoro, che è uno dei più originali che abbia mai letto. Cosa c’è di pregevole in questa tua opera?
Cominciamo dalla scrittura che sostiene il racconto: pulita, cristallina, essenziale. Subito dopo, la bellezza che scaturisce dalla poesia che sostiene il racconto: poesia discreta, inappariscente, ma sempre presente, che è poi quella che dà forza all’opera. E ancora, da segnalare, la originalità dell’opera che non è assimilabile a nessuna delle forme letterarie trasmesse dalla tradizione, dal momento che sta a mezzo del tutto. In parte può sembrare una pièce teatrale, che vagamente richiama alla memoria lo schema della tragedia greca con prima voce recitante (quella del carrubo) e il coro (seconda voce narrante) mentre è palese una sotterranea rievocazione degli antichi racconti dei Cantastorie che recitano a un pubblico ignaro (Sintiti, sintiti chi vi cuntu!..) fatti di storia passata. E ancora, senti il sapore del documento dettato da un cronista-storico che rivisita un passato che è di tutti, dove il racconto avanza con un incedere maestoso, quasi sacrale per il modo di rapportarsi al contenuto, ai fatti rivissuti, adesso, in maniera quasi religiosa. Per questo, a me pare che l’opera riesca ad esprimere l’épos e dunque anima e cultura del popolo siciliano, anche se il lavoro è assimilabile anche alla poesia lirica per il modo con cui il Carrubo esterna le sue impressioni, per l’impasto della frase composta con parole che colpiscono la sensibilità del lettore.
Ma, ti accorgi subito che trattasi di lirica-oggettiva (così affermo, anche se il termine può essere considerato improprio) perché il poeta-storico-drammaturgo-cantastorie (cioè, l’Autore) ha pudore dei propri sentimenti, non scivola in facili sentimentalismi, non si lascia coinvolgere dai fatti che narra, ormai sottratti al tempo e capaci di vivere adesso la loro dimensione astorica, atemporale.
Poesia, dicevamo, che sa di religione, come dettata da un sacerdote che celebra un rito, mentre coglie il respiro del tempo, e della natura, in una sottile aderenza orfica che promana dalle viscere della terra iblea e che nel Carrubo, si fa corpo, mente, anima.
Originalità, ancora, per l’idea-struttura dell’opera, che pone l’io narrante in un albero che racconta in prima persona gli eventi del passato, quelli cui lui stesso ha assistito, non solo i maggiori, ma soprattutto quelli minori, che sono per molti di noi importantissimi.
Dinamica di fatti storico-sociali, alchimie della politica, angosce di condannati a morte, màrtiri innocenti sacrificati per la cosiddetta patria, ingiustizie e assurdità sociali di cui, forse, il Carrubo non comprende i motivi, la logica. Né comprende, il Carrubo il terrore notturno di quanti nel 1907 morirono sotto le acque dell’alluvione di Modica, né le assurdità delle due guerre mondiali.
E infine, con sensibilità che addolcisce la cruda storia, L’Autore non manca di evocare l’eterno idillio dei giovani innamorati, che spesso incidono i segni del loro amore sulla corteccia del Carrubo, o il gioco che facevamo da fanciulli, quando si cercava di rubare un suono alla foglia accartocciata dell’albero.
E ancora, originalità e bellezza, in queste “Memorie del Carrubo”, perché l’opera propone al lettore una antologia non solo di fatti storici solitamente poco conosciuti, ma anche di poeti come Quasimodo, e di altri ancora come Renato Civello.
Microstorie rubate al tempo, rese sacre dal tempo, ora immerse in una atmosfera senza tempo, e calate in un iperuraneo che custodisce quanto è stato conservato nella “Memoria del Carrubo”.
E sono fatti che, come fiori, compongono un bouquet di cui il lettore riceve sensitivamente il profumo antico di una storia che vive ancora in ognuno di noi.
Che dirti, mio caro Elio? Che da sempre ho privilegiato la musica alla poesia, fino a stanotte, però, fino al momento in cui le tue parole sono giunte alle mie orecchie con la dolcezza di un canto lontano e soave, che mi prendeva l’animo in forza di un equilibrio e di una forza che mi richiama la poesia dei classici greci.
Per chiudere, mi domando come si possa raccontare la storia rivivendola come fai tu, sull’onda delle emozioni e dei ricordi, restituendone tutta quella drammaticità che meriterebbe essere consegnata alla scena di un teatro.
Ora, più che mai, sono rammaricato per essermi lasciato sfuggire quella occasione, per non essere stato presente quella sera del 19 agosto quando tu hai letto in anteprima questo tuo lavoro. Ma forse si è trattato di una fortunata congiuntura. Difatti, non avrei mai pensato che dalla lettura di un testo di prosa, potesse sprigionarsi tanta dolcezza, tanta ricchezza spirituale, tanta poesia, che è poi quella che alberga nella tua anima e fa parte della tua cultura.
Gino Carbonaro
P.S. Adesso sono le sei meno un quarto.
Veramente questo libro non mi ha fatto dormire!